Per quanto riguarda le colonie italiane, tali corpi militari furono quelli dei cosiddetti ascari. La narrazione costruita dai colonialisti dipinge gli ascari come buoni e servili amici degli italiani, ovviamente di rango umanamente inferiore, pronti a sacrificarsi come carne da cannone per i loro padroni. La voce degli ascari non entra, evidentemente, nelle cronache coloniali.
Per queste ragioni, appare un’operazione importante quella compiuta dalla Tamu edizioni di Napoli che ha pubblicato in italiano il breve romanzo L’ascaro di Ghebreyesus Hailu (traduzione di Uoldelul Chelati Dirar, prefazione di Maaza Mangiste, postfazione di Alessandra Ferrini, pp. 140, €15). Si tratta di un libro scritto nel 1927 ma pubblicato in tigrino solo nel 1950 per non incorrere nella censura italiana e che ha avuto in seguito traduzioni in arabo e in inglese.
Edito con il sottotitolo una storia anticoloniale il volume racconta l’esperienza di un giovane abissino che si arruola nei reparti ascari e viene inviato per due anni a combattere in Libia, nell’ambito dell’aggressione italiana a quel paese nel 1911.
Il giovane Tequabo, come si chiama il protagonista della vicenda, non compie tale scelta per ragioni economiche, essendo di famiglia agiata, bensì per desiderio di avventura e per la ricerca di una vita eroica. Per questi motivi, nell’ambito della situazione coloniale, si indirizza verso la vita militare nelle truppe italiane.
Seppure affascinato dal lungo viaggio verso la Libia, compiuto attraverso il mare che vede per la prima volta e che lo porta a conoscere nuove realtà e popolazioni, Tequabo vede infrangersi ben presto le sue illusioni. Anzitutto si rende rapidamente conto della disparità di trattamento riservata agli italiani e agli ascari, della violenza degli ufficiali che considerano gli africani essere inferiori ma rapidamente matura in lui anche la coscienza di essere un colonizzato che combatte un altro popolo stando dalla parte degli oppressori. Più volte, nel romanzo, appare la considerazione che Tequabo ha dei libici, un popolo di pastori che difende fieramente, in condizioni d’inferiorità militare, il proprio paese, confrontata con l’incapacità degli habesha, il popolo di Tequabo, a respingere l’occupazione italiana.
...gli habesha hanno assistito in silenzio alla conquista del loro paese da parte degli italiani e si sono lasciati sottomettere, inginocchiandosi come animali privi di coscienza. Come se non bastasse, si stavano ora preparando a combattere contro queste genti intenzionate a lottare per proteggere il proprio paese. Il colonizzato, utilizzato a sua volta come strumento di colonizzazione altrui, era venuto fin qui non per trarre un beneficio per sé o per il proprio paese, ma per sottomettere invece questi conterranei che, anche se distanti, erano pur sempre figli d’Africa (p. 85).Per questo, come osserva il traduttore nel suo scritto introduttivo:
...la valenza politica del testo è duplice: da un lato è una lucida e determinata critica del colonialismo italiano e della sua violenza strutturale, dall’altro è una denuncia altrettanto lucida dell’asservimento della popolazione eritrea al dominio coloniale. L’autore fustiga ripetutamente i giovani eritrei per non aver saputo reagire con fierezza e determinazione alla minaccia coloniale limitandosi ad assecondarla passivamente (p. 35).Al termine dei due anni trascorsi in Libia, salvatosi in maniera rocambolesca da una situazione in cui gli ufficiali italiani abbandonano gli ascari in pieno deserto senza cibo e acqua, Tequabo torna a casa, dove scopre che in sua assenza la madre è morta con il dolore di non poterlo rivedere e il padre è stanco e disperato. Chiede il congedo e torna a vivere nel suo villaggio tormentato dal ricordo della morte della madre.
La postfazione di Alessandra Ferrini pone in luce come le conseguenze delle politiche coloniali volte a dividere e fomentare inimicizia e vendette tra i popoli sottomessi allunghi la sua ombra anche sull’oggi.
Infatti, per quanto questa non sia la sola ragione alla base delle incessanti violenze subite dai migranti eritrei che attualmente attraversano la Libia – o che si trovano all’interno dei campi di detenzione lì finanziati dall’Italia con la complicità dell’Unione Europea –, è comunque un elemento presente. L’ascaro ci dimostra quindi come la necropolitica sia il fattore primario di connessione tra il passato coloniale e le odierne politiche neoimperialiste nel Mediterraneo (p. 132).
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