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05/09/2024

Oasis - I dischi degli anni Duemila

Come dirla, se non con queste parole? Wipe that tear away now from your eyes. Perché accadrà davvero. Nel 2025, gli Oasis torneranno assieme. Se non sono ancora maturi i tempi di una vera e propria reunion, ciò che è certo è che torneranno a suonare dal vivo in una tournée oltremanica, non solo a Wembley e nella scontata Manchester, ma anche a Cardiff, Dublino e Edimburgo. Per ora queste sono le date ufficiali, previste per la prossima estate. Se la leggenda rivivrà in concerto, ancora non si hanno news su un nuovo album di canzoni – ma in fondo, qualcuno davvero lo vuole? Non ci basta forse l’idea di rivederli lì, Liam e Noel Gallagher, di nuovo insieme sullo stesso palco a cantare i classici che amiamo? L’annuncio arriva a quasi quindici anni esatti dalla rottura, cadendo diabolicamente a un solo giorno di anticipo dall’anniversario: questa volta è il 27 agosto, nel 2009 fu il 28, quando un’aspra lite, l’ennesima, avvenuta tra i due fratelli prima di un concerto a Parigi, pose definitivamente fine all’epopea della band di Manchester.

Con oggi la storia del gruppo conosce invece un nuovo corso, ma il motivo per cui non riesco del tutto a farmi trascinare dall’entusiasmo risiede nella paranoia di un eventuale passaggio in Italia e che si esprime, da un lato, in una non meglio definibile “ansia da prestazione dello spettattore”, per quello che dovrebbe (deve!) essere il concerto della vita, dall’altro nella preoccupazione per i prezzi impossibili di questo possibile evento (sul serio, quello del costo dei biglietti è un problema reale: è un sistema folle, che distruggerà ciò in cui crediamo e l’indulgenza a spendere certe cifre non ha nulla a che fare col nostro amore per la musica).

A pensarci meglio, questa sottile angoscia nasconde forse cause più profonde. Band del cuore o meno, un amore interrotto resta sempre un’esperienza violenta, sanabile ma mai del tutto curabile. E sì, con le debite proporzioni, perdere il gruppo della vita a quattordici anni rientra in questo tipo di esperienze, perciò gli Oasis di domani non sono e mai potranno tornare a essere, per me, ciò che sono stati un tempo. Eppur non riesco proprio a trattenere la gioia, assieme alla meraviglia per come questa riconciliazione dia una forma compiuta ai miei ultimi quindici anni: quindici anni senza Oasis, d’accordo, durante i quali sono però cresciuto e cambiato da ogni prospettiva, cominciati in quella lontana estate del 2009, quella della spaccatura, alla fine delle medie, in un tornado di ormoni, quando le granite erano buone e proprio grazie a quel gruppo maturavo l’idea della musica come una questione identitaria, un’autentica ragione di vita; e che si concludono con la band di nuovo assieme, ora, all’alba dei miei trent’anni.

Scrivo mentre sulla pagina Facebook di questo sito, sotto la news della reunion degli Oasis, un utente commenta tuonante: “I più sopravvalutati della storia, odiosi e banalissimi”, riconoscendo quantomeno ai mancuniani un primato in qualcosa: poteva andar peggio! Posto che la notizia di una band riunita non dovrebbe riguardare nessuno che odi così visceralmente la stessa, prima che la Rete inghiotta e restituisca per sempre queste erudite opinioni al grande nulla da cui provengono, ho voluto chiamare in causa tali commenti poiché colgono due argomenti di interesse reale – la banalità degli Oasis e l’odio verso tale banalità – oltre a farmi da assist per introdurre il vero scopo di questi paragrafi: sprofondare nei meandri degli Oasis più dozzinali, fino a toccare il centro nevralgico della loro proverbiale Banalità. Perché sono tutti buoni a salvare i Gallagher tenendo a mente le melodie indimenticabili di "Definitely Maybe" e "Morning Glory", ma in pochi hanno il coraggio di difendere la loro causa e allo stesso tempo calarsi in fondo a quel pozzo di citazionismo, furbizia e arroganza che risponde al nome di “Oasis dei Duemila”. Ma io sono qua per questo.

Il paradosso è che gli Oasis dei Duemila iniziano nel ’97. Per “Oasis dei Duemila”, a scanso di equivoci, s’intende quella forma ancor più megalomane, coatta, cafona e perculabile del gruppo di sbruffoncelli che metà anni Novanta conquistò il mondo con l’irresistibile richiamo dei suoi inni britpop. Siamo quindi al 1997, 21 agosto, e gli scaffali dei negozi di dischi sono ricolmi delle copie di "Be Here Now", l’attesissimo terzo album per l’iconica band di Manchester, appena uscito dopo mesi e mesi di hype. I primi due lavori sono stati dei classici istantanei, i due concerti-evento di Knebworth 1996 un trionfo e in molti già parlano della più grossa band britannica dai tempi dei Beatles: tutto sembra annunciare un terzo grande successo.

Invece così non è. Non si sa bene cosa si sia rotto nei due anni che li separa, ma tra "(What’s The Story?) Morning Glory" e "Be Here Now" ci passano oceani. Dove uno è un grande album, ispirato e vivace, l’altro ne è una ripresa stanca e sovraccarica. Sebbene le vendite all’uscita furono ottime – figlie soprattutto dall’aspettativa enorme che l’accompagnò – "Be Here Now" fu nettamente un passo falso. E ciò nonostante ancora oggi qualsiasi radio generalista trasmetta “Stand By Me” almeno una volta giorno, che “Don’t Go Away” sia stata a lungo la seconda canzone più suonata nei falò europei dopo “Wonderwall”, “D’You Know What I Mean?” sia un signor pezzo d’apertura e con “I Hope, I Think, I Know” i Gallagher abbiano indovinato il cult per i fan.

Però il disco, che pur non stravolge la formula vincente del gruppo, non è davvero buono. Qualcuno ne dà la colpa alle forti tensioni interne al gruppo, altri al produttore sbagliato (un Owen Morris fuori fuoco), mentre Noel ha sempre parlato della troppa cocaina che girava in studio. Ma ciò che appare lampante è la mancanza di ispirazione: con “All Around The World” (dieci minuti) cercano di incidere la loro “Hey Jude”, senza ricordarsi di averla già trovata con “Champagne Supernova”; in “Fade In-Out” chiamano Johnny Depp per suonare l’elettrica, e a quanto pare non è mai una buona idea coinvolgere Depp in un progetto rock; detta in breve, nessuna delle sopracitate vale quanto il pezzo meno significativo di "Morning Glory" (per molti è “Hey Now!”, io dico “Cast No Shadow”). Il fatto che la canzone più bella di questo periodo sia la gioiosa “Stay Young”, una B-side che potete trovare nella raccolta di rarità “The Masterplan”, spiega tutto sulla casualità e sulla confusione del momento.

Da qui in avanti, fino allo scioglimento del gruppo che avverrà improvvisamente nel 2009, i nuovi successi dei mancuniani non smetteranno di rimandare alle intuizioni che nei primi due album li hanno resi delle eterne icone dei Novanta. Persino il suddetto “The Masterplan”, pubblicato nel 1998, con tutte le sue gemme nascoste tratte da questi primi anni dorati, ha più che altro il sapore agrodolce di un canto del cigno per l’era britpop.

Gli Oasis dei Duemila sono gli Oasis minori: questa è la sintesi dell’opinione popolare sulla questione, nonché, grosso modo, la verità. Eppure, va detto che questi Oasis, da sempre vituperati dalla critica “colta”, sono qualcosa che oggi semplicemente manca. Dove sono finite le melodie di “Little By Little” e “Stop Crying Your Heart Out” nel pop di oggi? Gli scontati, irresistibili riff di “Lyla” e “The Hindu Times”? E ballate come “Songbird” e “Let There Be Love”? Sono svanite, come i sogni che avevamo da bambini.

È abbastanza facile parlare di quanto gli Oasis fossero “simili a”, semplici, prevedibili; lo è di meno cercare la magia al centro di questa semplicità, il battito segreto nel cuore di questa straordinaria pop band. Ciò non cancella che gli Oasis dei Duemila arrivino al 2000 un po’ scarichi di idee – e senza due dei loro componenti storici, Paul “Bonehead” Arthurs e Paul “Guigsy” McGuigan, chitarra e basso, che durante la gestazione del nuovo disco vengono soppiantati dai più bravi ma meno amati Gem Archer e Andy Bell (sì, quello dei Ride).

Esce a febbraio "Standing In The Shoulders Of Giants", che è notoriamente il disco peggiore dei Gallagher. Ma è davvero così?

Difficile dire il contrario, sebbene il sound più ruvido del singolo di lancio “Go Let It Out”, nonché del successivo “Who Feels Love?”, entrambi su misura di un Liam dalla voce sempre più infeltrita da cigarettes & alcohol, lasci presagire una coerente evoluzione per la band. Così come la strumentale “Fuckin' In The Bushes”, la canzone più pesante, in senso hard-rock, che gli Oasis abbiano inciso. Vale la pena dedicarle qualche altra parola: questa è veramente una opening song colossale, con un riff granitico rubacchiato ai Led Zeppelin e una batteria presa pari-pari da Jimi Hendrix (breve parentesi: gli Oasis sono sempre stati molto eleganti nel “citare”, vorrei che gli fosse maggiormente riconosciuto). Non ho mai trovato spiegazione su come Noel abbia composto un pezzo così lontano dalle sue corde, ma non resta che toglier la ragione e sognare in pace.

Nonostante un’apertura ottima e due piacevoli singoli di presentazione, il disco ha tuttavia un problema nelle restanti canzoni – tra cui si può escludere la mesta “Sunday Morning Call”, l’altro singolo cantato da Noel. Tutte le altre sono al loro meglio anonime e “Little James”, la prima canzone di Liam, dedicata al figlio, non è semplicemente degna di una band di questa fama. Nel loro tentativo di ripartire da territori lontani dal britpop, gli Oasis restano prigionieri di quello che sembra un bad trip da droghe tagliate male. Ciò che più appesantisce i brani, oltre a una scrittura più scarsa che al solito, è proprio il modo in cui sono infradiciati di una vaga e confusa idea di psichedelia, una cosa con cui Noel Gallagher ha sempre mostrato scarso feeling – fatto salvo per le sue collaborazioni con i Chemical Brothers, ai quali probabilmente va tutto il merito. Per capirci: qualcuno ha il coraggio di dire che “Gas Panic!” non sia un disastro, e non so davvero come faccia.

Insomma, gli Oasis si presentano al nuovo millennio con un disco oscuro e confusionario, diciamo pure mal riuscito, ed è così che le belle sorprese, ancora una volta, arrivano dai lati B dei loro singoli. In particolare, splendono “Carry Us All” e “Full On”, entrambe B-side di “Sunday Morning Call” e cantate da Noel, due convincenti esempi di Oasis alternativi e pronti a lasciarsi dietro gli anni Novanta. Esce anche un album live del concerto a Wembley, "Familiar To Millions", di cui si ricorda soprattutto una grande “Supersonic”, ma la verità è che il tour è tutt’altro che trionfale. I due fratelli non si sopportano più, fanno a pugni ormai ogni giorno e a un certo punto Noel decide di mollare band e tournée, lasciando Liam come unico frontman e obbligando il pubblico a far da voce nel ritornello di “Acquiesce”. Tornerà a far parte del gruppo a settembre 2000, finito il tour.

Per quanto anch’esso ascrivibile tra i dischi minori degli Oasis, "Heaten Chemistry" del 2002 porta con sé una bella novità: la canzone migliore è scritta da Liam. Vogliamo parlare di quanto è bella “Songbird”? Non solo l’acustica che scintilla, ma la spinta di quell’organo radioso, con battimani e tamburello incalzanti, d’incoraggiamento, quella melodia svelta e indiscutibilmente, incorruttibilmente bella, quel “she’s not anyone” che non vorresti ascoltare altro, e l’armonica giusto di passaggio, un scarabocchio nel vento. Siamo di fronte a un grande esempio di Oasis dei Duemila al loro meglio, e a una perla incompresa del pop inglese, se ce n’è una. Esce come doppio singolo assieme a “She’s Love”, scritta dal fratello, e non c’è davvero paragone.

Per il resto, "Heaten Chemistry" mette in campo il peggio e il meglio del songwriting di Noel. Da un lato abbiamo i singoli, memorabili; dall’altro una sfilza di riempitivi incapaci di restare in testa. Parliamo quindi delle cose buone: “The Hindu Times” ha un riff di chitarra appiccicoso (anche qui, una specie di ripresa di “Even Better Than The Real Thing” degli U2) e un perfetto ritornello nonsense (“‘Cause god give me soul in your rock ’n roll, babe!”), due cose che gridano “Oasis” da ogni poro e che non bastano mai; “Little By Little” è il picco del Noel romantico, amico, fratello; e “Stop Crying Your Heart Out” è aperta e sognante, semplicemente un instant classic.

Delle altre canzoni, non si salva nulla. Nonostante sia trainato dai suoi ottimi singoli, nettamente superiori a quelli del disco precedente, l'album non fa un buon servizio agli Oasis e alla loro fama di pigri citazionisti. Siamo a tre dischi di fila che non solo “non sono ‘Definitely Maybe’”, ma non si spingono molto oltre la mediocrità. Giunti a dieci anni di carriera, dopo le grandi premesse dei primi due album, i Gallagher sembrano ormai solo una band inglese di maniera, come tante – e il paragone con l’evoluzione sperimentale degli ex-rivali Blur si fa sempre più impietoso.

Ma è tempo di un altro cambio tra le fila della band. Via Alan White, batterista dai tempi di "Morning Glory", per lasciar spazio a un figlio d’arte: l’ottimo Zach Starkey, figlio di Ringo Starr. Come complesso di musicisti, gli Oasis non sono mai stati più maturi e coesi di adesso. Si aspetta solo una resurrezione nella scrittura. Arriverà tre anni dopo: 2005, nuovo album. Che inizia senza sorprese: “Turn Up The Sun”, con la sua malinconia circolare e il suo travolgente refrain, continua la tradizione dei bei pezzi d’apertura degli Oasis, mai mancati nemmeno nei loro dischi più brutti. Ma la grande novità è che "Don’t Believe the Truth" è finalmente un bell’album front-to-back, nonché il migliore dai tempi di "Morning Glory". Il singolo di punta “Lyla” o, come la definirà Noel, “la mia canzone più pop dai tempi di 'Roll With It'”, è felice in ogni senso possibile, dall’umore alle intuizioni; nel caso abbiate riserve, osservate la potenza con cui travolge il pubblico di Manchester nel live di quell’anno e la marea di persone che salta galvanizzata. Metà delle canzoni in tracklist sono non-di-Noel, e sono tutte buone: Gem Archer fa il suo in “A Bell Will Ring”, Andy Bell pure (la già citata opener è sua), Liam convince ancora con l’energica “The Meaning Of Soul”.

Ma tutto il resto è puro Noel show: prima con la cavalcata piano-rock “Mucky Fingers”, quindi nell’oscura “Part Of The Queue”, infine nel capolavoro “The Importance Of Being Idle”, la “Don’ Look Back In Anger” per gli Oasis dei Duemila, che vanta uno dei loro solo migliori.

E poi c’è la canzone conclusiva, una ballad. Liam e Noel cantano assieme come non facevano da “Acquiesce” e mentre il tempo sfuma e le parole si trattengono, tutto splende nella sua tenue chiarezza. È tutto nei cinque minuti di “Let There Be Love” l’esatto motivo per cui non ho mai comprato i dischi di Noel Gallagher da solista, per cui non sono mai andato a vedere Liam che canta “Supersonic” agli I-Days, per cui non ho mai dato retta a chi diceva che almeno continuavano da soli, ed erano pur sempre loro. Come si replica una cosa così? Come puoi fingere che sia lo stesso?

Del successivo e ad oggi ultimo "Dig Out Your Soul", targato 2008, non è rimasto poi tanto. Gli Oasis si presentano duri e incazzati, carichi di suono, di psichedelia spalmata come strati di melassa, vedi l’uno-due iniziale con "Bag It Up" e "The Turning", in perfetto accordo con l’energia supersonica del singolo di lancio “The Shock Of The Lightning”. E va bene, Noel rifà il Macca più bucolico in “(Get Off Your) Eye Horse Lady", e con la triste “Falling Down” emoziona a dovere, ma stavolta è di nuovo l’altro fratello a brillare, e la canzone che resta è la sua. Secondo shout-out, allora, per il Liam autore: vogliamo parlare di quanto è bella “I’m Outta Time”? In altre parole: Lennon rivive, e intendo quello solista, delle ballate gravi al pianoforte, tipo “Jealous Guy”. Mal fidenti, vi vedo. Ma questo non è rifare, è far propria una lezione, è capire l’ingranaggio di una pop song come si deve, il malinconico innesco di una ballata in Sol maggiore, il volo di un ritornello sognante: “‘Cause if I have to go/ in my heart you grow/ and that’s where you belong”. Semplicemente magnifica.

Anche a priori, quello dell’album è un corso dal sapore di epilogo, partito con una raccolta di canzoni di rabbia implosa, a tratti tormentate, e proseguito con un tour mondiale che si infrange in quel 28 agosto maledetto, nel backstage del Rock En Seine a Parigi, in cui volano sedie, Noel molla il gruppo e qualcosa si rompe – così credevamo – per sempre. Quindi ognuno per la sua strada, fino ad oggi: Noel ha fatto Noel coi suoi High Flying Birds, di cui ricordiamo soprattutto un bel primo album; Liam ha prima trasformato ciò che rimaneva degli Oasis nei dimenticati Beady Eye, quindi è passato anche lui a un’ordinaria carriera solista, non particolarmente brillante, ridestata a inizio di quest’anno dal buon disco di inediti scritti assieme a John Squire degli Stone Roses.

Ma ora che i fratelli sono di nuovo assieme, è come se da quell’agosto di quindici anni fa non fosse successo nulla e il tempo avesse conservato, intatta, l’aura della band originale.

Cosa sono stati, allora, gli Oasis dei Duemila? Per la prima volta sono stati loro stessi in pieno, coi loro pregi e difetti. Con i primi due album, i Gallagher hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità artistiche, forti di una serie di spinte favorevoli, figlie di quel preciso periodo storico: la forza intrinseca dei primi lavori, con tutte quelle cose da dire quando cominci, la moda britpop, la reazione alle durezze del grunge, la strafottenza dei vent’anni, la rivalità coi Blur, l’impressione di cogliere lo spirito della gioventù britannica di allora come nessuno dopo gli Smiths era più riuscito a fare.

Nel 1994 gli Oasis avevano un mercato discografico apparecchiato per il loro arrivo. Nei Duemila, l’emergere delle nuove culture pop – dall'hip-hop da club al crossover, dall'indie-rock americano alle nuove band britanniche, tutte correnti più legate al mutevole presente di inizio millennio rispetto al pop classico dei Gallagher – ha progressivamente allontanato la band di Manchester dallo spirito del tempo. Ed è lì che qualcosa è morto e qualcosa è nato. Dove è scemata l’onda d’urto, è nato il mestiere, il sesto senso, quell’istinto automatico per la melodia autentica, roba da cantare e da vivere. Non ne sto esaltando il genio, ma l’apertura alare, l’ampiezza del respiro, l’intangibile onestà che è in canzoni come “Litte By Little” e “Stop Crying Your Heart Out” che ancora suonano vere. Quando manca il genio, come nel caso di Noel, ci pensa il talento; ma finito il talento, ciò che resta è solo il cuore, e negli Oasis dei Duemila, in mezzo alle tante canzonacce dozzinali, in quei pochi e ammalianti momenti di luce pulsava un cuore enorme così.

Non vi è mai stata una goccia di umiltà nelle figure dei fratelli Gallagher, ma le loro canzoni parlavano un linguaggio universale che nessuno, mi vien da dire, sa più interpretare. Se mi chiedeste di più, sulla mistica origine di questo incantesimo, be’, di più non so dire... e forse è un bene che il tutto rimanga un po’ così, sospeso nel non detto. Perché un nuovo capitolo di questa storia è appena cominciato e sarà bello viverlo in diretta sotto al palco, lì, tutti assieme. Per tutti quelli che quella cosa, inspiegabile a parole, sanno perfettamente cosa sia.

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