L’automobile è stata la metafora della superiorità dell’Occidente capitalistico nei confronti del resto del mondo che andava a piedi o al massimo a cavallo. Ed anche il pivot della struttura industriale, rappresentando una merce di massa che garantiva in un colpo solo una percentuale rilevante dell’occupazione, dei consumi, del “benessere” e dei profitti per le imprese.
È stata anche il simbolo merceologico della “libertà”, in cui la possibilità di andare dove si vuole – compatibilmente con i confini e i rapporti internazionali – sostituiva e compensava le libertà effettive: quella di concorrere alla formazione delle decisioni politiche che riguardano la vita di tutti.
Adesso, nel giro di poche settimane, i segnali di crisi che covavano da anni sembrano condensarsi in un uno ciclone unico, da cui difficilmente uscirà un assetto tranquillizzante.
Ieri sera si è dimesso Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, il più pagato del settore (40 milioni di stipendio annuo, 100 milioni – si dice – di “buonuscita”). Al suo posto un “comitato esecutivo temporaneo” con al centro John Elkann, l’erede-guida della famiglia Agnelli, il cui “stile” sembra ben illustrato dalla causa legale che lo vede opposto... alla madre, Margherita.
Pesano sul gruppo il drastico calo delle vendite (il -17% solo ad ottobre, una quota di mercato del 14,4% contro il 17,4% di un anno fa), e quindi quello dei ricavi (nel terzo trimestre crollati del 27%). Il valore delle azioni era già sceso del 38%, e stamattina ha perso un altro 7%...
Ma pesa soprattutto l’assenza di una strategia adeguata ai cambiamenti nel settore, come del resto in tutta Europa e negli Stati Uniti. Stellantis è infatti ora una multinazionale che non ha più molto a che vedere con la Fiat dell’Avvocato. Fusioni e acquisizioni successive, con o dopo Sergio Marchionne, hanno portato sotto lo stesso tetto marchi storici di paesi diversi sulle due sponde dell’Atlantico: la stessa Fiat, Lancia, Maserati, Peugeot, Citroen, Chrysler, Jeep, Dodge e altri minori.
Deve quindi fare i conti con costi diversi a seconda della collocazione degli stabilimenti (più alto il costo del lavoro negli Usa, maggiore quello dell’energia in Europa, anche a causa della guerra in Ucraina che ha spinto a sostituire l’economico gas russo con il GNL Usa, a prezzo quadruplo). Ma anche con regole molto diverse relative alle emissioni (estremamente differenziate anche all’interno degli States, ma di nuovo in discussione nell’Unione Europea, che sta mettendo in forse il divieto di immatricolazione per diesel e benzina a partire dal 2035).
E qui la crisi di Stellantis si rivela la crisi di tutta l’auto occidentale. Stamattina è cominciato lo sciopero nel gruppo Volkswagen, che in Germania conta dieci stabilimenti di produzione di automobili e circa 300mila dipendenti, di cui 120mila del marchio VW (ci sono anche Audi, Porsche, Skoda, Seat, ecc.), il più colpito dal piano di risparmio proposto dal cda.
È un primo “sciopero di avvertimento”, comunica il sindacato IGMetall, ma potrebbe diventare “la lotta più dura di tutta la storia” del marchio. Calcolando che parliamo di un sindacato implicato nella co-gestione dell’azienda, dunque niente affatto “estremista” o “rivoltoso”, la situazione deve essere un po’ più che tragica.
Ma è un male comune. Da luglio a settembre, l’utile operativo (EBIT) di Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz è stato di circa 7,1 miliardi di euro – quasi la metà rispetto al terzo trimestre del 2023. Il fatturato complessivo è sceso di quasi il 6%, a 145,4 miliardi di euro. Anche queste altre azienda, insomma, stanno presentando piani di “razionalizzazione” che prevedono pesanti tagli ai costi, e quindi soprattutto all’occupazione.
Come si fa, d’altro canto, a delineare strategie industriali in un contesto dove la “competitività” è altissima, la capacità produttiva mondiale immensamente superiore alle possibilità di vendita, la “domanda” scende con l’erosione dei salari europei, l’innovazione tecnologica (ibrido ed elettrico) è improvvisamente congelata perché il “mercato europeo” non risponde (al contrario di quello cinese, dove l’elettrico ormai sta diventando maggioranza e quindi le auto europee non trovano più spazio, se non nelle nicchie extra-lusso)?
Le incertezze superano di gran lunga i punti fermi, che non sembrano esserci più. Al massimo, confessa il presidente di Anfia, Roberto Vavassori, si pensa a fare pressione per fermare la “transizione energetica”: «Chiediamo fortemente che nei primi 100 giorni di lavoro della Commissione Ue venga approvato, mantenendo inalterati scadenza e obiettivi del 2035, un piano di neutralità tecnologica». Insomma, “non penalizziamo i motori endoternici tradizionali” fin quando non avremo capito che fare.
Ma l’attesa e l’incertezza, spiegano proprio i classici del neoliberismo ora in crisi, condannano le imprese a “perdere l’occasione” e a restare indietro nella competizione tecnologica. Mentre invece i cinesi, già ora leader del settore, accelerano la loro corsa.
E non c’è solo il problema della “competizione” o dei profitti per le imprese del settore. Perché, come detto all’inizio, il settore automobilistico è un pilastro della società capitalistica “liberale” occidentale. Solo in Europa impiega 14 milioni di lavoratori, tra diretti e indiretti (subfornitori, venditori, meccanici, ecc.), il 6,1% dell’occupazione. Una fetta altissima del Pil per Germania, Francia, Italia, Spagna, Cechia, Polonia, Romania, ecc.
Un crollo qui non sarà una “crisi settoriale”. Basti pensare che lo sciopero in Volkswagen – in attesa di quelli in Bmw, Ford e Mercedes – si incrocia immediatamente con l’avvio della campagna elettorale, per le elezioni politiche anticipate in Germania. Pace sociale e stabilità politica di solito vanno assieme, anche e soprattutto quando “non vanno”...
Non si scherza più. E non ci si può neanche adagiare sull’abitudine ai “tempi lunghi” propri di ogni analisi della “crisi del capitalismo”.
È qui, ci siamo dentro.
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