In un editoriale sul “New York Times” dello scorso giugno, Jimmy Carter ha definito “vergognosa” la politica americana post-11 settembre.
E lo ha fatto citando la violazione della privacy attraverso
“intercettazioni senza precedenti”; gli omicidi mirati da parte della
CIA; la legalizzazione del diritto di detenere indefinitamente i
sospetti terroristi; l’uso continuo dei droni sui civili in Afghanistan, Pakistan, Somalia, Yemen. Per l’ex-presidente si tratta di politiche antiterrorismo
che “violano almeno 10 dei 30 articoli della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani”, e che segnalano che “il nostro Paese non ha più
l’autorità morale per parlare di diritti”.
Una risposta alle affermazioni di Carter è venuta qualche giorno dopo da parte di John Brennan, senior adviser della Casa Bianca
sulle questioni antiterrorismo. Gli attacchi dei droni, ha spiegato,
sono perfettamente “legali”, “morali”, persino “saggi” perché consentono
di “salvare i nostri uomini e donne in uniforme” e “rimuovere i
terroristi dal campo di battaglia”. Brennan ha riaffermato la
“trasparenza” della politica americana in tema di terrorismo,
aggiungendo che, “anche se al-Qaeda è l’ombra di quello che era”, la war on terror americana non è destinata a concludersi nel futuro immediato.
A 11 anni dalla strage, dunque, la guerra continua. Oggi è però soprattutto il giorno del ricordo e i nomi delle 2977 vittime di Due Torri e Pentagono
saranno pronunciati ad alta voce, come sempre, a New York e in tanti
altri centri grandi e piccoli. Forse ci sarà un po’ meno intensità,
rispetto all’anno scorso, quando cadde il decennale. In tempi di campagna elettorale
sono del resto altri i numeri che vengono più spesso ricordati –
soprattutto i 23 milioni di americani senza un lavoro – e l’attacco
diventa storia condivisa più che cronaca urgente. Si sbaglierebbe
comunque ad archiviare come memoria quel giorno di settembre di 11 anni
fa. “L’11 settembre rimane tra noi – ci spiega David Cole, uno dei più importanti costituzionalisti americani. E’ l’evento che ha accelerato processi di limitazione delle libertà in atto da decenni. Nessuno, nemmeno l’elezione di un presidente come Barack Obama, è riuscito a frenare il fenomeno”. Norme eccezionali come il Patriot Act,
la legge antiterrorismo fatta votare da George Bush all’indomani
dell’attacco, “sono ormai diventate patrimonio integrante della
legislazione americana”, spiega Cole, e Guantanamo (dove
ieri un detenuto è stato trovato morto), nonostante i tentativi di
Obama di chiuderlo, rimane attivo e operante, con i suoi 168 sospetti
terroristi ancora detenuti, in larga parte privati di habeas corpus
e diritto alla difesa. Il loro futuro, con ogni probabilità, dipende
dai tribunali militari istituiti da Bush e reintrodotti da Obama.
Proprio
su Obama, in questi mesi, si è concentrato il dibattito. Il presidente,
costituzionalista di formazione, era stato eletto nel 2008 suscitando
favore e speranze nei gruppi per i diritti civili. Nel 2010 Angelo Romero, executive director dell’American Civil Liberties Union,
ha però dismesso gli entusiasmi e detto di essere “disgustato” da
Obama. In compenso questa amministrazione ha incassato lodi e appoggio
da parte dei falchi del precedente governo. Jack Goldsmith, il
funzionario del Dipartimento di giustizia che ha personalmente approvato
tortura e spionaggio domestico, ha scritto su “New Republic” che Obama è
stato più efficace di Bush in tema di lotta al terrorismo. Michael
Hayden, ex-direttore della CIA, ha detto che c’è “una continuità potente
tra Bush e Obama”. E persino il falco dei falchi, l’ex-vicepresidente
Dick Cheney, ha raccontato che Obama si è reso conto “che quello che
abbiamo fatto è stato giusto”.
Quello che Obama ha fatto, in effetti, è rendere legale
ciò che il suo predecessore aveva mantenuto in una zona grigia, creando
al tempo stesso una struttura operativa in larga parte incurante delle
protezioni del Bill of Rights. Obama ha oggi il potere di ordinare un
assassinio senza dover prima passare da Congresso o
tribunali. Obama è stato il primo presidente a festeggiare pubblicamente
l’omicidio di un cittadino americano. E’ successo in Virginia,
nell’ottobre 2011, quando il presidente ha celebrato l’eliminazione di Anwar al-Awlaki,
militante di al-Qaeda nato in New Mexico, contro cui la giustizia
americana non ha mai levato alcuna accusa formale. Obama è il primo
presidente USA a permettere che un cittadino, americano e non, possa
finire in galera indefinitamente e senza accesso a un tribunale. Bush
l’aveva fatto ampiamente, con José Padilla e le altre migliaia di
arrestati dopo l’11 settembre, senza però mai legalizzare la cosa. Obama
è stato più sistematico e ha firmato il National Defense Authorization
Act del 2012, che consente di riempire legalmente le carceri dei paesi
amici – Bagram, Afghanistan, anzitutto – di sospetti terroristi, senza
che il governo americano debba provare nulla.
“Il vero salto di
qualità riguarda però le politiche interne”, ci spiega ancora David
Cole. Se infatti l’amministrazione Bush aveva rivolto gran parte della
sua attenzione all’estero, quella di Obama ha stretto il cerchio
all’interno. La National Security Agency sta oggi costruendo tra le montagne dello Utah il più vasto e capillare centro di spionaggio
al mondo che, come afferma James Bamforth di Wired.com, avrà il compito
di “intercettare, decifrare, analizzare, immagazzinare gran parte dei
dati e delle informazioni che transitano per i network mondiali”. Il
centro, chiamato genericamente Utah Data Center e costato 2 miliardi di
dollari, sarà operativo dal settembre 2013. Certa la collaborazione di
provider e società delle telecomunicazioni nazionali,
cui il Congresso nel 2008 ha garantito l’immunità nei casi di passaggio
non autorizzato al governo USA di informazioni riservate dei loro
clienti. Quelle società sono anzi i migliori collaboratori, in quanto la
Costituzione limita l’attività di spionaggio del governo, non quella
delle società private.
L’involuzione seguita all’11 settembre ha toccato tante altre aree della vita degli americani. C’è stato il giro di vite contro Wikileaks e chi, come il soldato Bradley Manning,
ha diffuso informazioni classificate sui modi in cui in questi anni è
stata gestita la war on terror – il trattamento particolarmente inumano
di Manning, tenuto in isolamento per quasi un anno in un carcere
militare della Virginia, è considerato da alcuni come un avvertimento a
eventuali altri whistleblowers, delatori, in possesso
di informazioni riservate sulle indagini che hanno portato all’uccisione
di Osama bin-Laden -. C’è stata la progressiva militarizzazione
di gran parte delle agenzie statali e federali, soprattutto dell’ICE,
l’Immigration and Customs Enforcement. E c’è stata, per l’appunto, la
trasformazione dell’immigrazione da questione sociale in tema di ordine
pubblico. Oltre la nota legge anti-immigrati dell’Arizona, hanno
sollevato proteste e polemiche le nuove norme delle “Secure Communities”
che il governo federale applica da quest’estate a New York, in
Massachusetts e in altre zone del Paese, e che hanno portato
all’espulsione di migliaia di migranti colpevoli di reati minori o
amministrativi.
La lista potrebbe essere ancora lunga e contenere, per esempio, la sostanziale impunità offerta dal Dipartimento di giustizia
agli agenti CIA responsabili della morte di prigionieri sotto loro
custodia. Solo due tra questi sono stati perseguiti e quindi assolti per
la morte di Gul Rahman e Manadel al-Jamal: il primo legato nudo a un
muro di cemento gelato della prigione; il secondo fatto penzolare a
testa in giù sino a quando del sangue cominciò a fuoriuscire dalla
bocca. Le indagini militari avevano accusato gli agenti di omicidio. Il
Dipartimento di giustizia, nell’assolverli, ha concluso che “non
esistono nei due casi prove sufficienti e al di là di ogni ragionevole
dubbio”.
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