In
questo senso l’accusa di “fascismo”, poi vedremo in che modo, lanciata
da Bersani sostanzialmente contro Grillo e Di Pietro è qualcosa che
merita un livello minimo di analisi. Facciamo un passo indietro: da
tempo circola un video, commentato da Grillo e Di Pietro, dove Bersani,
assieme ad altri protagonisti della politica istituzionale, è
raffigurato come uno zombie. E qui bisogna vincere la voglia di
affermare la verità, e cioè che Bersani e gli altri non sono solo dei
morti viventi ma ne rappresentano l’epifania, e guardare alle reazioni
del segretario del Pd. Bersani ha infatti accusato chi dà dello zombie
ai dirigenti del Pd di essere un “fascista”, anzi un “fascista del web”
che sta cercando di riproporre al paese una nuova stagione
diciannovista. Tutte la categorie usate meritano attenzione. Vediamo
come.
L’uso dell’accusa di fascismo
all’interno della sinistra, e poi del centrosinistra, è vecchio più o
meno quanto le camice nere. A lungo, entro modi e linguaggi molto
diversi, l’accusa di fascismo è servita per indicare un pericolo esterno
(il fascismo, appunto, in molteplici forme) ma anche quello di un forte
autoritarismo interno alla sinistra (ed è qui che l’accusa di fascismo è
stata scambiata, poi sostituita, con quella di stalinismo). La novità
storica, preceduta da significative censure contro singole lotte
all’epoca dell’occupazione delle terre in Sicilia, irrompe con il ’77
quando il Pci costruisce l’accusa di “diciannovismo” nei confronti del
movimento. E’ la prima volta in cui un movimento di sinistra viene
accusato, dal maggior partito della sinistra, di contribuire a generare
il fascismo. Accusa, quella di diciannovismo, che non è di poco conto
nella cultura antifascista ma, cosa spesso dimenticata, ricavata da un
concetto che nasce da un libro di Pietro Nenni (“Il diciannovismo”,
uscito nel quarantennale della marcia su Roma). Le tesi di Nenni sono
piuttosto chiare: l’ascesa del fascismo è stata favorita dall’estremismo
di destra e dal massimalismo di sinistra, e anche da ibridazioni tra
questi due estremi, che hanno delegittimato il parlamento, isolato la
sinistra riformista, spaccato in due la classe operaia. Nenni scrive
all’epoca dell’accordo storico tra Dc e Psi ed è evidente l’uso
politico, proprio perchè Nenni aveva anche la stoffa dello storico, di
queste concezioni: mentre il Psi va al governo con la Dc, chi lo critica
rischia di guardare oggettivamente al massimalismo genere 1919, facendo
il gioco delle destre. Un modo, all’epoca elegante, per pararsi a
sinistra mentre ci si alleava con la Dc, un partito che pochissimi anni
prima, proprio grazie all’intesa con le destre, aveva costituito il
governo Tambroni. L’accusa di diciannovismo rivolta dal Pci, all’epoca
nell’area di governo della Dc di Andreotti, nei confronti del movimento
del’77 non sarà però una polemica politica nascosta sotto le pieghe di
significato costruite dalla storiografia. Si tratterà di una accusa,
diretta, sul campo contro un’area politica ed una generazione. L’accusa
di preparare il fascismo, grazie alla quale il Pci si comportò di
conseguenza con una stagione di leggi speciali “a difesa della
democrazia”. E che il lessico e i riti di quella stagione siano ancora
celebrati oggi dalle istituzioni deve essere oggetto di riflessione.
Il
diciannovismo del ’77 marca però uno spartiacque storico: da quel
momento in poi l’accusa di fascismo, o di connivenza con le destre
pericolose per la democrazia, sarà rivolta in maniera quasi esclusiva
verso sinistra. Le polemiche sul rischio di fascismo saranno rivolte
contro quei soggetti di sinistra non riconducibili alle strategie della
sinistra istituzionale prima o del centrosinistra poi. Non è finita:
chi, da quel momento in poi e specie dagli anni ‘80, leggerà la storia
in modo diverso da quella del principale partito del centrosinistra sarà
accusato di revisionismo. Come per i Nolte o i Faurisson. Verso il
resto della società italiana, specie verso destra, dopo la fine del Pci
il centrosinistra non sarà così intransigente. Da Luciano Violante che,
aprendo la legislatura della bicamerale (quella delle “riforme” da fare
con Berlusconi) parlò apertamente e pubblicamente di comprensione delle
ragioni ideali dei “ragazzi di Salò” (usando praticamente le stesse
espressioni di uno scritto di Giovanni Gentile sulle ragioni
dell’adesione al fascismo repubblichino) alla istituzione della festa
della memoria sulle foibe (comunque la si veda, tema caro alla destra
italiana del dopoguerra) all’azzeramento della memoria delle stragi
coloniali italiane in Africa e Dalmazia, alla riduzione ai minimi
termini del ruolo dell’antifascismo nella vita pubblica etc.
Per
arrivare alla cronaca si capisce perché Bersani accusi di fascismo, e
di diciannovismo, Grillo e Di Pietro mentre esponenti nazionali del Pd
allegramente presentano (alle feste democratiche) i libri sulla
sessualità del Duce (scritto così come fanno a destra). E mentre si
tace, al livello politico nazionale che conta, sulla rete di camerati
messa in piedi dal sindaco Alemanno per governare Roma, sulle
aggressioni che i fascisti (quelli veri) non mancano mai di fare, sulle
recenti e gravi commemorazioni pubbliche al generale Graziani (fascista e
autore di gravissime stragi, anche con uso massiccio di gas, in Libia e
in Abissinia). La spiegazione di tutto questo non è certo difficile:
l’accusa di fascismo oggi va spesa solo verso chi si pensa essere
qualcuno che ti sottrae i consensi che hai all’interno. Serve quindi per
accumulare pressione politica nel processo di costruzione, o di
rigenerazione, della propria superiorità morale, delegittimare i propri
competitor politici di area, compattare il proprio elettorato ed
evitare, ammonendolo implicitamente, che si senta tentato da un nuovo
tipo di rappresentanza.
Allo stesso
tempo, verso l’esterno, la legittimazione di temi, fatti, argomenti e
concetti di destra (sulla naturalizzazione nel Pd del decisionismo, che è
una mistica politica della destra, traghettata in “democrazia” anche
qui dal Psi ci sarebbe molto da dire) serve non solo per mantenere un
livello diplomatico con l’avversario (non più nemico, anzi alleato vista
la composizione del governo di oggi) ma anche per attirarne gli
elettori. Secondo la logica del partito generalista, il catch-all-party
del marketing politico americano (del resto dalle primarie al nome, nel
Pd si è importato molto da oltreoceano, in passato anche qualche costoso
consulente) per cui per vincere (concetto ripetuto fino all’ossessione
dal Pd, rimuovendo il nome di chi nella politica italiana ha costruito
la propria fama sull’uso di quel concetto) bisogna saper pescare
elettori anche nello schieramento avversario. E se accusi gli elettori
di destra di essere fascisti, specie quando lo sono, si sentiranno
talmente stigmatizzati e disprezzati da non votarti mai. Perchè hai
delimitato nettamente il campo, provando ad emarginare gli altri,
mentre, per attirare voti dall’altra parte, devi confondere i confini.
Strategia consapevolmente diciannovista quella del Pd, confondere i
confini, ma guai ad ammetterlo. Bisogna, appunto, vincere e per questo
ci vogliono anche i voti della destra. I cui elettori saranno sempre
rappresentati come “moderati”, secondo la strana bussola della politica
italiana di oggi in cui gli estremisti pericolosi stanno a sinistra o in
chi critica il centrosinistra ma non è di destra. Già perchè in tutto
questo antifascismo del Pd, è impossibile trovare una campagna, ma neanche
una parola, sulle nuove destre quelle vere. Non a caso quindi, al
momento della stesura della carta dei valori fondativi del Pd,
l’antifascismo non trovò posto. Seguirono polemiche, aggiustamenti, ma
il dato parlava, e parla, da solo.
Il
Pd è quindi un partito sia “antifascista” che postdemocratico, sia
vigile nei confronti del diciannovismo che revisionista e silenzioso, a
livello nazionale, rispetto agli eccessi delle destre. Come devono
esserlo i cartelli elettorali, che prendono voti sapendo intercettare i
flussi di opinione pubblica usando le categorie in quel momento utili
per intercettarli. Con una regola aurea tutta italiana: usare la
categoria di fascismo all’interno del proprio campo elettorale
(centrosinistra, sinistre, elettori in uscita) e mai verso i fascisti.
Non è poi nemmeno da trascurare la categoria di “fascista del web” che,
per quanto assurda e usata per temperare l’accusa di fascismo a Di
Pietro e Grillo, svela quel sottofondo di cultura della fobia della rete
ormai preda del gruppo dirigente del Pd. Intendiamoci, dopo i primi
entusiasmi dell’epoca della fondazione del partito, i social network si
sono rivelati per il Pd un vero e proprio, continuo Vietnam. La rete in
Italia si esprime come una critica infinita ad ogni aspetto del Pd, le
stesse pagine Facebook del partito democratico servono più come critica
che come sostegno. Meglio allora accoppiare il sostantivo “web”
all’aggettivo “fascista” nel tentativo di far scattare, con il
meccanismo del sospetto, tattiche di controllo dell’elettorato. Dietro
Bersani, che parla in tv contro il pericoli di fascismo provenienti dal
web, c’è il tentativo di rilegittimare la credibilità di uno strumento oggi
regressivo della comunicazione politica, la televisione, perché è
l’unico che è in mano al ceto politico istituzionale.
Ma
sia il Pd che Di Pietro o Grillo sono i prodotti di una lunga stagione,
detta “della fine delle ideologie” (riprendendo, ben oltre il contesto
storico che le hanno prodotte, le teorie di Daniel Bell) che i confini
tra destra e sinistra li ha smontati quanto possibile. Ma si tratta, al
momento, di prodotti diversi. Quello Pd, che si esercita in nome del
“non ci sono alternative” cerca di produrre argomenti validi per creare
consenso attorno alla più cruda stagione di neoliberismo di questo
paese. Quello di Grillo e Di Pietro si esercita parlando a chi è
“effetto collaterale” di queste politiche, che ha persino possibilità di
diventare maggioritario. Si tratta, ogni modo, di differenti tipi di
catch-all-party, destinati a riprodurre stratificazione e
verticalizzazione sociale proprio perché sovrappongono tipi di
elettorato socialmente molto diversi tra di loro. Le accuse di
“corruzione” o di “populismo”, la prima rivolta da Grillo al Pd la
seconda a ruoli di accusa invertiti, sono quindi speculari perché
rivolte tra cartelli elettorali generalisti. Che si contendono non solo
fasce di elettorato ma anche un metodo: accumulare consenso
sovrapponendo strati di società diversi provenienti indifferentemente da
destra o da sinistra.
Certo,
dall’accusa di diciannovismo rivolta al movimento dal Pci, mentre faceva
l’accordo con la Dc di Andreotti, e quella rivolta a Grillo, mentre il
Pd ha l’accordo di governo con l’Udc, siamo all’ennesima conferma
dell’analisi marxiana che vede la storia accadere come tragedia per
ripetersi poi come farsa. Del resto l’accumulazione della politica come
spettacolo, con un comico che va contro un segretario di partito che ha
fatto da spalla ad un altro comico (un successone su youtube), si
riproduce proprio in questi passaggi. Ma non va affatto sottovalutata la
concretezza che sta dietro questa continua accumulazione di spettacolo
propedeutica alla estrazione di consenso politico. Il Pd cerca la
vittoria elettorale per garantire la più pericolosa e letale, persino
rispetto alle precedenti, ristrutturazione liberista della società
italiana. Al netto della propaganda dove il partito democratico si è
smarcato dal linguaggio liberista, per raccogliere consensi in chi ha
subito le stesse politiche che il Pd ha votato, si tratta di un disegno
criminale che garantirebbe a questo paese di percorrere fino in fondo un
decennio perduto che lo stesso Fmi, guardiano del liberismo mondiale,
esplicitamente vede per le stesse politiche liberiste in Europa. Bersani
quindi non è tanto un fallito, come dice Grillo, ma quel genere di
disperato che, per mantenere gli assetti di potere di cui fa parte, è
disposto a cacciare un intero paese in un ulteriore decennio di
disgrazie già previste e analizzate come tali. Strepitoso che la
propaganda Pd chiami tutto questo “senso di responsabilità”. E che
diversi residui della sinistra sperino, in qualche modo, di allearsi con
questo genere di disperati.
Grillo rappresenta invece la malattia
di un sistema politico che, per quello che può accadere, può anche
candidarsi ad uccidere il malato. Soprattutto se si tratta di quel
genere di malattia che si riproduce velocemente senza che il malato che
la ospita possa efficacemente produrre anticorpi, magari grazie ad una
cura. Probabilmente, senza aderire a nessuna delle offerte politiche in
campo, c’è però da augurarsi che la malattia faccia velocemente,
soprattutto in modo virulento, il suo corso. In politica bisogna
affrontare un problema alla volta.
Ed
oggi la possibilità che il Pd trascini il paese nell’abisso,
possibilità concreta dietro la fraseologia banale di un partito senza
alcun spessore culturale e umano, è il primo vero problema da
affrontare. Di antifascisti come Bersani gli antifascisti reali non solo
non sanno che farsene. Ma soprattutto vedono il pericolo nero del
fascismo liberista delle procedure, dei protocolli, dei trattati di cui
il Pd è spontaneo portatore.
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