L’uccisione dell’ambasciatore Stevens è un serio colpo alla strategia statunitense
nel Medio Oriente delle “rivolte arabe”. La Libia dove hanno vinto i
“liberali” sta saltando e si riaffaccia la nemesi di Al Qaeda. La
“questione” siriana sta facendo saltare un progetto filato liscio fino a
poco tempo fa.
“Tutto è cambiato in meglio. Le persone sono più distese e aperte con americani, francesi e inglesi. Sono benvoluti” aveva scritto l’ambasciatore statunitense Chris Stevens a proposito della situazione in Libia dopo che era stata “liberata” dai bombardamenti della Nato e dai gruppi anti-Gheddafi da questa stessa sostenuti ed armati. I fatti lo hanno smentito piuttosto bruscamente.
L'amministrazione Usa, oltre a due navi militari e 200 marines, ha spedito in Libia anche alcuni agenti del Fbi. La pista che seguono ritiene che l'attacco alla missione Usa a Bengasi sia stato pianificato da un gruppo organizzato ma non direttamente legato alle proteste per il film su Maometto. Per una sorta di legge del contrappasso l’analisi del Fbi somiglia oggi alla dinamica delle rivolte arabe nei due diversi casi di Egitto e Libia un anno fa. Infatti secondo una fonte del governo Usa "La protesta del Cairo - si legge sul New York Times - sembra una mobilitazione spontanea contro il video anti-Islam prodotto dagli Usa. Al contrario, le persone che hanno attaccato l'ambasciata a Bengasi erano armati con mortai e granate”. A ben guardare è quello che era successo quando qualcuno, preso dall’euforia, aveva cominciato a parlare di rivolta spontanea anche in Libia, cosa che abbiamo contestato apertamente e pubblicamente.
Secondo le autorità Usa “alcune indicazioni suggeriscono che un gruppo organizzato abbia atteso l'opportunità delle proteste per attaccare, oppure che forse le abbia addirittura generate per coprire l'attacco".
Diversi think thank statunitensi e britannici tornano a tirare in ballo al Qaeda. L'attacco al consolato Usa a Bengasi, sarebbe stata una "vendetta per l'uccisione di Abu Yaya al-Libi, numero 2 di Al-Qaeda", ucciso da un drone in Pakistan nel giugno scorso. A Bengasi, ragionano gli analisti, "il lavoro e' stato fatto da una ventina di miliziani, preparati per un assalto armato". Si sarebbe trattato di un assalto in due tempi, con un primo attacco che ha costretto il personale del consolato a spostarsi in un luogo sicuro, dove poi sono stati colpiti. Secondo altre fonti, invece, la morte dell'ambasciatore sarebbe avvenuta per soffocamento da fumo mentre il diplomatico tentava di rifugiarsi sul tetto dell'ambasciata in fiamme.
Nell’ultimo mese in Libia la situazione si poteva dire tutt’altro che normalizzata. Il 3 agosto è esplosa una autobomba a Tripoli, una settimana dopo a Bengasi è stato ucciso il generale Mohamed Hadia, uno dei primi alti ufficiali che avevano disertato per passare nelle file dei ribelli, il 19 agosto altre due autobombe sono esplose a Tripoli davanti al ministero dell’Interno e l’Accademia militare; il giorno dopo c’è stato un attentato contro un diplomatico egiziano. Il governo libico, per ragioni tutte interne, ha puntato il dito contro "nostalgici del vecchio regime" di Muammar Gheddafi. Il sottosegretario del ministero dell'Interno libico per la parte orientale del Paese, Wanis Asharef in una conferenza stampa ripresa ha indicato l'attacco all’ambasciata Usa a Bendasi come ritorsione per l'estradizione dell'ex capo dell'intelligence sotto Muammar Gheddafi, Abdullah Senussi, trasferito a Tripoli all'inizio di settembre dopo essere stato arrestato cinque mesi fa in Mauritania. Una chiave di lettura decisamente sballata e piuttosto consolatoria.
L’amministrazione Obama con il discorso del Cairo tre anni fa aveva avviato la sua strategia in Medio Oriente. Con il criterio di “Evolution but not revolution” aveva poi elaborato il suo approccio alle “rivolte arabe” ottenendo dei cambiamenti di regime funzionali ai propri interessi e al compromesso storico con una parte dell’islam politico di ispirazione (e finanziamenti) saudita. La cosa aveva funzionato in un certo modo in Egitto e Tunisia (e con Hamas in Palestina) e con un altro in Libia. Adesso doveva funzionare anche in Siria ma qualcosa non sta andando per il verso giusto.
La nemesi di Al Qaeda torna così ad alimentare gli incubi delle amministrazioni presidenziali statunitensi. Ogni volta che gli Usa creano un alleato creano anche il proprio nemico e viceversa. Alleati con Al Qaeda contro l’Urss e nella ex Jugoslavia prima e nemici mortali poi, di nuovo alleati in Siria e adesso di nuovo in rotta di collisione. I soldi dell’Arabia Saudita e del Qatar potrebbero non bastare sempre a metterci una pezza.
Fonte
C'è poco da fare, la piccineria di Obama è definitivamente venuta a galla anche in politica internazionale.
Fortuna che l'hawaiano doveva essere il salto di qualità rispetto a Bush... me cojoni!
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