I
tempi infatti cambiano, anche velocemente, vista la dura situazione
nazionale e internazionale. Nel burrascoso triennio dell’ultimo governo
Berlusconi, Napolitano ha seguito di fatto la seguente linea: gioco di
interdizione formale, ma senza rompere clamorosamente (anche se ci è
andato vicino a causa di qualche pittoresca pretesa di decreto da parte
di Berlusconi), verso le leggi aziendali del presidente del consiglio
(comprese le leggi personali); gioco di difesa delle prerogative
istituzionali nel momento in cui il governo di centrodestra arrivava
vicino al piano rottura con l’ordinamento della repubblica (sempre a
causa delle leggi personali). La defestrazione di Berlusconi, su cui
Napolitano ha lavorato alacremente non prima di aver stoppato un Monti
già pronto nell’agosto 2011, chiude poi non solo una fase del settennato
ma anche della vita della repubblica. Pensare Napolitano con gli occhi
rivolti al periodo precedente alla caduta di Berlusconi è qualcosa che
può solo disorientare rispetto a quanto accade oggi.
Il
vero punto di svolta pubblico della presidenza Napolitano, che fa
completamente saltare le due considerazioni prevalenti all’epoca della
sua elezione, avviene a Bruges nell’autunno del 2011. Siamo nel periodo
rovente del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti. In quella
conferenza, nel Belgio dove ha sede l’Unione Europea, Napolitano
sostiene testualmente che per l’Italia è giunto il momento della
“necessaria cessione di una parte di sovranità”. Qualcosa di più grosso
della stessa cessione della sovranità monetaria, del trattato di
Maastricht e di tutti i vincoli posti fino a quel momento da Bruxelles.
Un presidente della repubblica che va all’estero in un momento cruciale
parlando di cessione di sovranità del proprio paese, senza alcun mandato
corale, dovrebbe quanto meno essere sotto controllo critico del
parlamento e dell’opinione pubblica. Ma, si sa, in molti paesi a
liberismo maturo (a suo tempo fece scuola la Nuova Zelanda) il modello
della pubblicità della discussione politica reale non viene praticato.
Basta che alcune reti e nessi istituzionali si parlino, decidano e poi
vengono compiuti atti forti, pubblici. Che magari vengono affogati nei
media grazie al gossip politico di giornata. Il resto, capisca o non
capisca (o faccia finta di non capire), seguirà necessariamente.
A
questa che è una seria, vera rottura, pubblica e politica, nei
confronti della costituzione, Napolitano ne fa seguire almeno un’altra
importante stavolta sul piano formale. E si parla dell’introduzione,
controfirmata (e prima ancora auspicata), in costituzione dell’obbligo
del pareggio di bilancio. La costituzionalizzazione del liberismo, di
cui il pareggio di bilancio è regola aurea, è una rottura epocale (alla
quale corrisponde, come da dettato liberista, una devoluzione accelerata
della protezione normativa del lavoro) tanto quanto è fragoroso il
silenzio con il quale è stata approvata.
Non si tratta di questioni da poco. Che cambiano la natura stessa dell’istituto della presidenza della repubblica. Una istituzione infatti che, prima che sia introdotta la costituzionalizzazione del liberismo, va all’estero a declamare pubblicamente, la propria cessione di sovranità significa una cosa: che questa istituzione si fa garante, verso l’estero, dell’esecutività della cessione del potere sovrano a livello continentale e nazionale. Niente a che vedere con la funzione del presidente della repubblica assegnata dalla costituzione del ’48, insomma. Già, ma con quale razionalità politica? Non ci vuole molto a capirlo, seguendo l’interpretazione dell’Economist. Testata, che segue Draghi passo per passo, e che ha interpretato un articolo del presidente della Bce per Die Zeit come una lettura estensiva e politica del ruolo della banca centrale europea. Lettura che ci fa comprendere verso quale ristrutturazione di ruolo e potere, e a quale livello di separazione dalla società e dal resto delle istituzioni, tenda il nucleo forte di poteri delle istituzioni italiane.
Non si tratta di questioni da poco. Che cambiano la natura stessa dell’istituto della presidenza della repubblica. Una istituzione infatti che, prima che sia introdotta la costituzionalizzazione del liberismo, va all’estero a declamare pubblicamente, la propria cessione di sovranità significa una cosa: che questa istituzione si fa garante, verso l’estero, dell’esecutività della cessione del potere sovrano a livello continentale e nazionale. Niente a che vedere con la funzione del presidente della repubblica assegnata dalla costituzione del ’48, insomma. Già, ma con quale razionalità politica? Non ci vuole molto a capirlo, seguendo l’interpretazione dell’Economist. Testata, che segue Draghi passo per passo, e che ha interpretato un articolo del presidente della Bce per Die Zeit come una lettura estensiva e politica del ruolo della banca centrale europea. Lettura che ci fa comprendere verso quale ristrutturazione di ruolo e potere, e a quale livello di separazione dalla società e dal resto delle istituzioni, tenda il nucleo forte di poteri delle istituzioni italiane.
Draghi, al di là delle
formule di rito, non intravede infatti un’unione politica per la
prossima fase dell’area euro, e qui la sentenza di Karlsruhe sembra
dargli ragione, ma “un accumulo di sovranità su selezionate politiche
economiche”. Tradotto in altri termini: una unione politica europea
significherebbe farsi carico dell’intera popolazione continentale,
mentre il liberismo è una politica che si materializza solo là dove si
può privatizzare e accumulare. Piuttosto è necessario un ulteriore
trasferimento selettivo di poteri rispetto al passato, verso una
evoluzione della governance economica e finanziaria, che renda possibile
quelle politiche performative richieste dalle leggi odierne di
concentrazione del grande capitale economico e finanziario. Leggi di
concentrazione del capitale che non coincidono più con la necessità di
governare gli stati ma con quella di potenziare le evoluzioni delle
politiche di governance. In poche parole il liberismo si concentra, nei
dispositivi di governance, dove pensa di innovare e accumulare, al resto
pensano gli spiriti animali delle singole società, l’atomizzazione
sociale dei mondi neoliberali, l’ordine pubblico e la provvidenza. Per
far questo naturalmente stati periferici come l’Italia devono trasferire
maggiori quote di sovranità ma non verso “una più compiuta unione
politica del continente”, come recitano le formule ufficiali, quanto
verso questo accumulo di sovranità di selezionate politiche economiche.
Accumulo che taglia in due il continente in un, invisibile quanto
robusto e costituito dalle tecnologie della governance, confine tra una
minoranza di inclusi ed una maggioranza di esclusi. La Bce più che la
grande politica tiene così in mano la big governance: essendo un attore
monetario e finanziario forte, autonomo che entra in dialettica con i
dispositivi di potere attivati dalla cessione di sovranità dei singoli
stati. Cessione che è un fenomeno rovinoso per paesi come l’Italia e una
sfida da affrontare per paesi come Francia e Germania. Napolitano, in
questo modo, è una figura di garanzia per quelle ristrette reti di
potere italiano che, proprio cedendo sovranità nazionale, pagano le
quote per entrare nel gioco della big governance. Se poi esistono
elettori del Pd che, alla festa di quel partito, si mettono la mano sul
cuore come i giocatori sudamericani quando parte l’inno nazionale
pensando a Napolitano e alla bandiera, nessuno può farci nulla. La
storia infinita degli abusi della credibilità popolare ha visto questo e
ben altro.
Dopo
il discorso di Bruges, e la costituzionalizzazione del liberismo, la
presidenza Napolitano si caratterizza infatti per la firma
sull’approvazione del fiscal compact, formalmente conseguente a questa
costituzionalizzazione: è l’oneroso impegno italiano ad approvare
meccanicamente i dispositivi di governance, su deficit e bilancio,
definiti nell’area euro. Per quanto il fiscal compact sia un dispositivo
altamente instabile sul piano normativo e finanziario (la Frankfurter
Rundschau su questo ha fatto ad inizio anno un articolo di rara
efficacia esplicativa sul piano giuridico ed economico) nelle intenzioni
di chi l’ha approvato rappresenta la formalizzazione di questo
trasferimento di sovranità. Mai discusso a livello pubblico in Italia,
mai posto a discussione in nessun passaggio elettorale. E, una volta
approvato, parole di Napolitano, questo trasferimento viene definito
come indiscutibile specie a livello di dibattito per le elezioni
politiche. In poche parole: si cambia la forma politica, sociale ed
economica dell’Italia, usando un parlamento in crisi, senza discussioni
reali e chi critica, o vuol sottoporre queste mutazioni alla volontà
popolare, è un populista. Quanto allo sganciamento dei nuclei forti
delle istituzioni italiane dalla società, e dal resto delle istituzioni,
bravo chi lo vede oggi. Al massimo, visto il livello del dibattito
politico attuale, sarà materia per gli storici.
Davvero viene da dire che se il fascismo realizzava i propri obiettivi politici usando il manganello come procedura oggi, con Napolitano garante, si usa la procedura come manganello. E, una volta chiusa la procedura, si può anche votare perché questo genere di norme è costruito come inattaccabile e indiscutibile. La retorica degli “impegni assunti con l’Europa” copre tutto.Finchè dura.
Davvero viene da dire che se il fascismo realizzava i propri obiettivi politici usando il manganello come procedura oggi, con Napolitano garante, si usa la procedura come manganello. E, una volta chiusa la procedura, si può anche votare perché questo genere di norme è costruito come inattaccabile e indiscutibile. La retorica degli “impegni assunti con l’Europa” copre tutto.Finchè dura.
Come
al solito però il diavolo ci mette maliziosamente la coda: questo
trasferimento di sovranità, verso selezionate politiche economiche e
finanziarie a livello continentale, non garantisce alcuna stabilità alle
stesse reti di potere italiane che vi si sono annidate dentro. La
contrazione economica italiana e il rischio di degenerazione della
situazione finanziaria nazionale, anche ma non solo a causa del rischio
sistemico dell’eurozona, sono tali da mettere in discussione le stesse
reti di potere che hanno promosso il trasferimento di sovranità verso la
governance europea. Istituzione che dimostra così sia la difficoltà di
governare realmente persino le proprie crisi che una sete di
trasferimento di potere, e di risorse, praticamente senza pausa di
continuità. Nella valorizzazione del grande capitale, nonostante questo
sforzo sistemico europeo, c’è qualcosa che non funziona, evidentemente.
Da cosa comprendiamo che lo stesso potere italiano, quello che ha
promosso il trasferimento di sovranità, è a rischio? Anche qui dalle
parole dello stesso Draghi il quale, nel più recente discorso pubblico,
ha detto chiaramente che gli aiuti finanziari (anche se qui la parola
“aiuti” va intesa in senso orwelliano) saranno concessi a paesi come
l’Italia e la Spagna, o la Slovenia, solo se questi accettano un
sostanziale, o peggio ancora formale, commissariamento. Per le reti di
potere italiane, di cui Napolitano si è fatto garante, che hanno operato
il trasferimento di sovranità descritto si tratterebbe di una secca
sconfitta. Avrebbero trasferito potere senza contropartita reale,
addirittura ponendo in discussione la loro stessa esistenza politica. La
discussione sul “Monti dopo Monti” che occupa le televisioni e i
giornali, come si vede, è tutt’altro che senza significato reale.
Significa piuttosto proseguire verso quelle politiche di bilancio,
quelle della “crescita” in assenza di una politica nazionale autonoma
non esistono, in modo tale da evitare il commissariamento, e quindi la
fine di un potere reale, delle stesse reti istituzionali che hanno
operato le ristrutturazioni in atto. Quelle in nome del quale si è
trasferita la sovranità italiana.
C’è
un però: nonostante il trasferimento di sovranità è rimasto il
“residuo” della sovranità originaria. Quella che, nelle democrazie
rappresentative come quella italiana, è chiamata sovranità popolare. Che
va contenuta e regolata altrimenti cade anche tutta questa architettura
del trasferimento di sovranità operata tramite Napolitano. In poche
parole, il rischio di chi ha ristrutturato il potere in italia consiste
nel fatto che si possono formare, alle elezioni, combinazioni di
maggioranze che entrano in conflitto con il trasferimento di sovranità
verso l’”Europa” avvenuto come operazione tecnica e naturale. In effetti
nel paese la situazione sociale è pessima, il risentimento verso i
partiti è generalizzato e qualcosa del genere può accadere a livello
elettorale. Anche qui, non a caso a questo punto, Napolitano si è fatto
pubblicamente garante, con un discorso esplicito, del controllo e della
riduzione a razionalità “europea” di qualsiasi tipo di maggioranza esca
dalle urne. E questo discorso pubblico, sulla sorveglianza degli
“impegni assunti con l’Europa”, secondo il classico schema dell’un per
cento che assume vincolanti impegni per il 99, rappresenta comunque una
sorta di coronamento della fine di un settennato. Napolitano è infatti
di fronte ad un bivio. Se dalla urne esce una maggioranza “europea”, che
vincola il 99 per cento della popolazione al trasferimento di sovranità
senza discussioni, allora la fine del settennato di Napolitano sarà di
tipo cerimoniale. Si celebrerà il trasferimento di sovranità, assieme
alla costituzionalizzazione del liberismo, come “contributo
all’integrazione tra istituzioni europee” che, come abbiamo visto,
invece è una sovrapposizione di quei pochi, per quanto complessi, poteri
necessari a garantire solo i terreni di accumulazione
economico-finanziari, spaccando l’europa in due (con i paesi singoli
disposti a macchia di leopardo tra zone in e out). Se invece dalle
elezioni non uscirà questo esito, ed è quello che si teme, allora ci si
prepari ad un Napolitano, proprio perchè consapevole di essere a fine
mandato, che si sente libero di operare qualche significativa forzatura.
Chi ha lavorato, alacremente bisogna dire, per trasferire la sovranità
in queso modo non si ferma certo davanti all’ultimo miglio. E la
creatività giuridica permette oggi miriadi di forme di golpe bianco.
Napolitano, comunque vadano le cose, passerà alla storia, nonostante le attese del 2006, come il garante del processo di dissoluzione reale della costituzione del ’48. Per molti un paradosso. Ma quando si sviluppa, in una carriera politica, applaudendo i carri armati in Ungheria e Cecoslovacchia per continuarla come ambasciatore del compromesso storico presso il governo Andreotti, tutto è possibile. E’ bene ricordarlo.
Napolitano, comunque vadano le cose, passerà alla storia, nonostante le attese del 2006, come il garante del processo di dissoluzione reale della costituzione del ’48. Per molti un paradosso. Ma quando si sviluppa, in una carriera politica, applaudendo i carri armati in Ungheria e Cecoslovacchia per continuarla come ambasciatore del compromesso storico presso il governo Andreotti, tutto è possibile. E’ bene ricordarlo.
Ps. Su quella
produzione permanente di avanspettacolo politico detta sinistra residua è
meglio ridursi a pochi cenni. Basti ricordare Asor Rosa che addirittura
suggerì, dalle pagine del Manifesto, un golpe a Napolitano per
liberarsi di Berlusconi. Oppure Nichi Vendola, il cui eclettismo
politico ha raggiunto livelli di vertigine, che ha recentemente detto di
sentirsi garantito da Napolitano proprio quando questi è entrato in
conflitto con la magistratura di Palermo sulla vicenda stato-mafia. Non
ci sarà da stupirsi se, con il successore di Napolitano, la sinistra
residua si costruirà tutta una mitologia dell’attuale presidente della
repubblica attribuendo al nuovo tutti gli orrori compiuti dal vecchio.
Certe aree culturali e politiche possono fare una cosa sola: rimettersi
alla serena clemenza dei futuri storici di questo periodo. Sempre se,
tra l’università voluta da Luigi Berlinguer e le politiche di rigore di
Monti e Napolitano, ci sarà ancora il mestiere di storico in questo
paese.
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