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17/09/2012

Il caso De Mauro, paradigma dei delitti di Stato

Se uno scrittore di libri gialli avesse voluto farne un thriller non ci sarebbe stato bisogno di romanzare nulla. Perché la storia di Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano palermitano L’Ora, è un giallo naturale, un omicidio dai tanti mandanti e dai molteplici moventi, che alla fine conduce ai piani alti dello Stato italiano.
Esattamente 42 anni fa De Mauro scompariva nel nulla, mentre stava per rientrare a casa dopo una lunga giornata di lavoro. L’ultima a vederlo fu la figlia Franca, che nella penombra di viale delle Magnolie (dove al civico 58 abitavano i De Mauro) scorse il padre mentre si rimetteva alla guida della sua Bmw blu scuro. Nell’abitacolo dell’automobile si erano materializzate tre oscure figure. “Amuninni”, andiamo, gridò uno dei passeggeri, e De Mauro mise in moto la macchina per l’ultimo viaggio della sua vita. Un viaggio che lo avrebbe condotto prima alla morte e poi a 40 anni di depistaggi. “E’ una cosa di mafia” si diceva sottovoce nelle strade palermitane.
Tre settimane dopo la scomparsa di De Mauro la squadra mobile di Palermo era pronta ad arrestare l’avvocato Vito Guarrasi, Mister X, braccio destro dell’allora presidente dell’Eni Eugenio Cefis ed eminenza grigia di tutti gli affari di Sicilia. Forse non era soltanto “cosa di mafia”.  Le manette ai polsi di Guarrasi però non scattarono mai. Nel frattempo il Sid, il servizio segreto della difesa, aveva chiamato a raccolta gli investigatori, impartendo un ordine definitivo: “non indagate su De Mauro”. E sulla fine del cronista dell’Ora calò un oblio lungo trent’anni.
A riaprire il caso, alla fine degli anni ’90, fu il sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia, autore negli anni ’90 di una lunga indagine che provò a scavare sulla fine del cronista dell’Ora. Calia capi come l’ordine di assassinare De Mauro fosse legato a doppio filo con l’ultima inchiesta a cui stava lavorando il cronista. Nell’estate del 1970 De Mauro infatti iniziò a lavorare per il regista Francescoo Rosi, che gli aveva chiesto di ricostruire gli ultimi giorni in Sicilia del presidente dell’Eni Enrico Mattei, poi precipitato con il suo Morane Saulnier al suolo di Bascapè la notte del 27 ottobre 1962. Dal lavoro di Pavia presero spunto i pm Antonio Ingroia e Sergio Demontis, che a Palermo portarono a processo il super boss Totò Riina, unico superstite di quella stagione di sangue. L’anno scorso la corte d’assise ha deciso però di assolvere il boss corleonese dall’accusa di essere il mandante del delitto De Mauro.
Ma nelle oltre duemila pagine delle motivazioni della sentenza, i giudici fissano alcuni punti chiave sul caso De Mauro, 42 anni dopo il rapimento. A cominciare dalla rilevanza dei vari pezzi del puzzle che nel frattempo sono spariti. Come la busta gialla notata più volte tra le mani del giornalista scomparso prima di morire, che conteneva probabilmente il lavoro definitivo per Rosi, il carteggio in cui si metteva nero su bianco l’inconfessabile segreto che stava alla base della morte di Mattei. De Mauro muore infatti perché ha scoperto con trent’anni d’anticipo la verità sulla fine del presidente dell’Eni, che non è morto per un incidente, ma è stato in realtà assassinato. Principale fonte del giornalista è Graziano Verzotto, già senatore democristiano e uomo dell’Eni in Sicilia, poi passato a dirigere l’Ente Minerario Siciliano. È Verzotto il primo a dare le “dritte” giuste a De Mauro sull’affaire Mattei, ma è lo stesso Verzotto che a un certo punto si tramuta in “giuda” del giornalista. Se Guarrasi è colpevole (dell’omicidio De Mauro n.d.r.), Verzotto lo è due volte di più” scrivono i giudici. I pezzi mancanti del caso De Mauro però sono più di uno, e seminati in fila conducono inevitabilmente ai vertici più alti dello Stato italiano. Non si spiega altrimenti come mai i fascicoli sulle indagini degli anni ’70 siano spariti persino dagli archivi della Polizia di Stato e da quelli del Ministero dell’Interno.
Il caso De Mauro è molto più che un singolo fatto di mafia, rientra in logiche molto più ampie dell’omicidio mafioso ed è piuttosto un esempio paradigmatico di cosa siano i delitti di Stato in questo paese, dove semplicemente a Cosa Nostra viene “appaltata” la parte esecutiva.
Nelle prime perquisizioni a casa De Mauro, gli inquirenti s’imbatterono anche nell’ordinatissimo archivio del giornalista. Decine di faldoni che contenevano articoli catalogati per argomento. Tra questi una carpetta, semivuota, con un grosso titolo scritto in nero: Petrolio. Lo stesso identico titolo che Pier Paolo Pasolini aveva scelto per il romanzo a cui stava lavorando,  nello stesso periodo in cui fu assassinato sul lungomare di Ostia la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975.  Questa però è un’altra storia. O forse no.

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