Da Nord a Sud, da Est, ad Ovest, in qualsiasi punto, di terra o di
mare, si approdi nella provincia di Taranto, la sensazione è di
essere giunti in un posto in cui l’intervento dell’uomo ha fatto
più danni che il resto. “Benvenuti a Taranto”, si legge a
malapena su ciò che resta di un cartello affisso su un ponteggio
alzato a cento metri dal mare, all’ingresso Nord della città, al
quale si arriva dall’Appia, la statale industriale. La scritta è
solo parzialmente visibile, essendo stata coperta quasi integralmente
dalle polveri dei minerali. Ma qui, non c’è solo quell’anomalia
tutta italiana, quel centro siderurgico, l’unico rimasto in Italia
a ciclo continuo, che si innalza alle porte della Città dei Due
Mari. Taranto, che però con quei bacini d’acqua salata, il Mar
Grande e il Mar Piccolo, in seguito all’industrializzazione, non ha
mai più avuto un rapporto diretto.
C’è un’intera provincia, che è stata calpestata, stuprata,
avvelenata nelle sue viscere, quelle della terra, e quelle del mare,
che è “come se fosse stato nascosto”. All’inizio del secolo
era stata la Marina militare a privare la città dell’affaccio sul
mar Piccolo. Nei primi anni ’60, invece, la costruzione dell’allora
Italsider, azienda a partecipazioni statali, - poi divenuta, nel
1995, Ilva, in seguito alla privatizzazione, - le privò anche
l’affaccio sul mar Grande.
Quel mare che non appartiene più alla città. Il Mar
piccolo, in particolare, un tempo “carezzava la città e la
sfamava”. Un mare unico che miscela acqua dolce e acqua salata,
attraversato da correnti ben temperate, che favoriscono la crescita
del pesce. Allora era battuto dai pescatori giorno e notte, ed era
ricoperto quasi per intero di allevamenti di cozze; quegli stessi
mitili, che ora, invece, si stanno avviando alla distruzione forzata,
a causa dell’avvelenamento prodotto in un intero secolo dal
transito di navi militari. Perché in quello stesso bacino, si trova
da più di cento anni, l’arsenale della marina militare italiana.
Che proprio in quel Mar Piccolo, continua a rimanere, nonostante sia
da vent’anni in fase di dismissione. A tenere compagnia
all’aeronautica Militare, che da quelle parti ha un deposito
sotterraneo di rifornimento: il più grande del Sud Italia, che serve
tutte le basi per aerei dell’Italia meridionale, e che viene
periodicamente rifornito con petroliere che entrando nel mar Piccolo
espongono quelle acque a gravi rischi. E se dovesse mai succedere
qualcosa, ai cittadini di Taranto non sarebbe concesso quasi nemmeno
di saperlo, dato che l’altissima presenza di infrastrutture e
servitù militari, fanno di quel “lago salato”, una zona
praticamente militarizzata. Ed anche di quell’altro mare, comunque,
quello che i tarantini chiamano il “Grande”, e che si apre a
perdita d’occhio oltre il ponte girevole, (la lingua di ferro che
collega la città vecchia alla nuova), la città non ne detiene
praticamente più la sovranità. Da quando, a metà degli anni
ottanta, si iniziò a costruire la nuova base navale, a due passi da
San Vito, in zona Chiapparo. Una base a comando italiano dotata di
alcune infrastrutture Nato, ad esempio quelle per il rifornimento.
Era la metà degli anni ottanta, la “cortina di ferro” che
separava Europa occidentale ed orientale stava per crollare, la
guerra fredda per finire. Ed anche il modello di difesa Nato stava
per mutare. Fu così che a Taranto si impose la costruzione della
nuova base militare, atta ad ospitare unità dell'Alleanza, inclusi i
sottomarini a propulsione nucleare, come quelli di cui sono dotati
Usa, Francia, Gran Bretagna. Nonostante l'energia nucleare sia stata
bandita dalle navi civili per la sua intrinseca pericolosità, ed i
reattori di cui sono dotati i sommergibili siano del tutto identici a
quelli delle centrali nucleari. Solo più piccoli, con minore
potenza, ma comportano allo stesso tempo un maggiore rischio di
fuoriuscita di radioattività, in quanto sono meno schermati e
protetti, per poter mantenere la leggerezza e la manovrabilità del
mezzo. Inoltre, i reattori dei sottomarini a propulsione nucleare,
sono soggetti ad urti e scontri, come è già avvenuto tante altre
volte nella storia. Come accadde ad esempio, al sottomarino Hartford,
che il 25 ottobre 2003, finì per incagliarsi nella secca delle
Bisce, poco a sud dell'Isoletta di Santo Stefano (La Maddalena),
nello stesso posto in cui l'istituto di ricerca francese Criirad ha
poi in seguito rilevato livelli abnormi di radioattività causati dal
Torio 134, un elemento che rientra nella catena dell'uranio. Ed i
militari Usa invece, mostrano di non avere alcuna attitudine a
mostrarsi trasparenti rispetto ai controlli, come dimostra il fatto
che proprio nei pressi della base Usa della Maddalena, non è
possibile svolgere il monitoraggio attendibile e completo della
radioattività, in quanto le autorità americane non autorizzano
analisi ravvicinate da parte delle autorità sanitarie italiane.
Chiamasi, questa, servitù militare. Anche a Taranto, le poche
indagini segnalano una presenza, seppure debole, di Cesio radioattivo
nei fondali. Ma anche qui c’è una servitù militare, di dimensione
strutturale ben evidente: una parte considerevole di città, infatti,
forse la più bella, quella ritratta in molti dipinti francesi del
1600 e del 1700, è ancora “coperta” e “nascosta” dietro
quella muraglia che condiziona la vita di Taranto da oltre un secolo.
Imposta dalla Marina Militare, un potere sempre fortissimo che, in
maniera silenziosa ma costante, detta le sue leggi alla stessa
maniera di quanto faccia l'industrialismo dell'Ilva. Il segreto
militare di fatto impedisce i monitoraggi necessari al rilevamento
dei livelli di radioattività nelle acque, anche se diversi studi
indipendenti hanno rilevato tracce di Cesio 137, imputabili solo al
transito di unità militari a propulsione nucleare. La “nuova”
base navale è infine integrata con una base aerea della Marina che
dista venti chilometri da Taranto, che è sita a Grottaglie; in essa
vi sono elicotteri, ed aerei della portaerei Garibaldi. Gli Harrier,
velivoli a decollo verticale, che sono in grado tecnicamente di
trasportare e lanciare bombe nucleari. Se pensate poi, che nel
porto di Taranto, - sono dati ufficiali dell'Assessorato Risorse del
Mare - giungono ogni anno circa 350 petroliere, capirete come il
rischio di una collisione fra una petroliera e un sottomarino
nucleare, non solo non è impossibile, ma avrebbe conseguenze
devastanti. Perché tra gli altri prodigi che le partecipazioni
statali hanno regalato a Taranto, c’è anche una grande raffineria
che affina il petrolio che giunge dalla Basilicata. L’Eni, che si
trova lungo la Strada Statale 106, la via del sole, direttrice
laterale che congiunge l’asse viario dello Jonio con l'Adriatico, e
che collega Taranto a Reggio Calabria. Due luoghi urbani dove si
specchia il passato e il presente del mito della modernizzazione
industriale, consumato e fallito nell’estremo lembo del meridione
italiano. Dove tra industrializzazione senza scrupoli, corruzione,
malavita e inquinamento ecologico, si consuma l'ultima pagina di una
vicenda, che ha legato, attraverso il collante ideologico e
strumentale dello scambio politico, la “questione meridionale”
alla “questione industriale” nella storia del nostro paese.
Interessi coincidenti con la logica dello sfruttamento selvaggio e
intensivo delle multinazionali di stato, che hanno depredato negli
anni le straordinarie risorse naturali ed energetiche di Calabria,
Basilicata, Puglia e Sicilia. L’accumulazione originaria del
meridione d’Italia.
“Mo avast”, invece, che nella vulgata tarentina significa,
com’è facile intuire, “Ora basta”, sembrò gridare Nettuno, il
dio del mare, quando negli anni scorsi la Gas Natural propose di
realizzare un rigassificatore nel porto di Taranto, a circa 700 metri
dalla raffineria Agip-Eni, che proprio qualche giorno fa è stata
teatro di un incendio, l’ennesimo incidente che ha causato il
ferimento di un operaio. Che ha riportato ustioni sul 15% del corpo,
ed è tuttora in prognosi riservata. In seguito a quello che è il
terzo incidente avvenuto nello stabilimento dallo scorso mese di
aprile: altri due episodi simili si sono verificati infatti il 7
aprile e 12 marzo. Senza feriti, fortunatamente.
“Mo avast”, fu anche e soprattutto il motto di quel movimento
che si opponeva alla costruzione del rigassificatore. Era il 2008, e
l’azione di pressione del Comitato costringeva il Consiglio
Comunale ad esprimere parere contrario alla realizzazione
dell’impianto. Approvando una mozione in cui si specificava “che
qualora il governo nazionale e regionale dovessero disattendere l’
atto d'indirizzo approvato dal Consiglio Comunale, lo stesso si farà
promotore di tutte le forme di mobilitazione e partecipazione
popolare ivi compresa l'indizione del referendum consultivo”. La
Provincia di Taranto, invece attraverso un’ intervista rilasciata
dal Presidente ancora in carica, Gianni Florido, Pd, così si
esprimeva: "Sul rigassificatore è stato Vendola in
persona, dopo il "no" di Brindisi, a chiedermi, per tener
buono il ministro Bersani, di riunire il Comitato tecnico della
Provincia perchè dicesse sì al rigassificatore ma ponendo delle
condizioni. Cosa che ho fatto, salvo poi essere per questo massacrato
in campagna elettorale con Vendola che è stato in silenzio".
La terra avvelenata. A Taranto non c’è solo il disastro
ambientale causato dall'Italsider e poi dall' Ilva, ed in generale,
dalla grande industria di Stato, con cui fare i conti. La salute
dell’intera provincia è minacciata da torrenti sotterranei di
veleni industriali. A cominciare dalla discarica Italcave, che si
trova lungola strada che collega Taranto a Statte, a 200 metri dalle
cokerie dell’Ilva. Riaperta dal Tar Lecce, che accolse nel
settembre del 2011, il ricorso dell’azienda contro il provvedimento
di chiusura deciso dalla Regione Puglia. Dopo soli tre giorni di
chiusura! Quando si dice che la giustizia deve fare velocemente il
suo corso, credo si intenda questo… La Regione Puglia aveva
ordinato il blocco dell’attività della discarica Italcave di
Taranto, diffidando il gestore dell’impianto complesso di discarica
di rifiuti speciali della società Italcave “allo smaltimento
dei rifiuti individuati dal codice Cer 19.12.12 riconducibili al
ciclo dei rifiuti urbani della Regione Campania”, ed al
tempo stesso “all’effettuazione entro 10 giorni dalla
comunicazione della presente, delle indagini analitiche con
riferimento ai rifiuti individuati dal Cer 19.12.12 riconducibili al
ciclo dei rifiuti urbani della Regione Campania”. Il
tribunale amministrativo regionale pugliese, lo stesso che da
settimane sarebbe nella bufera, per l’ipotetico coinvolgimento di
alcuni suoi giudici nell’inchiesta della procura di Taranto
“Ambiente venduto”; alcuni dei quali sarebbero accusati di aver
messo in piedi un sistema di sentenze compiacenti, proprio nei
confronti delle violazioni ambientali. Il Tar della Puglia, così
motivò la riapertura del sito Italcave con decorrenza immediata:
“Ritenuto che la società ricorrente, pur avendo contestato
con la nota del 22 settembre l’intimazione ad effettuare le
indagini analitiche, ha proceduto all’effettuazione delle stesse,
come risulta da una pluralità di prelievi di campioni di rifiuto
effettuati a partire dal 20/9/2011, risultanti da verbali depositati
in giudizio.
“Impianti complessi”, sono questi, per dirla con il linguaggio
paratecnico della regione Puglia. Come gli inceneritori. La cui
costruzione fu autorizzata per la prima volta nel 2003. Quell’anno
commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Puglia è
Raffaele Fitto (Pdl), allora presidente della Regione e fino
all’altro ieri ministro per gli Affari regionali. Il Commissario
delegato bandisce 6 gare per la realizzazione di altrettanti
“impianti complessi per il trattamento di rifiuti solidi urbani”,
da avviare al “recupero energetico”: inceneritori appunto. Cinque
di queste gare furono aggiudicate da Fitto, nel corso del 2004. E
tutte furono vinte da Cogeam, società del gruppo che fa capo ad Emma
Marcegaglia, ex presidente nazionale di Confidustria, in associazione
temporanea d’impresa con partner che si chiamano Lombardi Ecologia,
Tra.De.Co., Recuperi pugliesi, Geoambiente, società locali da sempre
attive nello smaltimento dei rifiuti. Ma nonostante i soldi spesi
attraverso gli “incentivi verdi” che lo Stato ha erogato, al
momento, in Regione è attivo un unico inceneritore. A Massafra,
in provincia di Taranto, ed è gestito da Appia Energy, altra società
del Gruppo Marcegaglia. A cui quell’impianto sta ormai stretto,
e quella quantità di cdr da smaltire non basta più. Colpa degli
incentivi che finiscono: “Fino a dicembre 2011, Appia Energy ha
goduto degli incentivi Cip6. E così, quell’inceneritore, ora dovrà
essere raddoppiato. Altrimenti sono sempre pronti i forni del
cementificio Cementir, che si trova lungo la stessa statale
Jonica, 106 a un passo dalla raffineria Eni; impianto per cui, il
gruppo Caltagirone, proprietario di Cementir, per poter
adeguare l’impianto all’incenerimento, ha appena ricevuto un
doppio finanziamento pubblico, da parte della Banca europea di
investimenti, e dalla Regione Puglia.
Raccontare i fallimenti politico-istituzionali sarebbe troppo
lungo: basterebbe ricordare però, soltanto la tardiva attivazione
del registro dei tumori jonico salentino, che ha impedito analisi
statistiche rigorose negli anni passati. O basterebbe citare cosa si
scrive in una relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta
sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, commentando
la situazione ambientale tarantina, nel Settembre del 2010: "solo
di recente è stato istituito nella provincia di Taranto un registro
dei tumori, benché si tratti di un territorio particolarmente a
rischio proprio per l'elevato carico inquinante concentrato nella
zona”. La provincia di Taranto, un luogo umiliato da uno
sviluppo economico perverso, e da una classe politica ed
imprenditoriale in larga parte complice di un disastro ambientale
unico per pericolosità, e gravità in Italia, ed anche in Europa.
Monnezza e mazzette. Scorie pericolose in cambio di soldi a
partiti e associazioni. Accade in Puglia: a Grottaglie, in provincia
di Taranto. Rifiuti interrati dalla società toscana Ecolevanteche
hanno avvelenano il territorio e gli esseri viventi. Una montagna di
rifiuti classificati come speciali: 1,6 milioni di metri cubi nei
primi due lotti, ormai saturi, e un recente ampliamento da 2,3
milioni metri cubi (il terzo lotto) con «scadenza di 10 anni e
prolungabile fino al completamento». Affidato alla società del
gruppo LGH (una società controllata da Cogeme Rovato, Aem Cremona,
Asm Pavia, Astem Lodi e Società Cremasca Servizi Crema), che ha
acquisito Ecolevante. Che ora, e per dieci anni, gestiranno il terzo
lotto considerato “un ampliamento naturale dell'attività di
discarica”. Finanziamenti per tacitare chi influisce a qualsiasi
livello del politico. Come gli assegni, i bonifici, le ricevute e le
quietanze che furono sequestrate al capo di gabinetto del Comune (da
giugno 1999), Carmelo Fanigliulo che avrebbe incassato per conto
terzi prima milioni di lire, poi migliaia di euro. Ed illeciti, come
quelli documentati dall’inchiesta denominata “Eldorado” della
Procura della Repubblica di Milano, conclusa nel marzo 2006. Le
indagini hanno evidenziato che dalla Campania, alcuni carichi di
rifiuti venivano portati vicino a Ravenna da un’azienda locale per
essere smaltiti. In realtà finivano nella discarica allora gestita
dalla Ecolevante. E con una banale falsificazione delle bolle, il
carico veniva rubricato come “rifiuti speciali non pericolosi”, e
così di conseguenza anche smaltito. Scorie industriali pericolose,
dunque, in cambio di mazzette. Un sistema ben oleato dalla dirigenza
di Ecolevante. Come cercò di dimostrare in un distinto procedimento
penale, il pm Daniela Putignano, che dispose la citazione davanti al
giudice monocratico di Grottaglie, degli imputati Christian Settanni,
in qualità di responsabile gestionale dell’unità operativa di
Grottaglie della Ecolevante; Paolo Boccini, legale rappresentante
della società; Francesca Maggio, responsabile tecnico dell’impianto;
Giuseppe Settanni, amministratore di fatto della discarica, in quanto
«accettavano e ricevevano in discarica conferimenti di rifiuti in
violazione dell’autorizzazione e delle prescrizioni di cui alla
determina del dirigente del settore ecologia ed ambiente della
Provincia di Taranto n. 173 del 14.12.2006 e del D.M. 3.8.2005».
Quest’ultimo dirigente, in particolare, fu destinatario di una
lettera ad opera di Lino De Guido, allora segretario organizzativo
DS, Federazione di Taranto: “Gentile dottor Giuseppe Settanni … è
prevista la partecipazione del sen. Nicola La Torre … Per il
contributo vorremmo contare sulla disponibilità di euro 10000. Nel
ringraziarla per la gentilezza, Le porgiamo i più cordiali saluti”.
Ma perché un cittadino dovrebbe versare di botto diecimila euro per
una visita nella sua città del senatore La Torre? Mah. Forse perché
quel senatore era uno dei capi di quel partito che in circa vent’anni
ha visto alternarsi due suoi esponenti, Vinci prima, e Bagnardi, poi
alla guida del comune di Grottaglie? Ipotesi.
Certo è, che il 27 luglio 1999, con la delibera numero 62 della
Giunta Consiliare, il Comune di Grottaglie dava “parere logistico
favorevole” alla realizzazione di una discarica per rifiuti
speciali (non tossico-nocivi di classe 2-Cat.B) in contrada La Torre
Caprarica, (a 4 chilometri dalla città delle ceramiche e dal centro
abitato di San Marzano di San Giuseppe. Un'area gravata da vincolo
idrogeologico - forestale, con terreni limitrofi interessati da
vigneti, oliveti, seminativi. In seguito, con un parere
tecnico-scientifico molto articolato, anche il professor Liberti del
Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale del Politecnico di
Bari, - lo stesso ex consulente della procura di Taranto, che ora
sarebbe indagato, dalla stessa procura ionica per aver ricevuto in un
autogrill, una busta con all’interno diecimila euro, dall’ex
responsabile relazioni esterne dell’Ilva, Girolamo Archinà, -
espresse il suo “parere favorevole”. Alla fine del 1999 il primo
lotto della discarica iniziava il suo esercizio effettivo e con
ordinanza numero 4 del 15 marzo 2001, il Commissario Delegato alla
Emergenza Ambientale della Regione Puglia (Raffaele Fitto)
autorizzava la prosecuzione all’esercizio del primo lotto fino al
15 luglio 2001. Il 25 ottobre 2000, poi, veniva stipulato fra il
Comune di Grottaglie e la Società Ecolevante, una convenzione
relativa alla gestione della discarica. Nella stessa si prevedeva
che, oltre a diverse royalties e prerogative economiche a favore del
Comune, che la Società Ecolevante si sarebbe impegnata a non
accettare in discarica rifiuti che fossero stati classificati come
“pericolosi”. Eppure il 22 settembre 1997, due anni prima
dell’autorizzazione all’esercizio della discarica, e non si
comprende a quale titolo, se non ipotizzando l'interramento occulto
di scorie radioattive, il Centro Ricerche Enea della Casaccia (Roma)
espresse “parere tecnico-scientifico positivo” circa la
fattibilità del progetto. Nel frattempo si scopre che la sezione
“monitoraggio ambientale discarica”, nel sito del Comune, non
viene aggiornata dal 2009. Perciò, anche qui come per la Marina
Militare c’è il segreto di stato? E cosa è stato effettivamente
smaltito presso la discarica gestita da Ecolevante spa nel corso di
tutti questi anni? Se quella terra potesse parlare racconterebbe di
un pezzo molto grande della provincia di Taranto, che è stata
stuprata, ed avvelenata nelle sue stesse viscere.
Veleni versus salute. Quello che racconterebbe un altro
lembo di terra ionica, e precisamente quello dell’Isola
Amministrativa chiamata “Taranto B”, distante 18 km dal
capoluogo: un’area compresa tra i comuni di Lizzano, Roccaforzata,
Fragagnano, Monteparano. Questa zona, che abbraccia campagne dagli
uliveti secolari, rigogliosi vigneti curati dalla sapienza dei
maestri contadini, scenario inconfondibile delle grandi dimore
storiche e delle antiche masserie, per quasi 40 anni è stata
utilizzata come discarica incontrollata da parte di tutta la
Provincia (ma anche da altre province, soprattutto del settentrione),
senza che vi siano mai stati controlli né quindi alcuna bonifica.
Prima c’è stata l’ingombrante presenza di cave di estrazione di
tufi; successivamente gli stessi gestori delle cave, con la
complicità di amministratori e politici compiacenti, hanno destinato
quel territorio al conferimento di rifiuti. Qui c’è un
imprenditore, in particolare, Giuseppe Vergine, proprietario
dell’omonima discarica e titolare ormai di un “marchio” nella
gestione dei rifiuti – pubblicizzato da un po’ tutti i media
“ufficiali” locali – che ha trasformato quelle vecchie cave in
un’occasione unica per lucrosi guadagni, sulla pelle dei cittadini
dell’intera provincia ovviamente, e sulla salute dei cittadini di
Lizzano, in particolare: i quali, per via dell’eccessiva vicinanza
dal centro abitato, circa 2 km, sono i più esposti ai veleni della
Vergine. Ormai, già da alcuni anni, gli abitanti accusano gli
effetti di questa situazione: cefalee, nausea, vomito, dissenteria,
irritazione alla bocca e alla gola, bruciore allo stomaco,
irritabilità e depressione. Ma non solo: negli ottocento esposti che
contengono testimonianze e dati scientifici, presentati alle autorità
competenti dall’associazione AttivaLizzano – che da anni vigila
sulle problematiche del territorio e sul rispetto del diritto alla
salute per i suoi residenti –, si fa riferimento a tantissimi casi
di asma, a numerosissimi casi di tumori (leucemie, linfomi, carcinomi
alla mammella, sarcomi ossei, carcinomi ai polmoni, al fegato), a
problemi alla tiroide e carcinomi. I dati e le considerazioni prodotte
dall’ARPA in particolare, evidenziano inequivocabilmente “la
presenza di esalazioni di acido solfidrico provenienti dalla
discarica Vergine s.p.a. in quantità tali da arrecare danni alla
salute dei cittadini”.
Qui, il rilascio della Valutazione di impatto ambientale, è
avvenuto attraverso un iter a dir poco grottesco. Infatti non è
stato preso in considerazione l’effetto cumulativo di 40 anni di
sversamenti, malgrado fosse già evidente una carenza negli strati di
impermeabilizzazione, palesata poi dalla relazione tecnica di
un’equipe di ingegneri (secondo la quale mancherebbe 1 metro di
strato di impermeabilizzazione). Dal 1982, infatti, tutte le
discariche devono sottostare al DPR 915/82 che obbliga
all’impermeabilizzazione dell’impianto per evitare che vengano
contaminate le falde acquifere ed il terreno. Tuttavia, proprio la
presenza in quella zona di discariche incontrollate precedenti
all’emanazione della norma, fa temere l’eventualità di una
contaminazione. Ma forse non importa, perché questa è un’attività
che determina un giro d’affari milionario. Nonostante la discarica
Vergine abbia reso più povera Lizzano: privando gli abitanti del
piacere di una serata all’aperto, del profumo della mattina, del
diritto alla salute, e della stessa dignità dell’esistenza.
Trasformando gli stessi comuni vicini in una sua appendice imponendo
un odore terribile, insopportabile, nauseabondo. Ed anche qui gravi
ombre pesano sulla stessa gestione: i dirigenti della società sono
stati infatti chiamati in causa in 3 diversi processi per traffico
illecito di rifiuti: la già citata Eldorado” del 2003, “Ragnatela”
del Giugno 2010, e “Spiderman” del Febbraio 2010.
La luce mediatica che, giustamente, in queste settimane si addensa
sull'Ilva, non deve far dimenticare che ci troviamo di fronte ad un
disastro ambientale e sociale complessivo, forse senza precedenti
nella stessa storia d’Italia, che coinvolge diversi attori pubblici
e privati, quelli stessi che cercano di usare la leva degli apparati
burocratici e militari, per cercare di impedire che a Taranto si crei
un movimento a favore di un altro modello di sviluppo deciso sulla
base delle compatibilità ambientali, e soprattutto deciso dai
cittadini di Taranto, senza servitù di sorta. E che negli anni
passati, quegli stessi attori politico-istituzionali ed
imprenditoriali hanno usato il potere mediatico, imponendo di
oscurare il racconto di quella terra e di quel mare. Ed è per questo
che noi invece continueremo a raccontarlo. Facendo inchiesta. Perché
l’inchiesta possa servire ai movimenti. Che a Taranto significa
cominciare a rovesciare il primo degli inganni: quello che, come
comprese prima di tutti Alex Langer più di venti anni fa, “è
un vero e proprio luogo comune truffaldino, quello che vorrebbe in
contrasto immanente il movimento ecologico con quello operaio, o più
in generale l'ecologia con il lavoro".
Fonte
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