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19/09/2012

Taranto: il racconto di un’intera provincia violentata e avvelenata

Da Nord a Sud, da Est, ad Ovest, in qualsiasi punto, di terra o di mare, si approdi nella provincia di Taranto, la sensazione è di essere giunti in un posto in cui l’intervento dell’uomo ha fatto più danni che il resto. “Benvenuti a Taranto”, si legge a malapena su ciò che resta di un cartello affisso su un ponteggio alzato a cento metri dal mare, all’ingresso Nord della città, al quale si arriva dall’Appia, la statale industriale. La scritta è solo parzialmente visibile, essendo stata coperta quasi integralmente dalle polveri dei minerali. Ma qui, non c’è solo quell’anomalia tutta italiana, quel centro siderurgico, l’unico rimasto in Italia a ciclo continuo, che si innalza alle porte della Città dei Due Mari. Taranto, che però con quei bacini d’acqua salata, il Mar Grande e il Mar Piccolo, in seguito all’industrializzazione, non ha mai più avuto un rapporto diretto.
C’è un’intera provincia, che è stata calpestata, stuprata, avvelenata nelle sue viscere, quelle della terra, e quelle del mare, che è “come se fosse stato nascosto”. All’inizio del secolo era stata la Marina militare a privare la città dell’affaccio sul mar Piccolo. Nei primi anni ’60, invece, la costruzione dell’allora Italsider, azienda a partecipazioni statali, - poi divenuta, nel 1995, Ilva, in seguito alla privatizzazione, - le privò anche l’affaccio sul mar Grande.

Quel mare che non appartiene più alla città. Il Mar piccolo, in particolare, un tempo “carezzava la città e la sfamava”. Un mare unico che miscela acqua dolce e acqua salata, attraversato da correnti ben temperate, che favoriscono la crescita del pesce. Allora era battuto dai pescatori giorno e notte, ed era ricoperto quasi per intero di allevamenti di cozze; quegli stessi mitili, che ora, invece, si stanno avviando alla distruzione forzata, a causa dell’avvelenamento prodotto in un intero secolo dal transito di navi militari. Perché in quello stesso bacino, si trova da più di cento anni, l’arsenale della marina militare italiana. Che proprio in quel Mar Piccolo, continua a rimanere, nonostante sia da vent’anni in fase di dismissione. A tenere compagnia all’aeronautica Militare, che da quelle parti ha un deposito sotterraneo di rifornimento: il più grande del Sud Italia, che serve tutte le basi per aerei dell’Italia meridionale, e che viene periodicamente rifornito con petroliere che entrando nel mar Piccolo espongono quelle acque a gravi rischi. E se dovesse mai succedere qualcosa, ai cittadini di Taranto non sarebbe concesso quasi nemmeno di saperlo, dato che l’altissima presenza di infrastrutture e servitù militari, fanno di quel “lago salato”, una zona praticamente militarizzata. Ed anche di quell’altro mare, comunque, quello che i tarantini chiamano il “Grande”, e che si apre a perdita d’occhio oltre il ponte girevole, (la lingua di ferro che collega la città vecchia alla nuova), la città non ne detiene praticamente più la sovranità. Da quando, a metà degli anni ottanta, si iniziò a costruire la nuova base navale, a due passi da San Vito, in zona Chiapparo. Una base a comando italiano dotata di alcune infrastrutture Nato, ad esempio quelle per il rifornimento.
Era la metà degli anni ottanta, la “cortina di ferro” che separava Europa occidentale ed orientale stava per crollare, la guerra fredda per finire. Ed anche il modello di difesa Nato stava per mutare. Fu così che a Taranto si impose la costruzione della nuova base militare, atta ad ospitare unità dell'Alleanza, inclusi i sottomarini a propulsione nucleare, come quelli di cui sono dotati Usa, Francia, Gran Bretagna. Nonostante l'energia nucleare sia stata bandita dalle navi civili per la sua intrinseca pericolosità, ed i reattori di cui sono dotati i sommergibili siano del tutto identici a quelli delle centrali nucleari. Solo più piccoli, con minore potenza, ma comportano allo stesso tempo un maggiore rischio di fuoriuscita di radioattività, in quanto sono meno schermati e protetti, per poter mantenere la leggerezza e la manovrabilità del mezzo. Inoltre, i reattori dei sottomarini a propulsione nucleare, sono soggetti ad urti e scontri, come è già avvenuto tante altre volte nella storia. Come accadde ad esempio, al sottomarino Hartford, che il 25 ottobre 2003, finì per incagliarsi nella secca delle Bisce, poco a sud dell'Isoletta di Santo Stefano (La Maddalena), nello stesso posto in cui l'istituto di ricerca francese Criirad ha poi in seguito rilevato livelli abnormi di radioattività causati dal Torio 134, un elemento che rientra nella catena dell'uranio. Ed i militari Usa invece, mostrano di non avere alcuna attitudine a mostrarsi trasparenti rispetto ai controlli, come dimostra il fatto che proprio nei pressi della base Usa della Maddalena, non è possibile svolgere il monitoraggio attendibile e completo della radioattività, in quanto le autorità americane non autorizzano analisi ravvicinate da parte delle autorità sanitarie italiane. Chiamasi, questa, servitù militare. Anche a Taranto, le poche indagini segnalano una presenza, seppure debole, di Cesio radioattivo nei fondali. Ma anche qui c’è una servitù militare, di dimensione strutturale ben evidente: una parte considerevole di città, infatti, forse la più bella, quella ritratta in molti dipinti francesi del 1600 e del 1700, è ancora “coperta” e “nascosta” dietro quella muraglia che condiziona la vita di Taranto da oltre un secolo. Imposta dalla Marina Militare, un potere sempre fortissimo che, in maniera silenziosa ma costante, detta le sue leggi alla stessa maniera di quanto faccia l'industrialismo dell'Ilva. Il segreto militare di fatto impedisce i monitoraggi necessari al rilevamento dei livelli di radioattività nelle acque, anche se diversi studi indipendenti hanno rilevato tracce di Cesio 137, imputabili solo al transito di unità militari a propulsione nucleare. La “nuova” base navale è infine integrata con una base aerea della Marina che dista venti chilometri da Taranto, che è sita a Grottaglie; in essa vi sono elicotteri, ed aerei della portaerei Garibaldi. Gli Harrier, velivoli a decollo verticale, che sono in grado tecnicamente di trasportare e lanciare bombe nucleari. Se pensate poi, che nel porto di Taranto, - sono dati ufficiali dell'Assessorato Risorse del Mare - giungono ogni anno circa 350 petroliere, capirete come il rischio di una collisione fra una petroliera e un sottomarino nucleare, non solo non è impossibile, ma avrebbe conseguenze devastanti. Perché tra gli altri prodigi che le partecipazioni statali hanno regalato a Taranto, c’è anche una grande raffineria che affina il petrolio che giunge dalla Basilicata. L’Eni, che si trova lungo la Strada Statale 106, la via del sole, direttrice laterale che congiunge l’asse viario dello Jonio con l'Adriatico, e che collega Taranto a Reggio Calabria. Due luoghi urbani dove si specchia il passato e il presente del mito della modernizzazione industriale, consumato e fallito nell’estremo lembo del meridione italiano. Dove tra industrializzazione senza scrupoli, corruzione, malavita e inquinamento ecologico, si consuma l'ultima pagina di una vicenda, che ha legato, attraverso il collante ideologico e strumentale dello scambio politico, la “questione meridionale” alla “questione industriale” nella storia del nostro paese. Interessi coincidenti con la logica dello sfruttamento selvaggio e intensivo delle multinazionali di stato, che hanno depredato negli anni le straordinarie risorse naturali ed energetiche di Calabria, Basilicata, Puglia e Sicilia. L’accumulazione originaria del meridione d’Italia.
“Mo avast”, invece, che nella vulgata tarentina significa, com’è facile intuire, “Ora basta”, sembrò gridare Nettuno, il dio del mare, quando negli anni scorsi la Gas Natural propose di realizzare un rigassificatore nel porto di Taranto, a circa 700 metri dalla raffineria Agip-Eni, che proprio qualche giorno fa è stata teatro di un incendio, l’ennesimo incidente che ha causato il ferimento di un operaio. Che ha riportato ustioni sul 15% del corpo, ed è tuttora in prognosi riservata. In seguito a quello che è il terzo incidente avvenuto nello stabilimento dallo scorso mese di aprile: altri due episodi simili si sono verificati infatti il 7 aprile e 12 marzo. Senza feriti, fortunatamente.
“Mo avast”, fu anche e soprattutto il motto di quel movimento che si opponeva alla costruzione del rigassificatore. Era il 2008, e l’azione di pressione del Comitato costringeva il Consiglio Comunale ad esprimere parere contrario alla realizzazione dell’impianto. Approvando una mozione in cui si specificava “che qualora il governo nazionale e regionale dovessero disattendere l’ atto d'indirizzo approvato dal Consiglio Comunale, lo stesso si farà promotore di tutte le forme di mobilitazione e partecipazione popolare ivi compresa l'indizione del referendum consultivo”. La Provincia di Taranto, invece attraverso un’ intervista rilasciata dal Presidente ancora in carica, Gianni Florido, Pd, così si esprimeva: "Sul rigassificatore è stato Vendola in persona, dopo il "no" di Brindisi, a chiedermi, per tener buono il ministro Bersani, di riunire il Comitato tecnico della Provincia perchè dicesse sì al rigassificatore ma ponendo delle condizioni. Cosa che ho fatto, salvo poi essere per questo massacrato in campagna elettorale con Vendola che è stato in silenzio".

La terra avvelenata. A Taranto non c’è solo il disastro ambientale causato dall'Italsider e poi dall' Ilva, ed in generale, dalla grande industria di Stato, con cui fare i conti. La salute dell’intera provincia è minacciata da torrenti sotterranei di veleni industriali. A cominciare dalla discarica Italcave, che si trova lungola strada che collega Taranto a Statte, a 200 metri dalle cokerie dell’Ilva. Riaperta dal Tar Lecce, che accolse nel settembre del 2011, il ricorso dell’azienda contro il provvedimento di chiusura deciso dalla Regione Puglia. Dopo soli tre giorni di chiusura! Quando si dice che la giustizia deve fare velocemente il suo corso, credo si intenda questo… La Regione Puglia aveva ordinato il blocco dell’attività della discarica Italcave di Taranto, diffidando il gestore dell’impianto complesso di discarica di rifiuti speciali della società Italcave “allo smaltimento dei rifiuti individuati dal codice Cer 19.12.12 riconducibili al ciclo dei rifiuti urbani della Regione Campania”, ed al tempo stesso “all’effettuazione entro 10 giorni dalla comunicazione della presente, delle indagini analitiche con riferimento ai rifiuti individuati dal Cer 19.12.12 riconducibili al ciclo dei rifiuti urbani della Regione Campania”. Il tribunale amministrativo regionale pugliese, lo stesso che da settimane sarebbe nella bufera, per l’ipotetico coinvolgimento di alcuni suoi giudici nell’inchiesta della procura di Taranto “Ambiente venduto”; alcuni dei quali sarebbero accusati di aver messo in piedi un sistema di sentenze compiacenti, proprio nei confronti delle violazioni ambientali. Il Tar della Puglia, così motivò la riapertura del sito Italcave con decorrenza immediata: “Ritenuto che la società ricorrente, pur avendo contestato con la nota del 22 settembre l’intimazione ad effettuare le indagini analitiche, ha proceduto all’effettuazione delle stesse, come risulta da una pluralità di prelievi di campioni di rifiuto effettuati a partire dal 20/9/2011, risultanti da verbali depositati in giudizio.
“Impianti complessi”, sono questi, per dirla con il linguaggio paratecnico della regione Puglia. Come gli inceneritori. La cui costruzione fu autorizzata per la prima volta nel 2003. Quell’anno commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Puglia è Raffaele Fitto (Pdl), allora presidente della Regione e fino all’altro ieri ministro per gli Affari regionali. Il Commissario delegato bandisce 6 gare per la realizzazione di altrettanti “impianti complessi per il trattamento di rifiuti solidi urbani”, da avviare al “recupero energetico”: inceneritori appunto. Cinque di queste gare furono aggiudicate da Fitto, nel corso del 2004. E tutte furono vinte da Cogeam, società del gruppo che fa capo ad Emma Marcegaglia, ex presidente nazionale di Confidustria, in associazione temporanea d’impresa con partner che si chiamano Lombardi Ecologia, Tra.De.Co., Recuperi pugliesi, Geoambiente, società locali da sempre attive nello smaltimento dei rifiuti. Ma nonostante i soldi spesi attraverso gli “incentivi verdi” che lo Stato ha erogato, al momento, in Regione è attivo un unico inceneritore. A Massafra, in provincia di Taranto, ed è gestito da Appia Energy, altra società del Gruppo Marcegaglia. A cui quell’impianto sta ormai stretto, e quella quantità di cdr da smaltire non basta più. Colpa degli incentivi che finiscono: “Fino a dicembre 2011, Appia Energy ha goduto degli incentivi Cip6. E così, quell’inceneritore, ora dovrà essere raddoppiato. Altrimenti sono sempre pronti i forni del cementificio Cementir, che si trova lungo la stessa statale Jonica, 106 a un passo dalla raffineria Eni; impianto per cui, il gruppo Caltagirone, proprietario di Cementir, per poter adeguare l’impianto all’incenerimento, ha appena ricevuto un doppio finanziamento pubblico, da parte della Banca europea di investimenti, e dalla Regione Puglia.
Raccontare i fallimenti politico-istituzionali sarebbe troppo lungo: basterebbe ricordare però, soltanto la tardiva attivazione del registro dei tumori jonico salentino, che ha impedito analisi statistiche rigorose negli anni passati. O basterebbe citare cosa si scrive in una relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, commentando la situazione ambientale tarantina, nel Settembre del 2010: "solo di recente è stato istituito nella provincia di Taranto un registro dei tumori, benché si tratti di un territorio particolarmente a rischio proprio per l'elevato carico inquinante concentrato nella zona. La provincia di Taranto, un luogo umiliato da uno sviluppo economico perverso, e da una classe politica ed imprenditoriale in larga parte complice di un disastro ambientale unico per pericolosità, e gravità in Italia, ed anche in Europa.

Monnezza e mazzette. Scorie pericolose in cambio di soldi a partiti e associazioni. Accade in Puglia: a Grottaglie, in provincia di Taranto. Rifiuti interrati dalla società toscana Ecolevanteche hanno avvelenano il territorio e gli esseri viventi. Una montagna di rifiuti classificati come speciali: 1,6 milioni di metri cubi nei primi due lotti, ormai saturi, e un recente ampliamento da 2,3 milioni metri cubi (il terzo lotto) con «scadenza di 10 anni e prolungabile fino al completamento». Affidato alla società del gruppo LGH (una società controllata da Cogeme Rovato, Aem Cremona, Asm Pavia, Astem Lodi e Società Cremasca Servizi Crema), che ha acquisito Ecolevante. Che ora, e per dieci anni, gestiranno il terzo lotto considerato “un ampliamento naturale dell'attività di discarica”. Finanziamenti per tacitare chi influisce a qualsiasi livello del politico. Come gli assegni, i bonifici, le ricevute e le quietanze che furono sequestrate al capo di gabinetto del Comune (da giugno 1999), Carmelo Fanigliulo che avrebbe incassato per conto terzi prima milioni di lire, poi migliaia di euro. Ed illeciti, come quelli documentati dall’inchiesta denominata “Eldorado” della Procura della Repubblica di Milano, conclusa nel marzo 2006. Le indagini hanno evidenziato che dalla Campania, alcuni carichi di rifiuti venivano portati vicino a Ravenna da un’azienda locale per essere smaltiti. In realtà finivano nella discarica allora gestita dalla Ecolevante. E con una banale falsificazione delle bolle, il carico veniva rubricato come “rifiuti speciali non pericolosi”, e così di conseguenza anche smaltito. Scorie industriali pericolose, dunque, in cambio di mazzette. Un sistema ben oleato dalla dirigenza di Ecolevante. Come cercò di dimostrare in un distinto procedimento penale, il pm Daniela Putignano, che dispose la citazione davanti al giudice monocratico di Grottaglie, degli imputati Christian Settanni, in qualità di responsabile gestionale dell’unità operativa di Grottaglie della Ecolevante; Paolo Boccini, legale rappresentante della società; Francesca Maggio, responsabile tecnico dell’impianto; Giuseppe Settanni, amministratore di fatto della discarica, in quanto «accettavano e ricevevano in discarica conferimenti di rifiuti in violazione dell’autorizzazione e delle prescrizioni di cui alla determina del dirigente del settore ecologia ed ambiente della Provincia di Taranto n. 173 del 14.12.2006 e del D.M. 3.8.2005». Quest’ultimo dirigente, in particolare, fu destinatario di una lettera ad opera di Lino De Guido, allora segretario organizzativo DS, Federazione di Taranto: “Gentile dottor Giuseppe Settanni … è prevista la partecipazione del sen. Nicola La Torre … Per il contributo vorremmo contare sulla disponibilità di euro 10000. Nel ringraziarla per la gentilezza, Le porgiamo i più cordiali saluti”. Ma perché un cittadino dovrebbe versare di botto diecimila euro per una visita nella sua città del senatore La Torre? Mah. Forse perché quel senatore era uno dei capi di quel partito che in circa vent’anni ha visto alternarsi due suoi esponenti, Vinci prima, e Bagnardi, poi alla guida del comune di Grottaglie? Ipotesi.
Certo è, che il 27 luglio 1999, con la delibera numero 62 della Giunta Consiliare, il Comune di Grottaglie dava “parere logistico favorevole” alla realizzazione di una discarica per rifiuti speciali (non tossico-nocivi di classe 2-Cat.B) in contrada La Torre Caprarica, (a 4 chilometri dalla città delle ceramiche e dal centro abitato di San Marzano di San Giuseppe. Un'area gravata da vincolo idrogeologico - forestale, con terreni limitrofi interessati da vigneti, oliveti, seminativi. In seguito, con un parere tecnico-scientifico molto articolato, anche il professor Liberti del Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale del Politecnico di Bari, - lo stesso ex consulente della procura di Taranto, che ora sarebbe indagato, dalla stessa procura ionica per aver ricevuto in un autogrill, una busta con all’interno diecimila euro, dall’ex responsabile relazioni esterne dell’Ilva, Girolamo Archinà, - espresse il suo “parere favorevole”. Alla fine del 1999 il primo lotto della discarica iniziava il suo esercizio effettivo e con ordinanza numero 4 del 15 marzo 2001, il Commissario Delegato alla Emergenza Ambientale della Regione Puglia (Raffaele Fitto) autorizzava la prosecuzione all’esercizio del primo lotto fino al 15 luglio 2001. Il 25 ottobre 2000, poi, veniva stipulato fra il Comune di Grottaglie e la Società Ecolevante, una convenzione relativa alla gestione della discarica. Nella stessa si prevedeva che, oltre a diverse royalties e prerogative economiche a favore del Comune, che la Società Ecolevante si sarebbe impegnata a non accettare in discarica rifiuti che fossero stati classificati come “pericolosi”. Eppure il 22 settembre 1997, due anni prima dell’autorizzazione all’esercizio della discarica, e non si comprende a quale titolo, se non ipotizzando l'interramento occulto di scorie radioattive, il Centro Ricerche Enea della Casaccia (Roma) espresse “parere tecnico-scientifico positivo” circa la fattibilità del progetto. Nel frattempo si scopre che la sezione “monitoraggio ambientale discarica”, nel sito del Comune, non viene aggiornata dal 2009. Perciò, anche qui come per la Marina Militare c’è il segreto di stato? E cosa è stato effettivamente smaltito presso la discarica gestita da Ecolevante spa nel corso di tutti questi anni? Se quella terra potesse parlare racconterebbe di un pezzo molto grande della provincia di Taranto, che è stata stuprata, ed avvelenata nelle sue stesse viscere.

Veleni versus salute. Quello che racconterebbe un altro lembo di terra ionica, e precisamente quello dell’Isola Amministrativa chiamata “Taranto B”, distante 18 km dal capoluogo: un’area compresa tra i comuni di Lizzano, Roccaforzata, Fragagnano, Monteparano. Questa zona, che abbraccia campagne dagli uliveti secolari, rigogliosi vigneti curati dalla sapienza dei maestri contadini, scenario inconfondibile delle grandi dimore storiche e delle antiche masserie, per quasi 40 anni è stata utilizzata come discarica incontrollata da parte di tutta la Provincia (ma anche da altre province, soprattutto del settentrione), senza che vi siano mai stati controlli né quindi alcuna bonifica. Prima c’è stata l’ingombrante presenza di cave di estrazione di tufi; successivamente gli stessi gestori delle cave, con la complicità di amministratori e politici compiacenti, hanno destinato quel territorio al conferimento di rifiuti. Qui c’è un imprenditore, in particolare, Giuseppe Vergine, proprietario dell’omonima discarica e titolare ormai di un “marchio” nella gestione dei rifiuti – pubblicizzato da un po’ tutti i media “ufficiali” locali – che ha trasformato quelle vecchie cave in un’occasione unica per lucrosi guadagni, sulla pelle dei cittadini dell’intera provincia ovviamente, e sulla salute dei cittadini di Lizzano, in particolare: i quali, per via dell’eccessiva vicinanza dal centro abitato, circa 2 km, sono i più esposti ai veleni della Vergine. Ormai, già da alcuni anni, gli abitanti accusano gli effetti di questa situazione: cefalee, nausea, vomito, dissenteria, irritazione alla bocca e alla gola, bruciore allo stomaco, irritabilità e depressione. Ma non solo: negli ottocento esposti che contengono testimonianze e dati scientifici, presentati alle autorità competenti dall’associazione AttivaLizzano – che da anni vigila sulle problematiche del territorio e sul rispetto del diritto alla salute per i suoi residenti –, si fa riferimento a tantissimi casi di asma, a numerosissimi casi di tumori (leucemie, linfomi, carcinomi alla mammella, sarcomi ossei, carcinomi ai polmoni, al fegato), a problemi alla tiroide e carcinomi. I dati e le considerazioni prodotte dall’ARPA in particolare, evidenziano inequivocabilmente “la presenza di esalazioni di acido solfidrico provenienti dalla discarica Vergine s.p.a. in quantità tali da arrecare danni alla salute dei cittadini”.
Qui, il rilascio della Valutazione di impatto ambientale, è avvenuto attraverso un iter a dir poco grottesco. Infatti non è stato preso in considerazione l’effetto cumulativo di 40 anni di sversamenti, malgrado fosse già evidente una carenza negli strati di impermeabilizzazione, palesata poi dalla relazione tecnica di un’equipe di ingegneri (secondo la quale mancherebbe 1 metro di strato di impermeabilizzazione). Dal 1982, infatti, tutte le discariche devono sottostare al DPR 915/82 che obbliga all’impermeabilizzazione dell’impianto per evitare che vengano contaminate le falde acquifere ed il terreno. Tuttavia, proprio la presenza in quella zona di discariche incontrollate precedenti all’emanazione della norma, fa temere l’eventualità di una contaminazione. Ma forse non importa, perché questa è un’attività che determina un giro d’affari milionario. Nonostante la discarica Vergine abbia reso più povera Lizzano: privando gli abitanti del piacere di una serata all’aperto, del profumo della mattina, del diritto alla salute, e della stessa dignità dell’esistenza. Trasformando gli stessi comuni vicini in una sua appendice imponendo un odore terribile, insopportabile, nauseabondo. Ed anche qui gravi ombre pesano sulla stessa gestione: i dirigenti della società sono stati infatti chiamati in causa in 3 diversi processi per traffico illecito di rifiuti: la già citata Eldorado” del 2003, “Ragnatela” del Giugno 2010, e “Spiderman” del Febbraio 2010.
La luce mediatica che, giustamente, in queste settimane si addensa sull'Ilva, non deve far dimenticare che ci troviamo di fronte ad un disastro ambientale e sociale complessivo, forse senza precedenti nella stessa storia d’Italia, che coinvolge diversi attori pubblici e privati, quelli stessi che cercano di usare la leva degli apparati burocratici e militari, per cercare di impedire che a Taranto si crei un movimento a favore di un altro modello di sviluppo deciso sulla base delle compatibilità ambientali, e soprattutto deciso dai cittadini di Taranto, senza servitù di sorta. E che negli anni passati, quegli stessi attori politico-istituzionali ed imprenditoriali hanno usato il potere mediatico, imponendo di oscurare il racconto di quella terra e di quel mare. Ed è per questo che noi invece continueremo a raccontarlo. Facendo inchiesta. Perché l’inchiesta possa servire ai movimenti. Che a Taranto significa cominciare a rovesciare il primo degli inganni: quello che, come comprese prima di tutti Alex Langer più di venti anni fa, “è un vero e proprio luogo comune truffaldino, quello che vorrebbe in contrasto immanente il movimento ecologico con quello operaio, o più in generale l'ecologia con il lavoro".

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