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21/09/2012

Un figlio su tre

Un figlio su tre, afferma una ricerca del Censis, vive con sua madre. Si parla di alcuni milioni di italiani, quindi. Non hanno un lavoro e, quando ce l’hanno, è precario e mal pagato. Non trovano casa perché, quando c’è, il costo del canone affianca o supera quello del salario. Se si tratta di diritti civili s’invoca la famiglia, ma quando la famiglia la si prova a costruire appare il cartello con scritto: iscrizioni chiuse.
Un figlio su tre, infatti, non può neanche sposarsi o convivere, perché quando il precariato assoluto e il carovita s’incontrano, una coppia scoppia: a basso reddito e alti costi, l’unione fa la debolezza. Risultato? Il 60% dei giovani dai 18 ai 29 anni abita con la madre e idem il 45% tra i 30 e i 45 anni. Tutti bamboccioni? Vittime di loro stessi o dell’insindacabile ed osannata autoregolamentazione del mercato?
Un figlio su tre non ha nemmeno dove andare, mica tutti possono fare i cervelli in fuga: i condannati al nulla sono milioni e i cervelli sono alcune migliaia; le fughe sono costose, dunque per pochi. Un figlio su tre, o anche due su tre, vedono da anni la rottura definitiva delle corde dell’ascensore sociale: non staranno meglio dei loro padri, bensì peggio.
Hanno studiato di più e lottato di meno, subiscono il rincoglionimento mediatico e diffidano del plurale, convinti dai furbetti del capitalismo straccione che “tanti” non è mai un plurale di diritti e doveri, ma una somma di occasioni al singolare. Sarà per questo che il 45% tra i 30 e i 45 anni vive con la madre? Non hanno colto le occasioni o le occasioni non si fanno cogliere perché destinate in esclusiva ad alcuni, ai figli più figli degli altri?
Il mercato rigetta le eccedenze e gli ecceduti, dal canto loro, di mercato conoscono a malapena quello della frutta e verdura vicino casa. Così, a immaginare quello che è stato quando c’era lo Stato, due figli su tre possono solo ricordare i racconti paterni del tinello, dove si parlava di come, anche quel tinello, era stato costruito. Risparmio e lavoro, sacrifici e lavoro, rinunce e lavoro, e poi ancora lavoro, risparmio e altro lavoro.
L’aspirazione di ogni genitore a vedere i propri figli salire sull’ascensore sociale, la voglia di riscatto, il desiderio di evitare a loro almeno una parte dei sacrifici sostenuti, erano le molle che hanno spinto uomini e donne di diverse generazioni a convincere i propri figli ad avere un’istruzione migliore, perché - si diceva - alla fine sarai quel che saprai. E adesso si scopre invece che in un mercato del lavoro flessibile fino a divenire un elastico con il quale giocare al ribasso dei salari e al rialzo della fatica, quel sapere non serve più.
Ma i padri e le madri non potevano saperlo, e volevano credere che davvero il sapere avrebbe fatto rima con l’essere e poi con l’avere. Non potevano immaginare che il lavoro sarebbe stato ridotto a merce in deterioro da acquistare solo a basso costo e che, del sapere, se ne sarebbe fatto volentieri a meno.
Il sapere intralcia, ti invita a tenere il cappello in testa quando passa il padrone, pone ambizioni e obiettivi, costruisce sogni e speranze; per questo va abbattuto, o almeno depotenziato, perché la logica del mercato non prevede che tu possa entrarvi, ma solo che lui entri dentro di te.
L’affermarsi definitivo dell’idolatria del mercato e la concomitante fine dello Stato hanno segnato la progressiva scomparsa di ogni paradigma di civiltà e di compatibilità sociale che formava il tessuto connettivo di ogni comunità.
Il welfare, strumento pubblico pagato con le risorse pubbliche, aiuto per tutti grazie al contributo di alcuni, è ormai un ricordo. E’ la famiglia il nuovo ente di assistenza e sostegno per chi rimane indietro.
Ad essa si affianca l’immigrazione, cioè la fascia più povera e ricattabile della società che, arruolata di volta in volta a seconda delle necessità, svolge il ruolo di supplenza del welfare in forma di assistenza, cioè di tutto quello di cui avremmo diritto perché pagato e perché esseri umani, ma che ci viene sottratto perché costoso e non redditizio.
Mai che il paradigma dell’autoregolamentazione del mercato fosse messo in discussione, mai che almeno a sinistra insorgesse il virus del voler riprendere a pensare, parlare, proporre, battagliare. Due generazioni di leaderini o presunti tali sono invecchiati, ingrassati ma mai cessati dalle loro funzioni. Nel paese di Pulcinella, due portaborse su tre sono diventati leader. Un figlio su tre, invece, è costretto ad invecchiare senza essere diventato adulto.

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