Un figlio su tre, afferma una ricerca del Censis, vive con sua madre.
Si parla di alcuni milioni di italiani, quindi. Non hanno un lavoro e,
quando ce l’hanno, è precario e mal pagato. Non trovano casa perché,
quando c’è, il costo del canone affianca o supera quello del salario. Se
si tratta di diritti civili s’invoca la famiglia, ma quando la famiglia
la si prova a costruire appare il cartello con scritto: iscrizioni
chiuse.
Un figlio su tre, infatti, non può neanche sposarsi o convivere,
perché quando il precariato assoluto e il carovita s’incontrano, una
coppia scoppia: a basso reddito e alti costi, l’unione fa la debolezza.
Risultato? Il 60% dei giovani dai 18 ai 29 anni abita con la madre e
idem il 45% tra i 30 e i 45 anni. Tutti bamboccioni? Vittime di loro
stessi o dell’insindacabile ed osannata autoregolamentazione del
mercato?
Un figlio su tre non ha nemmeno dove andare, mica tutti possono fare i
cervelli in fuga: i condannati al nulla sono milioni e i cervelli sono
alcune migliaia; le fughe sono costose, dunque per pochi. Un figlio su
tre, o anche due su tre, vedono da anni la rottura definitiva delle
corde dell’ascensore sociale: non staranno meglio dei loro padri, bensì
peggio.
Hanno studiato di più e lottato di meno, subiscono il
rincoglionimento mediatico e diffidano del plurale, convinti dai
furbetti del capitalismo straccione che “tanti” non è mai un plurale di
diritti e doveri, ma una somma di occasioni al singolare. Sarà per
questo che il 45% tra i 30 e i 45 anni vive con la madre? Non hanno
colto le occasioni o le occasioni non si fanno cogliere perché destinate
in esclusiva ad alcuni, ai figli più figli degli altri?
Il mercato rigetta le eccedenze e gli ecceduti, dal canto loro, di
mercato conoscono a malapena quello della frutta e verdura vicino casa.
Così, a immaginare quello che è stato quando c’era lo Stato, due figli
su tre possono solo ricordare i racconti paterni del tinello, dove si
parlava di come, anche quel tinello, era stato costruito. Risparmio e
lavoro, sacrifici e lavoro, rinunce e lavoro, e poi ancora lavoro,
risparmio e altro lavoro.
L’aspirazione di ogni genitore a vedere i propri figli salire
sull’ascensore sociale, la voglia di riscatto, il desiderio di evitare a
loro almeno una parte dei sacrifici sostenuti, erano le molle che hanno
spinto uomini e donne di diverse generazioni a convincere i propri
figli ad avere un’istruzione migliore, perché - si diceva - alla fine
sarai quel che saprai. E adesso si scopre invece che in un mercato del
lavoro flessibile fino a divenire un elastico con il quale giocare al
ribasso dei salari e al rialzo della fatica, quel sapere non serve più.
Ma i padri e le madri non potevano saperlo, e volevano credere che
davvero il sapere avrebbe fatto rima con l’essere e poi con l’avere. Non
potevano immaginare che il lavoro sarebbe stato ridotto a merce in
deterioro da acquistare solo a basso costo e che, del sapere, se ne
sarebbe fatto volentieri a meno.
Il sapere intralcia, ti invita a tenere il cappello in testa quando
passa il padrone, pone ambizioni e obiettivi, costruisce sogni e
speranze; per questo va abbattuto, o almeno depotenziato, perché la
logica del mercato non prevede che tu possa entrarvi, ma solo che lui
entri dentro di te.
L’affermarsi definitivo dell’idolatria del mercato e la concomitante
fine dello Stato hanno segnato la progressiva scomparsa di ogni
paradigma di civiltà e di compatibilità sociale che formava il tessuto
connettivo di ogni comunità.
Il welfare, strumento pubblico pagato con le risorse pubbliche, aiuto
per tutti grazie al contributo di alcuni, è ormai un ricordo. E’ la
famiglia il nuovo ente di assistenza e sostegno per chi rimane indietro.
Ad essa si affianca l’immigrazione, cioè la fascia più povera e
ricattabile della società che, arruolata di volta in volta a seconda
delle necessità, svolge il ruolo di supplenza del welfare in forma di
assistenza, cioè di tutto quello di cui avremmo diritto perché pagato e
perché esseri umani, ma che ci viene sottratto perché costoso e non
redditizio.
Mai che il paradigma dell’autoregolamentazione del mercato fosse
messo in discussione, mai che almeno a sinistra insorgesse il virus del
voler riprendere a pensare, parlare, proporre, battagliare. Due
generazioni di leaderini o presunti tali sono invecchiati, ingrassati ma
mai cessati dalle loro funzioni. Nel paese di Pulcinella, due
portaborse su tre sono diventati leader. Un figlio su tre, invece, è
costretto ad invecchiare senza essere diventato adulto.
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