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07/08/2013

Iran, prove di dialogo con gli USA

di Michele Paris

L’insediamento nel fine settimana del nuovo presidente iraniano, Hassan Rouhani, si è accompagnato all’annuncio di un nuovo gabinetto composto in buona parte da esponenti moderati vicini all’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. La scelta dei membri del proprio governo e le parole pronunciate negli ultimi giorni da Rouhani hanno indicato una chiara volontà distensiva nei confronti dell’Occidente e, in particolare, di Washington, da dove però continuano a giungere messaggi quanto meno contraddittori sulla possibile apertura di un percorso di riconciliazione nel prossimo futuro.

La stessa presenza di Rafsanjani a fianco del presidente entrante nella cerimonia andata in scena domenica a Teheran ha anticipato la probabile influenza che il quasi 79enne ex leader iraniano eserciterà sul governo che sta per nascere, nonostante la sua esclusione dalle elezioni dello scorso giugno da parte del Consiglio dei Guardiani.

Grande attenzione è stata data in Occidente soprattutto alla scelta di Mohammad Javad Zarif come ministro degli Esteri. Quest’ultimo ha trascorso buona parte della sua vita negli Stati Uniti ricoprendo svariati incarichi, tra cui quello di ambasciatore della Repubblica Islamica alle Nazioni Unite. Zarif ha ottenuto anche un dottorato presso l’università di Denver, nel Colorado, e secondo la stampa americana sarebbe ben conosciuto da importanti membri dell’amministrazione Obama, a cominciare dal vice-presidente, Joe Biden, e dal segretario alla Difesa, Chuck Hagel.

Ancora più significativo è stato il suo ruolo nel team di negoziatori iraniani guidato proprio dal neo-presidente Rouhani che nel 2003 raggiunse un accordo con alcuni governi europei per la sospensione temporanea del programma di arricchimento dell’uranio del proprio paese.

Al ministero del Petrolio dovrebbe finire invece Bijan Namdar Zangeneh, definito come un tecnico che ha però fatto parte di vari governi moderati o riformisti in qualità di ministro dell’Energia e del Petrolio sotto la guida di Mir-Hossein Mousavi, Rafsanjani e Mohammad Khatami tra il 1988 e il 2005. Tra i risultati di Zangeneh visti con maggiore interesse in Occidente ci sarebbe il suo impegno nel portare in Iran svariati miliardi di dollari sotto forma di investimenti di compagnie straniere per sviluppare il settore energetico domestico prima dell’imposizione delle sanzioni internazionali.

Il prossimo ministro dell’Economia, infine, sarà Ali Tayyeb-Nia, anch’egli già facente parte dei governi Rafsanjani e Khatami, ma anche di quello del presidente uscente Ahmadinejad. Tayyeb-Nia viene accreditato come uno specialista nello studio dell’inflazione, uno dei problemi più gravi causati in Iran dalle sanzioni economiche attualmente in vigore.

Tutti i ministri del nuovo governo dovranno essere in ogni caso approvati dal Parlamento di Teheran (Majilis), dominato dai conservatori e protagonista negli ultimi anni di ripetuti scontri con il presidente Ahmadinejad e il suo gabinetto. Per il momento, i membri del Parlamento iraniano hanno mostrato una certa propensione a volere attendere lo sviluppo degli eventi, come ha evidenziato la disponibilità registrata nei confronti di Rouhani nel corso del suo insediamento di domenica scorsa.

Il neo-presidente ha poi lanciato un chiaro messaggio di apertura verso gli Stati Uniti, aggiungendo però che “per stabilire rapporti con l’Iran, dovrà esserci un dialogo basato su posizioni di uguaglianza e fiducia reciproca”. In riferimento ai modesti segnali di disponibilità dell’amministrazione Obama, Rouhani ha invitato le proprie controparti occidentali a “parlare il linguaggio del rispetto e non quello delle sanzioni”.

Da parte sua, la Casa Bianca nella giornata di domenica ha emesso un comunicato ufficiale nel quale l’insediamento di Rouhani è stato definito “un’opportunità per l’Iran ad agire rapidamente per fugare i dubbi della comunità internazionale sul suo programma nucleare”. Per Washington, “se il nuovo governo dovesse scegliere di impegnarsi in maniera sostanziale per rispettare i propri obblighi internazionali e per cercare una soluzione pacifica, gli Stati Uniti si mostreranno disponibili”.

L’intenzione di mettere fine al confronto con l’Occidente appare dunque uno degli obiettivi principali del gabinetto Rouhani e in questo sforzo sembra avere almeno la tacita approvazione della Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei. La prevalenza di uomini con passate esperienze nel campo riformista o moderato, nonché legati ad una personalità come Rafsanjani che non incontra i favori dell’establishment conservatore, potrebbe però consentire a Khamenei e ai suoi fedelissimi di sganciarsi rapidamente dal nuovo presidente in caso di un possibile fallimento diplomatico, lasciando il nuovo governo in una posizione simile a quello di Ahmadinejad nel suo secondo mandato, cioè privo dell’appoggio politico necessario per incidere non solo in politica estera ma anche in ambito economico.

Oltre ai delicati equilibri del sistema iraniano e alle reazioni di una popolazione che si attende in tempi brevi significativi miglioramenti delle proprie condizioni di vita in continuo declino, a pesare sul futuro di Rouhani e del suo governo sarà anche e soprattutto l’atteggiamento dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti.

Le ragioni per sperare in una risoluzione pacifica dello scontro non sono però molte, anche perché le condizioni imposte da Washington solo per aprire un qualche negoziato di alto livello appaiono difficilmente accettabili a Teheran.

Inoltre, il grado di disponibilità di alcune sezioni della classe politica americana - più interessate ad un cambio di regime che a riconoscere le legittime aspirazioni dell’Iran - sono risultate ancora una volta evidenti la scorsa settimana, quando la Camera dei Rappresentanti ha approvato a vastissima maggioranza un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Repubblica Islamica che appaiono senza precedenti.

Queste misure, su cui dovrà esprimersi ora il Senato, se implementate restringerebbero infatti i rimanenti mercati dell’export petrolifero dell’Iran, renderebbero impossibile l’accesso al denaro di questo paese depositato su conti bancari esteri e penalizzerebbero ulteriormente numerosi settori industriali di importanza strategica.


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