di Michele Paris
L’insediamento nel fine settimana del nuovo presidente iraniano,
Hassan Rouhani, si è accompagnato all’annuncio di un nuovo gabinetto
composto in buona parte da esponenti moderati vicini all’ex presidente
Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. La scelta dei membri del proprio governo e
le parole pronunciate negli ultimi giorni da Rouhani hanno indicato una
chiara volontà distensiva nei confronti dell’Occidente e, in
particolare, di Washington, da dove però continuano a giungere messaggi
quanto meno contraddittori sulla possibile apertura di un percorso di
riconciliazione nel prossimo futuro.
La stessa presenza di
Rafsanjani a fianco del presidente entrante nella cerimonia andata in
scena domenica a Teheran ha anticipato la probabile influenza che il
quasi 79enne ex leader iraniano eserciterà sul governo che sta per
nascere, nonostante la sua esclusione dalle elezioni dello scorso giugno
da parte del Consiglio dei Guardiani.
Grande attenzione è stata
data in Occidente soprattutto alla scelta di Mohammad Javad Zarif come
ministro degli Esteri. Quest’ultimo ha trascorso buona parte della sua
vita negli Stati Uniti ricoprendo svariati incarichi, tra cui quello di
ambasciatore della Repubblica Islamica alle Nazioni Unite. Zarif ha
ottenuto anche un dottorato presso l’università di Denver, nel Colorado,
e secondo la stampa americana sarebbe ben conosciuto da importanti
membri dell’amministrazione Obama, a cominciare dal vice-presidente, Joe
Biden, e dal segretario alla Difesa, Chuck Hagel.
Ancora più
significativo è stato il suo ruolo nel team di negoziatori iraniani
guidato proprio dal neo-presidente Rouhani che nel 2003 raggiunse un
accordo con alcuni governi europei per la sospensione temporanea del
programma di arricchimento dell’uranio del proprio paese.
Al
ministero del Petrolio dovrebbe finire invece Bijan Namdar Zangeneh,
definito come un tecnico che ha però fatto parte di vari governi
moderati o riformisti in qualità di ministro dell’Energia e del Petrolio
sotto la guida di Mir-Hossein Mousavi, Rafsanjani e Mohammad Khatami
tra il 1988 e il 2005. Tra i risultati di Zangeneh visti con maggiore
interesse in Occidente ci sarebbe il suo impegno nel portare in Iran
svariati miliardi di dollari sotto forma di investimenti di compagnie
straniere per sviluppare il settore energetico domestico prima
dell’imposizione delle sanzioni internazionali.
Il prossimo
ministro dell’Economia, infine, sarà Ali Tayyeb-Nia, anch’egli già
facente parte dei governi Rafsanjani e Khatami, ma anche di quello del
presidente uscente Ahmadinejad. Tayyeb-Nia viene accreditato come uno
specialista nello studio dell’inflazione, uno dei problemi più gravi
causati in Iran dalle sanzioni economiche attualmente in vigore.
Tutti
i ministri del nuovo governo dovranno essere in ogni caso approvati dal
Parlamento di Teheran (Majilis), dominato dai conservatori e
protagonista negli ultimi anni di ripetuti scontri con il presidente
Ahmadinejad e il suo gabinetto. Per il momento, i membri del Parlamento
iraniano hanno mostrato una certa propensione a volere attendere lo
sviluppo degli eventi, come ha evidenziato la disponibilità registrata
nei confronti di Rouhani nel corso del suo insediamento di domenica
scorsa.
Il neo-presidente ha poi lanciato un chiaro messaggio di
apertura verso gli Stati Uniti, aggiungendo però che “per stabilire
rapporti con l’Iran, dovrà esserci un dialogo basato su posizioni di
uguaglianza e fiducia reciproca”. In riferimento ai modesti segnali di
disponibilità dell’amministrazione Obama, Rouhani ha invitato le proprie
controparti occidentali a “parlare il linguaggio del rispetto e non
quello delle sanzioni”.
Da parte sua, la Casa Bianca nella
giornata di domenica ha emesso un comunicato ufficiale nel quale
l’insediamento di Rouhani è stato definito “un’opportunità per l’Iran ad
agire rapidamente per fugare i dubbi della comunità internazionale sul
suo programma nucleare”. Per Washington, “se il nuovo governo dovesse
scegliere di impegnarsi in maniera sostanziale per rispettare i propri
obblighi internazionali e per cercare una soluzione pacifica, gli Stati
Uniti si mostreranno disponibili”.
L’intenzione di mettere fine
al confronto con l’Occidente appare dunque uno degli obiettivi
principali del gabinetto Rouhani e in questo sforzo sembra avere almeno
la tacita approvazione della Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei. La
prevalenza di uomini con passate esperienze nel campo riformista o
moderato, nonché legati ad una personalità come Rafsanjani che non
incontra i favori dell’establishment conservatore, potrebbe però
consentire a Khamenei e ai suoi fedelissimi di sganciarsi rapidamente
dal nuovo presidente in caso di un possibile fallimento diplomatico,
lasciando il nuovo governo in una posizione simile a quello di
Ahmadinejad nel suo secondo mandato, cioè privo dell’appoggio politico
necessario per incidere non solo in politica estera ma anche in ambito
economico.
Oltre
ai delicati equilibri del sistema iraniano e alle reazioni di una
popolazione che si attende in tempi brevi significativi miglioramenti
delle proprie condizioni di vita in continuo declino, a pesare sul
futuro di Rouhani e del suo governo sarà anche e soprattutto
l’atteggiamento dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti.
Le
ragioni per sperare in una risoluzione pacifica dello scontro non sono
però molte, anche perché le condizioni imposte da Washington solo per
aprire un qualche negoziato di alto livello appaiono difficilmente
accettabili a Teheran.
Inoltre, il grado di disponibilità di
alcune sezioni della classe politica americana - più interessate ad un
cambio di regime che a riconoscere le legittime aspirazioni dell’Iran -
sono risultate ancora una volta evidenti la scorsa settimana, quando la
Camera dei Rappresentanti ha approvato a vastissima maggioranza un nuovo
pacchetto di sanzioni contro la Repubblica Islamica che appaiono senza
precedenti.
Queste misure, su cui dovrà esprimersi ora il Senato,
se implementate restringerebbero infatti i rimanenti mercati
dell’export petrolifero dell’Iran, renderebbero impossibile l’accesso al
denaro di questo paese depositato su conti bancari esteri e
penalizzerebbero ulteriormente numerosi settori industriali di
importanza strategica.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento