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09/03/2014

Generazione Erasmus


“Siamo la generazione Erasmus”, dice un Renzi più ggiovane che mai. Cioè siamo quella generazione che ha studiato all’estero, ha conosciuto il sogno europeo, ha imparato a conoscere la serietà tedesca/il fascino francese/la facilità di vita spagnola/inserire dote e nazionalità a caso e ora vogliamo far diventare l’Italia uno scintillante paese europeo. Parliamo inglese, abbiamo una formazione internazionale, ci siamo liberati delle scorie ideologiche che infestano le nostre università. Chi meglio della nostra generazione può far ripartire le ruote infossate nel pantano italiano? Chi meglio della nostra generazione può testimoniare le magnifiche e progressive sorti dell’europeismo?

A parte che è tutto da dimostrare che chi ha fatto l’Erasmus sia naturalmente superiore a chi non l’ha fatto (lo dico da persona che la sua brava borsa di studio per l’estero l’ha vinta), il fatto è che oggettivamente l’Erasmus è un’ottima metafora dell’Europa reale.

Il progetto Erasmus teoricamente si rivolge a tutti gli studenti. Tralasciamo pure quel dato del crollo delle immatricolazioni, ci arriviamo dopo. Dicevamo, il progetto Erasmus si rivolge a tutti gli studenti iscritti all’università, ma è in realtà fruibile solo da una parte di essi. Non perché c’è una selezione “di merito”, ma perché a quella selezione “di merito” può accedere solo chi è in grado di mantenersi all’estero con la magra borsa di studio dell’Erasmus. Non solo, in molti atenei ci sono grandi difficoltà a erogare correttamente tutte le borse. Alcuni atenei hanno dei rappresentanti degli studenti coi controcazzi che riescono a garantire la copertura di tutte le borse, si capisce però che la situazione non è esattamente “includente”.

Quindi, la generazione Erasmus è una minoranza all’interno di quella minoranza che fa l’università. Ma si dirà che non si può contestare il sogno europeo per questo, in fondo l’Europa fornisce direttive precise sull’aumento delle risorse per l’università e la ricerca. Vero. Peccato siano carta straccia. I dati sull’investimento italiano in formazione e ricerca rispetto al PIL stanno lì a dimostrarlo, coi loro bei tagli lineari che gli fanno pure i gestacci di sfottò alle direttive europee. E, curiosamente, mentre il controllo preventivo delle finanziarie funziona in maniera militare, per non parlare dei commissariamenti delle troika, non si notano all’orizzonte commissari europei pronti a minacciare scenari apocalittici se l’Italia non smetterà di mandare in vacca la sua università.

Eppure l’integrazione dell’università italiana nel sistema europeo è andata avanti, fregandosene dei paletti qualitativi del Processo di Bologna. Però i CFU e i prestiti d’onore (affiancati alle borse di studio giusto perché le borse sono nominate in Costituzione e quindi non possono essere abolite in quanto tali) ce li becchiamo. Eppure, in questo processo di integrazione del sistema universitario è successo che, dopo l’effetto ottico prodotto dal 3+2, gli immatricolati siano diminuiti. E mica di poco, del 10% negli ultimi dieci anni. In un paese in cui già vanno in pochi all’università. Il tutto ovviamente perché ce lo chiede l’Europa.

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