L’Osservatorio, che attraverso una rete di attivisti,
forze di sicurezza e dottori monitora le violenze nel Paese, ha
dichiarato ieri che il numero delle vittime dovrebbe essere in realtà più alto e dovrebbe collocarsi intorno alle 220.000 persone.
Gli ultimi dati raccolti dall’Onu sugli effetti della
guerra in corso in Siria, invece, risalgono allo scorso luglio e sono
perciò fermi a 100.000 morti. Lo scorso gennaio l’Organizzazione delle
Nazioni Unite ha dichiarato che avrebbe smesso di aggiornare il lugubre
conteggio perché “le condizioni sul campo non permettono di fare stime
accurate”.
Dunque l’unica fonte al momento è rappresentata dall’Osservatorio che ha registrato finora 38.000 vittime tra i ribelli
(inclusi i combattenti del qa’edista Fronte al-Nusra, e del gruppo
scissionista di al-Qa’eda “Stato islamico d’Iraq e del Levante”). Più di 58.000 sono i combattenti pro-regime assassinati
(truppe dell’esercito siriano e le varie milizie pro-Assad). Secondo
l’Ong, 364 guerriglieri del libanese Hezbollah e 605 militanti sciiti di
altre formazioni sono morti per combattere a fianco di Damasco. Accanto
alle vittime ci sono poi i dispersi il cui numero è altrettanto
inquietante. Secondo l’Osservatorio sarebbero 18.000 le persone
scomparse dopo essere state detenute dalle forze di sicurezze siriane.
Sarebbero invece 8.000 i prigionieri dei ribelli.
A peggiorare la mattanza quotidiana è poi lo scontro
interno tra gruppi di Opposizione. Iniziata a fine dicembre, la lotta
tra ribelli “moderati” ed “estremisti” ha già causato migliaia di
vittime e ha agevolato il compito di “riconquista” del Presidente
siriano che negli ultimi mesi ha registrato leggeri ma costanti
progressi dal punto di vista militare.
Ma questi numeri sono provvisori perché a questo bagno di sangue non si vede ancora una fine. I tentativi di giungere ad una pacificazione del conflitto sono stati tardivi, svogliati e fallimentari.
La recente conferenza internazionale di pace (Ginevra 2) si è chiusa
con un prevedibile fiasco, nonostante diversi analisti abbiano parlato
di “leggero progresso” poiché “il fatto che le due parti in lotta almeno
si sono incontrate è un segnale positivo”. Troppe le distanze tra il
regime di Damasco e i ribelli della “Coalizione nazionale siriana”
sostenuti dall’Occidente. Se questi ultimi vedono come condizione
fondamentale la caduta del Presidente Assad prima di sedersi al tavolo
delle trattative, i primi respingono categoricamente questa opzione
ritenendo invece prioritaria la “battaglia al terrorismo” (nel
linguaggio di Damasco l’Opposizione).
A gettare la spugna è stato recentemente anche l’inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba per la Siria, Lakhdar Brahimi. La scorsa settimana da Kuwait City, Brahimi è stato chiaro: “è improbabile in questo momento che possano riprendere i negoziati a Ginevra tra il regime siriano e le opposizioni”.
Ad aumentare la distanza tra governo e ribelli, secondo Brahimi,
saranno le prossime elezioni che vedranno la vittoria di Assad, fattore
che spingerà le opposizioni sempre più lontane dal tavolo del negoziato.
Pertanto, in questo contesto, sembrano insensate le parole di Ban Ki
Moon che, intervenendo ieri ad una conferenza stampa a Bruxelles, ha
parlato di una Ginevra 3.
Intanto i combattimenti continuano ad infuriare.
Secondo la Commissione Generale della Rivoluzione Siriana (SRGC) il
governo siriano ha ucciso ieri 50 persone in differenti parti del paese
soprattutto nel nord della provincia di Aleppo. Una fonte militare ha
detto all’Agenzia di stampa Fars che Damasco avrebbe ucciso 1.000
“terroristi” nella regione di Latakia dallo scorso 21 marzo, da quando,
cioè, è stata lanciata la campagna militare dei ribelli nel nord ovest
del Paese.
Ma in questi tre anni di guerra a morire in Siria non
sono state solo persone ma anche l’informazione. Il caso
dell’Osservatorio 45 ne è un altro (e non ultimo) esempio.
L’Osservatorio 45 è la sommità di una collina nel nord della provincia
di Latakia la cui conquista è strategicamente importante perché
consente di controllare diverse aree abitate dalla comunità alawita (la
stessa del Presidente Assad). La televisione siriana ha annunciato ieri
che il regime l’aveva riconquistata e aveva mostrato i cadaveri di
alcuni “terroristi” morti in battaglia. Tuttavia, la notizia è smentita
categoricamente da attivisti locali e dall’Osservatorio dei Diritti
umani: i ribelli avrebbero respinto l’attacco
Chi stia guadagnando o perdendo territorio nel nord
ovest del Paese è difficile stabilirlo con certezza considerata la
guerra di propaganda che ciascuna delle due parti fa. Quello che è
certo, però, è che i ribelli, dopo aver subito sconfitte devastanti a
Qusair nel 2013 e perso recentemente il controllo della frontiera con
Libano nella battaglia di Yabroud, hanno colto di sorpresa l’esercito
siriano lanciando un’offensiva a Kasab, un valico sulla frontiera tra
Siria e Turchia.
L’attacco oltre ad essere simbolico (avviene nella roccaforte degli alawiti e della famiglia Assad) è importante dal punto di vista militare. In primo luogo crea una testa di ponte in una zona strategica che può fornire all’opposizione un passaggio stabile per i rifornimenti di armi e di equipaggiamenti compensando così la perdita del controllo della frontiera siro-libanese. In secondo luogo impegnare il regime nella provincia di Latakia vuol dire anche obbligare il governo a concentrare parte delle sue forze nell’area e, di conseguenza, a sguarnire la difesa nel sud del Paese dove al-Nusra, l’Esercito siriano libero e una cinquantina di gruppi islamisti si sono uniti in una nuova alleanza militare e si preparano a lanciare un attacco massiccio verso la vicina Damasco.
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