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03/07/2014

Iraq - Petrolio, l’Arabia Saudita gongola: non c’è nessuno a fargli concorrenza

Il presidente Usa Obama con re Abdallah al-Saud
L’autoproclamato califfato di Al-Baghdadi avrà difficoltà a raccogliere intorno a sé i musulmani di tutto il mondo. Perché per i gruppi islamisti, moderati e non, il battesimo a califfo Ibrahim del leader dell’Isil rasenta la blasfemia.

Ieri in un nuovo messaggio fatto circolare in rete, Al-Baghdadi chiamava i musulmani ad imbracciare le armi e unirsi allo Stato Islamico creato unilateralmente tra Aleppo e Diyala, dalla Siria all’Iraq. «Una nuova era» nella quale l’Islam trionferà, ha detto il leader invitando tutti a prendere parte alla jihad e a smascherare l’idolo della democrazia. Ma già sono giunte reazioni dai diversi angoli del mondo arabo: gruppi armati attivi in Siria hanno condannato il nuovo califfato e fatto appello ai musulmani ad evitarne l’adesione. L’associazione sunnita irachena degli Studenti Musulmani ha puntato il dito contro il tentativo di demolire la già debole unità nazionale, mentre gruppi salafiti aderenti al Fronte Islamico hanno accusato l’Isil di voler così mascherare i crimini commessi.

E se il fronte islamista si spacca, non è apparso mai unito quello della classe politica irachena, alle prese con un pericoloso stallo del parlamento chiamato a nominare il nuovo esecutivo. Nel tentativo di riavvicinare a Baghdad la comunità sunnita e spezzare l’alleanza tra baathisti e Isil, ieri il premier Maliki ha offerto un’amnistia parziale agli iracheni che abbandoneranno le file jihadiste, eccetto – specifica il primo ministro – a chi ha commesso omicidi.

Il governo si muove anche in rete: oggi il Ministero delle Comunicazione avrebbe ordinato alle compagnie telefoniche e internet di bloccate i social network e tutte le applicazioni che fornirebbero sostegno logistico ai miliziani dell’Isil. Facebook, Twitter, YouTube e WhatsApp: tutti strumenti che i jihadisti stanno utilizzando per fare propaganda, mostrare al mondo – e a potenziali nuovi adepti le azioni compiute e i massacri – e per organizzarsi sul terreno. Questa pare la spiegazione dietro la decisione del Ministero, che per ora non commenta l’ordine. Secondo alcuni attivisti, però, aggirare il blocco non sarebbe così complesso, attraverso quegli stessi mezzi che hanno permesso ai cittadini turchi di bypassare la censura del governo Erdogan che bloccò il mese scorso i principali social network. Immediate le critiche: impedire agli iracheni di usare la rete incrementerebbe il potenziale jihadista, perché non ci sarebbe più spazio per raccontare quanto accade nel paese.

Intanto, ad approfittare del caos iracheno, con scopi e strumenti diversi, sono Teheran e Riyadh. Ieri il portavoce del governo iraniano ha sottolineato l’intenzione di cooperare con il governo iracheno. Nessun dettaglio, ma Teheran probabilmente proseguirà con l’invio di armamenti e, meno palesemente, di consiglieri militari e pasdaran.

Chi invece trova nella divisione settaria dell’Iraq un guadagno è l’Arabia Saudita. Finanziatore dei gruppi islamisti anti-Assad, re Abdallah eliminerebbe un temibile concorrente nel settore energetico: Riyadh sarebbe l’unica in grado di coprire il gap lasciato da Baghdad, le cui risorse sono oggetto di spartizione tra Kurdistan e milizie sunnite. Senza dimenticare l’indebolimento dell’asse sciita a favore dei paesi del Golfo. Oggi l’Arabia Saudita ha annunciato il dispiegamento di 30mila soldati al confine con l’Iraq (lungo 800 chilometri) per «proteggere  il paese dalla minaccia terrorista». Secondo l’agenzia stampa Al Arabiya, l’arrivo dei soldati sauditi è seguito alla fuga di quelli iracheni dal confine, dopo la presa da parte dell’Isil della città di Nukhayb, a 130 km dalla frontiera. Immagini dal satellite mostrerebbero circa 2.500 truppe irachene vicino alla città meridionale di Karbala, dopo aver lasciato il confine.

Ieri il presidente statunitense Obama ha telefonato a re Abdallah al-Saud per ringraziarlo dei 500 milioni di dollari donati alla popolazione irachena e per discutere della necessità di un governo di unità nazionale che spinga Baghdad fuori dalla crisi. Quella stessa Baghdad che da settimane accusa Riyadh di aver finanziato i gruppi islamisti, prima in Siria, poi in Iraq, trascinando il paese sull’orlo di una grave divisione etnica, religiosa e territoriale.

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