di Sonia Grieco
Nulla fa pensare che il
governo nigeriano e il gruppo islamista Boko Haram abbiano davvero
siglato un cessate il fuoco, come hanno annunciato l’esecutivo e le
Forze armate il 17 ottobre. La notizia dell’accordo che avrebbe
dovuto portare al rilascio delle circa duecento ragazze rapite dai
miliziani lo scorso aprile in una scuola di Chibok, per farne concubine e
schiave, è stata seguita dal rapimento di altre decine di donne (tra 20
e 70). Inoltre, mercoledì scorso una bomba è esplosa nella
stazione degli autobus di Azare, nello stato settentrionale di Bauchi,
facendo cinque morti e 12 feriti. L’attentato non è stato rivendicato,
ma i sospetti cadono sulle milizie guidate dall’imam guerrigliero Abubakar Shekau
che ha dichiarato guerra alla cultura occidentale e con le sue truppe
controlla 12 dei 27 distretti dello Stato nord-orientale del Borno, la
sua roccaforte. Infine, Boko Haram non ha confermato di avere accettato il cessate il fuoco.
È dunque di nuovo sfumata la speranza delle famiglie di rivedere le
ragazze rapite, che per un certo periodo hanno occupato i pensieri e le
attenzioni della stampa, e persino della first lady americana, per poi
finire nel dimenticatoio, dove già si trovano le ultime donne cadute
nelle mani dei miliziani. Una storia che ha scatenato indignazione e
rabbia in Nigeria per l’incapacità del governo di risolverla, nonostante
il massiccio dispiegamento dell’esercito e delle forze di sicurezza. Ed
è anche una spina nel fianco del presidente Goodluck Jonathan
che ha appena accettato di ricandidarsi alle presidenziali del prossimo
febbraio per il Partito democratico del Popolo che è attualmente al
potere. L’annuncio ufficiale è previsto per l’11 novembre.
All’annuncio del cessate il fuoco che avrebbe dovuto mettere fine a
sei anni di conflitto, con centinaia di morti e migliaia di sfollati,
qualcuno ha storto il naso, insinuando che si fosse già in campagna
elettorale. Il sito d’informazione nigeriano Premium Times,
ha ipotizzato che la promessa di liberare le ragazze di Chibok servisse
a sviare l’attenzione dagli ultimi scandali (traffico d’armi tra
Nigeria e Sud Africa) che hanno occupato le prime pagine dei giornali
nigeriani e dalla candidatura alla presidenza del generale Mohammadu
Buhari, un avversario temibile per Goodluck Jonathan. Buhari,
infatti, raccoglie consensi nel Nord musulmano, più povero e
marginalizzato del Sud cristiano, dove è diffuso il risentimento verso
il governo centrale, ritenuto responsabile anche delle violenze dei
militari contro la popolazione che dovrebbero difenderla dai saccheggi
degli islamisti.
Le denunce delle organizzazioni umanitarie parlano di
esecuzioni di massa di civili; di torture e violenze; di detenzioni
illegali da parte dell’esercito e della polizia. In questo
malcontento Boko Haram trova terreno fertile per continuare le sue
scorrerie e minacciare la stabilità di un Paese segnato da profonde
divisioni etniche e religiose, da una storia di golpe e di regimi
militari, dalla corruzione, dalla povertà e dalle violenze. La
Nigeria è al terzo posto della classifica della povertà della Banca
Mondiale con il 7 per cento dei poveri del mondo, ma è anche una nazione
ricca di risorse e il maggiore produttore di petrolio del continente
africano.
Il conflitto tra le milizie islamiste e lo Stato sta ampliando la
spaccatura tra Nord e Sud, tra musulmani e cristiani, e sarà un tema
centrale nell’imminente campagna elettorale. Nel Borno intere
città sono controllate da Boko Haram, la popolazione è vessata e
costretta a sostenere la guerra santa di Abubakar Shekau che in un video
recente ha parlato di “califfato”, mostrando lapidazioni e
decapitazioni. Ma in questo cosiddetto califfato più che la
legge islamica vigono il sopruso e la prevaricazione, stando ai racconti
che alcuni abitanti della città di Bama hanno fatto alla
radiotelevisione americana Voice of America. I
miliziani hanno occupato gli edifici pubblici e gli esercizi
commerciali, arrestano donne giovani per – dicono - insegnare loro il
Corano e fanno pagare “cauzioni” salate alle famiglie per
rilasciarle, uccidono chiunque si rifiuti di aiutarli o di combattere
con loro.
Tuttavia, non si tratta soltanto di una banda di predoni dedita al saccheggio. Al contrario,
Boko Haram è sospettato di avere forti legami con Al Qaeda nel Maghreb
(AQIM) e ha capacità operative e una forte rete di contatti. È
sospettato anche di avere attraversato i confini nigeriani per mettere a
segno rapimenti in Camerun, un’attività piuttosto redditizia.
D’altronde, questa sorta di setta di guerrieri si è fatta notare nel
2011, quando ha colpito con un attentato suicida il quartier generale
dell’Onu ad Abuja. E nell’ultimo anno altre bombe hanno scosso la
capitale nigeriana, portando la minaccia islamista al di fuori delle
zone settentrionali.
Sarà dunque una campagna elettorale incentrata sulla sicurezza, ma non è soltanto di questo che ha bisogno il Paese.
Le radici di questa insurrezione armata stanno nell’arretratezza
economica di un’ampia parte del territorio, trascurato dal governo
centrale, se non addirittura discriminato. Non sono state messe
in campo politiche economiche per il nord-est. Non sono stati creati
sviluppo e lavoro per i giovani di quelle zone, costretti a scegliere
tra la povertà e la promessa di un bottino di guerra offertagli da Boko
Haram. L’invio di altre truppe non porterà la pace, ma forse non è questo l’obiettivo di chi trae vantaggi da questa situazione. Premium Times fa notare che
il conflitto ha creato un’economia illegale -traffico d’armi,
riciclaggio di denaro sporco, traffico di valuta - in cui sguazzano tanti
nigeriani.
Interessi che travalicano quelli legati al destino delle decine di
donne catturate dai miliziani. La loro sorte sarà materia di propaganda
elettorale, ma le speranze che tornino a casa sfumano ogni giorno che
passa, mentre cresce la delusione e la rabbia per l’incapacità del
governo di mantenere la promessa di mettere fine al conflitto.
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