Su Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa è uscito un articolo intitolato “Italia e Germania divise dal «Nawru»” che, nonostante a tratti sia poco comprensibile per i non addetti ai lavori, nel succo rende bene l’idea di uno di quei tanti indicatori che sono tutto tranne che roba da economisti per gli effetti che comportano sull’economia reale. L’oggetto del pezzo è il cosiddetto Nawru, definito dall’autore dell’articolo come uno dei perni, che si vedono poco e di cui non si parla poi così tanto, dell’intera concezione monetaria e economica – fiscale e di bilancio – dell’Unione europea.
L’acronimo sta letteralmente per “Non Accelerating Wage Rate Of Unemployment” e rappresenta il tasso di disoccupazione di equilibrio tale da non generare aumenti eccessivi nei salari che potrebbero provocare inflazione. In pratica, è il tasso di disoccupazione giusto per far stare tutti buoni, quello che presuppone un “esercito industriale di riserva” abbastanza grande da ridurre al minimo i rapporti di forza in favore dei lavoratori che altrimenti potrebbero avanzare richieste in termini di migliori salari e condizioni di lavoro. E questo sarebbe molto male perché aumenterebbe il costo del lavoro per i padroni, i quali per mantenere inalterati i loro profitti compenserebbero con un aumento dei prezzi di vendita, che a sua volta porterebbe a nuove richieste di salari maggiori da parte dei lavoratori, nuovi aumenti dei prezzi e così via. Con il risultato di una crescente inflazione, nemico giurato dell’Unione Europea e soprattutto della Germania.
E su questo interviene anche Vladimiro Giacchè, affermando che dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio (il suddetto Nawru ndr) sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione.
Il fatto in sé che venga teorizzato e impiegato pubblicamente un indicatore economico che presuppone la NECESSITA’ di un certo numero di disoccupati, anche se non sorprende, fa comunque abbastanza impressione. E chiarisce senza eufemismi che all’Unione Europea e ai governi nazionali, tutto sommato, gli frega ben poco di ridurre la disoccupazione se ci sono altre priorità, per lo più made in Germany. Ma che anzi è cosa buona e giusta che il tasso di disoccupazione sia a un certo livello, che nello specifico è stimato dalla Commissione Europea per ogni paese. Come spiega nell’articolo il capoeconomista del Cer, Stefano Fantacone, il problema è quello che concretamente capita in uno scenario dissestato come quello europeo. Con una disoccupazione crescente e difficile da controllare, che fa sì che ogni anno il filtro statistico del Nawru postulato dalla Commissione tenda anch’esso ad aumentare sempre più, quasi inseguendo il tasso di disoccupazione reale.
E infatti il Nawru della Germania, approssimandosi ai tassi di disoccupazione, è stimato per il 2015 intorno al 5%, per Francia e Italia arriva intorno al 10 e 11% e per la Spagna addirittura al 25%. Il che, se non fosse abbastanza chiaro, significa che in Italia il tasso di disoccupazione NON DEVE scendere sotto l’11% e in Spagna sotto il 25%, al fine di scongiurare il rischio di inflazione.
Ora, se tutto ciò rimanesse nelle idee di tecnici ed economisti già sarebbe preoccupante. Ma il fatto che lo rende davvero un problema è che sulla base di questo indicatore vengono stabilite le politiche economiche e di bilancio dell’Unione Europea e dei governi nazionali. Da deduzione, si capisce subito di che tipo debbano essere queste politiche. Mantenere il tasso di disoccupazione a un alto livello + tenere bassa l’inflazione + rispettare vincoli europei di bilancio + far contenta la Merkel è una combinazione che non può che portare ad evitare qualsiasi idea di politiche espansive per la crescita in favore di quelle restrittive che, al solito, ricadono direttamente sulle condizioni di vita di quella classe che più che pensare a indicatori, inflazione e vincoli di bilancio pensa a come fare per campare.
Un’ultima nota, di cui forse si sarà accorto chi ha dato un’occhiata ai giornali negli ultimi tempi. Ossia il paradosso dell’utilizzo di questo indicatore costruito per il contenimento dell’inflazione, in un momento in cui non esiste alcuna credibile prospettiva di inflazione tale da giustificarlo, trovandosi l’Unione Europea invece in una condizione di deflazione e quindi di riduzione del livello generale dei prezzi. Per cui, a occhio, non chiamateci complottisti se pensiamo che indicatori del genere servano a tenere a bada ben altro che l’inflazione.
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