Il dibattito suscitato intorno alla
nostra riflessione sull’eventuale nuovo soggetto politico a sinistra del
PD e guidato presumibilmente da Landini non va perso per strada. E’
importante chiarire alcuni passaggi del nostro articolo, e ancor più
importante portare avanti una riflessione che per forza di cose non può
esaurirsi in poche battute o pochi articoli. Per questo occorre
precisare che: non stiamo appoggiando, né idealmente né tantomeno
concretamente, alcun soggetto politico riformista o socialdemocratico;
non abbiamo alcuna fiducia né in Landini né in quella dirigenza
politico-sindacale che probabilmente comporrà il nuovo soggetto
politico; la stessa fase politico-economica che stiamo attraversando
rende impossibile la nascita di un sincero riformismo progressista,
motivo per cui tale eventuale soggetto, anche laddove fosse animato
dalle migliori intenzioni, si scontrerebbe con l’impossibilità di
qualsiasi “riformismo operaio”. Queste considerazioni, ovvie per quanto
ci riguarda, evidentemente vanno rimarcate visti i dubbi emersi dal
dibattito seguito all’articolo. Detto
questo, è necessario anche portare avanti un ragionamento che non può
fermarsi alla mera opposizione al Landini di turno perché riformista,
anticomunista e via insultando, perché non è certo oggi la fase in cui
tali battaglie ideologiche riuscirebbero ad essere comprese al di fuori
di chi le porta avanti, a costruire cioè opinione pubblica.
Come dicevamo, manca oggi una
rappresentanza politica del mondo del lavoro. Nel corso di due secoli,
nell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, questa – almeno in Europa
occidentale – è stata garantita dalle forze socialdemocratiche. Anche i
partiti comunisti, in primo luogo quello italiano e francese, diverranno
partiti di massa e inizieranno a rappresentare concretamente la classe
operaia solo quando si trasformeranno in partiti di fatto
riformisti. E’ nel dopoguerra che queste forze prendono il monopolio dei
destini politici della classe operaia, e non lo perderanno neanche nei
momenti più caldi della “concorrenza” fra organizzazioni a sinistra dei
partiti comunisti ufficiali. Detto questo, quindi, sperare che oggi, di
fronte alla ritirata storica delle forze della sinistra di classe, di
fronte all’egemonia incontrastata della cultura politica
liberal-liberista, e soprattutto di fronte ad un mondo del lavoro
atomizzato, individualizzato, sfilacciato fino all’estremo, sia questa sinistra
antagonista ad assumerne la guida, a rappresentarne le ragioni
politiche, ci sembra effettivamente poco credibile. In primo luogo,
perché non è stato così neanche nei momenti in cui questa sinistra aveva
la forza e gli argomenti per strappare “quote d’egemonia” proprio al
PCI. In secondo, perché ci sembra manchi persino la volontà.
Se la storia potesse insegnarci qualcosa
ci direbbe che, almeno in Europa, il mondo del lavoro non è stato mai
organizzato dalle sinistre radicali. Allo stesso tempo è necessario, per
le sorti di tutta la sinistra, un lavoro di ricomposizione politica
della classe, pena la perdita di rilevanza delle istanze della sinistra
stessa, sia riformista che radicale (come infatti in questi anni).
Questa contraddizione ci mette davanti ad un problema a cui non possiamo
sottrarci: possiamo continuare a voltarci dall’altra parte ma, come
diceva un nostro commentatore, “in sostanza non è possibile costruire
una prospettiva rivoluzionaria in un paese privo di qualunque forma di
rappresentanza politica organica del lavoro salariato”. Chi la da questa
rappresentanza oggi? La scomparsa del PCI e del resto delle forze
riformiste data ormai a venticinque anni fa. Questi venticinque anni non
hanno visto la sinistra radicale colmare alcun vuoto politico, ma
soprattutto non hanno colmato la voragine sociale che la scomparsa di
quel partito si è portata dietro. Resiste l’organizzazione sindacale, ma
è evidentemente in declino e, rotto il rapporto politico con il partito
di riferimento, senza alcuna prospettiva se non quella di tappare i
buchi dell’ondata liberista che inevitabilmente, dati gli attuali
rapporti di forza politici, travolgerà quelle residue garanzie strappate
con la lotta quarant’anni prima.
Questa è la premessa del nostro
ragionamento, e da questa partivamo per affermare sostanzialmente una
cosa: c’è la necessità storica di riattivare un percorso di
ricomposizione politica della classe, perché senza di questo
continueremmo a navigare nell’irrilevanza, ai margini della politica
ufficiale, trasformandoci più in caso di studio che in problema
politico. E questa ricomposizione non avverrà con la lotta, o quantomeno
non sarà principalmente attraverso l’orizzonte di un conflitto
permanente che si riusciranno a rimettere insieme i cocci di un tessuto
sociale di classe. L’unità di classe garantita dalle forze riformiste si
basava su molto più prosaiche soluzioni quotidiane ai problemi
quotidiani, sull’aggregazione attorno ad una comunità che partiva dal
luogo di lavoro per espandersi ad ogni momento della vita del
lavoratore. Quell’insieme di strutture sociali basate sulla
cooperazione, il mutuo soccorso, il dopo-lavoro, quella sorta di “stato
sociale” parallelo creato dal PCI che al tempo stesso anestetizzava
determinati istinti rivoluzionari ma che costruiva una visione
collettiva del proprio essere sociale, un idem sentire, una
comunità sociale con determinati punti di riferimento politici. Questa
costruzione garantiva un dissodamento del terreno su cui intervenivano
anche le sinistre radicali e rivoluzionarie. Per quanto anestetizzati,
pacificati e sostanzialmente guadagnati al riformismo operaio, i
lavoratori organizzati dal PCI-CGIL di sicuro facevano parte di una
entità collettiva con alla base dei valori democratici e inclusivi su
cui era molto più facile lavorare politicamente. Per quanto un
lavoratore del PCI fosse culturalmente monolitico, lavorare su una
classe che non si percepisce più tale, sedotta dal leghismo o dal
nazionalismo piccolo-borghese, individualizzata all’eccesso, con
venature para-fasciste in alcuni casi e qualunquiste in altri,
sostanzialmente disinteressata al destino altrui che non sia la mera
difesa del proprio posto di lavoro a scapito del migrante di turno,
impedisce alle forze antagoniste di produrre un discorso politico che
possa essere recepito da qualsivoglia soggetto sociale.
Al tempo stesso, non c’è dubbio che
questo tipo di soggettività sociale sia oggi in profonda crisi anche per
ragioni oggettive, di ristrutturazione del mondo del lavoro, e che il
cuore della produzione capitalista si basi oggi su una forma di lavoro
precaria in costante ascesa. Ma questo non può nascondere il fatto che
quella composizione descritta, novecentesca, non solo sia
ancora presente, ma sia una presenza di massa che non può essere
ignorata o banalizzata. E’ giusto ritenere il lavoro precario, senza
diritti, saltuario, migrante, centrale nel processo produttivo,
ma è altrettanto opportuno non sottovalutare il resto del panorama
sociale, che ancora oggi è determinante. Il parallelo tra il Partito
Bolscevico operaio e la composizione contadina russa è fin troppo
evidente. Senza i contadini, senza un discorso credibile e degli
obiettivi politici realizzabili e convincenti per i contadini russi,
nessuna Rivoluzione sarebbe potuta prodursi in Russia sotto la guida del
partito operaio per definizione.
E’ per questa ragione che oggi sarebbe
necessario un ritorno alla cooperazione sociale nella classe, un lavoro
che possa ricomporre i fili sociali di un discorso che, purtroppo, non
siamo noi in grado di ricomporre. Non sarà il partito di Landini a
farlo, ma questo non elimina il problema, e cioè che sarebbe opportuna
la nascita di una forza politica di classe, espressione del mondo del
lavoro, capace di riattivare un discorso politico del lavoro, anche da
un punto di vista riformista, ma che abbia la forza di farsi egemone su
quella determinata composizione. Non risolverebbe i nostri problemi
politici come sinistra antagonista, ma determinerebbe quelle condizioni
di lavoro tali da poter riattivare un lavoro politico nella classe e una
battaglia ideologica con le forze riformiste, oggi inesistenti. Il
fallimento delle decine di costituenti socialdemocratiche, dei tentativi
di rimettere in piedi un discorso coerentemente riformista, non
descrivono solo i limiti soggettivi di chi compie questi tentativi, ma
ci dicono anche del limite oggettivo, storico, di riproporre questo
nuovo partito di massa della classe operaia. La soluzione non è quella
di recuperare vecchi modelli, oggi inattuabili, quanto quello di uscire
da questo cul de sac che impedisce sia la pratica riformista
che quella rivoluzionaria. Ma il problema dell’organizzazione politica e
sociale della massa di lavoratori dell’industria, della pubblica
amministrazione, delle attività intellettuali o d’ufficio, delle grandi
aziende: questo è uno dei problemi principali oggi, senza risolvere il
quale continueremo a navigare lontani dalla Politica, quella con la P
maiuscola e che muove i destini delle popolazioni, riducendoci purtroppo
al ruolo di organizzatori della fisiologica rabbia sociale che esprime
ogni tipo di società.
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