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30/10/2014

Cina Grande Potenza: un vecchio esercito, il nuovo che avanza


Michele Marsonet torna da una ‘trasferta’ accademica in Cina e ci racconta. Oggi una novità sul ‘fronte militare’: la contraddizione tra la Grande Potenza economica e le sue burocratiche Forze armate sotto tutela del Partito. Ma il ‘socialismo di mercato’ impone efficienza anche in divisa.

La crescente tendenza della Cina a svolgere un ruolo di superpotenza politica – e non solo commerciale ed economica – nello scenario mondiale impone automaticamente un rafforzamento e una maggiore efficienza delle sue forze armate. Sul piano dei numeri e della quantità nessuno dubita che il grande Paese asiatico abbia le carte in regola. Su quello qualitativo, invece, gli osservatori esprimono spesso forti perplessità, poiché l’Esercito di Liberazione Popolare dà l’impressione di essere un colosso dai piedi d’argilla.

Sarebbe certamente in grado di reprimere senza eccessivi problemi la ribellione di una parte della popolazione di Hong Kong qualora ricevesse tale ordine dalla leadership di Pechino. Soprattutto se il movimento “Occupy Central” insistesse nella richiesta di una completa democratizzazione paralizzando di fatto le attività produttive della ex colonia britannica.

Né avrebbe grandi difficoltà a compiere atti di forza contro le nazioni più piccole – esempi tipici Vietnam e Filippine – da tempo in contrasto con il potente vicino per il controllo di numerosi arcipelaghi situati nel Mar Cinese Meridionale. Negli ultimi tempi la politica cinese si è fatta più prudente con il ritiro, per esempio, della piattaforma di ricerca petrolifera piazzata al largo delle coste vietnamite. Già più complicato è il discorso per quanto riguarda il Giappone, le cui “Forze di autodifesa” godono fama di efficienza e hanno una consistenza e una qualità tecnologica che non corrispondono in pieno al loro nome limitativo.

Dopo l’avvento al potere del Presidente Xi Jinping il tema della riforma delle forze armate è ancor più al centro dell’attenzione, e chi si reca in Cina ha modo di notarlo subito scorrendo i numerosi quotidiani pubblicati in lingua inglese come “China Daily” e “Global Times”. Il problema in sostanza è il seguente.

L’Esercito di Liberazione Popolare è da sempre sottoposto al partito comunista e da esso controllato. I militari devono dar prova di essere fedeli alla linea politica fissata e, non a caso, nel corso di un recente viaggio ho letto più di una volta che “l’esercito deve restare leale alla leadership del partito”. Se lo scrivono così spesso, tuttavia, vien fatto di pensare che le cose non stiano proprio così. In un articolo si legge addirittura un ammonimento volto a porre termine agli “scontri ideologici” all’interno dell’Esercito, che vengono definiti “acuti e complicati”. Il fatto è che molti ufficiali, anche di grado elevato, invocano un maggiore distacco dalle autorità politiche al fine di giungere a una maggiore preparazione professionale delle forze armate.

Viene insomma chiesta una loro “nazionalizzazione”, ove con questo termine s’intende staccare le progressioni di carriera dalla fedeltà alle direttive di partito, il quale è del resto rappresentato in modo diretto in esercito, aviazione e marina da funzionari in divisa (una volta si chiamavano, se non vado errato, “commissari politici”). Mette conto notare che una situazione analoga si ritrova anche nelle università, dove il potere reale è nelle mani dei rappresentanti del partito piuttosto che in quelle dei rettori.

E’, in fondo, una delle tante contraddizioni che la Repubblica Popolare deve affrontare dopo che il Paese si è aperto al mondo esterno, inviando milioni di giovani a studiare all’estero. Costoro, al ritorno, portano con sé idee nuove e pretendono una modernizzazione in tempi rapidi. Nota a tale proposito Xu Guangyu, uno dei massimi esperti dell’esercito, che “alcuni giovani leaders militari sono stati molto influenzati da tali idee, e ciò potrebbe causare fratture insanabili nelle forze armate”.

Il partito ha in molti casi reagito con accuse di corruzione rivolte al mondo militare ma, essendo esso stesso al centro di numerosi scandali di uguale natura, non può permettersi di andare oltre certi limiti.

Come si possa risolvere la questione, pur in presenza degli indubbi successi economici, restando fermi allo schema del partito unico che controlla in modo pressoché totale ogni aspetto della società è tutt’altro che chiaro. Il “socialismo di mercato” in vigore dai tempi di Deng Xiaoping non può essere abbandonato se non adottando una sorta di multipartitismo, magari limitato, di stile occidentale. Ma è un’ipotesi che l’attuale leadership – come le precedenti – non intende affatto prendere in considerazione.

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