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22/10/2014

ISIS - Iraq e Siria terreno di confronto tra Turchia e Iran

Kurdi in Turchia guardano la battaglia di Kobane (Foto: Afp)

L’Iran non intende restare fuori dalla guerra all’Isis. Dopo le cinque autobombe che ieri hanno colpito la città sacra sciita di Karbala – che più volte Teheran ha definito la linea rossa invalicabile dallo Stato Islamico, insieme a Najaf – ieri sera il premier iracheno al-Abadi è volato per la prima volta in Iran. Ha incontrato il presidente Rowhani con il quale ha discusso della crisi in corso.

Dopo l’occupazione statunitense e la nascita di governi a maggioranza sciita a Baghdad, i legami con Teheran si sono rafforzati, trasformando – secondo i critici – l’Iraq in un satellite iraniano. Un riavvicinamento che preoccupa soprattutto l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, in particolare a seguito delle politiche morbide di Baghdad nei confronti del presidente siriano Assad, parte dell’asse sciita guidato dall’Iran.

La visita di al-Abadi segna il rinnovato rapporto con Teheran, dopo la rimozione dell’ex premier Maliki, ex alleato iraniano che Rowhani non ha però esitato a scaricare per le politiche divisive e settarie di cui ha impregnato il paese. Da allora il sostegno iraniano alla guerra all’Isis è stato immediato: Teheran è stato il primo paese a inviare armi ai peshmerga, mentre l’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie e il suo capo, Qassem Suleimani, sono volati in Iraq per coordinare le operazioni militari irachene.

L’incontro si è svolto a poche ore dal via libera turco al passaggio di peshmerga a Kobane. La Turchia, parte dell’asse anti-iraniano, ha optato per un cambio di strategia e dopo settimane di apatia ha ceduto alle pressioni Usa. Ovviamente, l’ingresso in Siria è garantito ai soli kurdi iracheni, alleati Usa e quindi turchi, ma non ai combattenti del Pkk*.

Oggi è giunto il plauso Usa alla decisione turca: “Accogliamo le dichiarazioni del ministro degli Esteri”, ha detto la portavoce del Dipartimento di Stato, seppure a ieri sera nessun peshmerga avesse ancora messo piede a Kobane, hanno fatto sapere i kurdi siriani in città. Il dialogo tra Washington e Ankara non cessa, con la Casa Bianca impegnata a fare ancora pressioni sugli alleati perché intervengano in modo più massiccio.

Un intervento che per Ankara è condizionato: in un articolo pubblicato ieri sul The Guardian, il ministro degli Esteri turco Cavusoglu ha ricordato che, seppure “la Turchia sarà sempre in prima linea nella lotta al terrore” e sebbene “abbia aperto i propri confini ai rifugiati di Kobane e […] facilitato il passaggio dei peshmerga”, quello che resta necessario è “una strategia chiara”. Contro chi? Contro Assad: “L’Isis è il prodotto di un più grande demonio – scrive Cavusoglu – Non solo il terreno fertile offerto dall’instabilità in Siria, ma anche l’ardente sostegno del regime ha aiutato i gruppi terroristici a crescere. Il regime è stato il padrino dell’Isis con l’intenzione di sradicare le opposizioni siriane insieme alle legittime domande del popolo siriano”.

Dimenticando il ruolo avuto dal suo stesso paese che in quasi quattro anni di guerra civile ha permesso il passaggio di armi e miliziani islamisti in territorio siriano, Ankara insiste sul ruolo di Damasco. Questo l’obiettivo dichiarato: rovesciare Assad e assumere il ruolo di guida mediorientale, un target per ora sempre fallito dal presidente Erdogan.

Da parte loro, gli Stati Uniti hanno sganciato domenica su Kobane armi e munizioni a favore delle Unità di protezione popolare kurde. Non senza errori: ieri l’esercito Usa ha ammesso di aver bombardato alcuni aiuti militari lanciati il giorno prima vicino Kobane, perché troppo vicini ad una postazione Isis. Distrutti per non farli cadere in mano islamista.

L’assedio di Sinjar.

A due mesi dall’assedio di Sinjar e il massacro di yazidi, la minoranza irachena torna all’attenzione dei media: lo Stato Islamico ha circondato i villaggi yazidi iracheni, occupandone due e costringendo alla fuga un’altra ondata di civili. All’inizio di agosto, il dramma degli yazidi – 5mila furono uccisi, oltre 7mila rapidi dai miliziani islamisti e venduti come schiavi al mercato di Mosul – è stato utilizzato dall’Occidente come la migliore giustificazione all’intervento in Iraq e ai primi bombardamenti. All’epoca l’azione congiunta di peshmerga e Stati Uniti permise di rompere l’assedio islamista del monte Sinjar, dove 200mila yazidi si erano rifugiati, per poi fuggire in Kurdistan dove oggi vivono in campi profughi e in rifugi improvvisati.

Secondo testimoni sul posto, alle unità di protezione messe in piedi dagli yazidi mancano ormai armi e munizioni: “Stanno avanzando – ha detto Khalid Qassim Shesho, combattente yazidi sul monte Sinjar, al telefono – Posso vedere le jeep senza il binocolo. Abbiamo bisogno di aerei”. Non è ancora chiaro quanti siano i civili assediati, probabilmente 2mila persone, 700 famiglie.

Fonte

* Finalmente qualcuno lo fa notare, era l'ora! La nuova emergenza degli Yazidi dimostri invece come la strategia americana sia costantemente di corto respiro, o meglio volta a sfruttare le onde di empatia per i poveri cristi che si lasciano comunque in balia dei pescecani una volta solleticata l'emotività dell'opinione pubblica.

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