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26/10/2014

Rojava, rompere l’assedio e la solitudine

"Lunga vita alla resistenza di Kobanȇ" è l’auspicio che i sostenitori del sogno della Rojava lanciano con una mobilitazione nelle piazze il primo novembre prossimo. Resistenza sì, ma per quanto? E con quale sostegno? Finora s’è mossa la rete della solidarietà internazionale, sebbene la politica, macro e micro, non abbiano fatto molto. Oddio, il premier italiano Renzi a fine agosto volò in Iraq nei panni di Presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea, promettendo armi (una partita di kalashinkov sequestrati a un faccendiere russo 20 anni fa) ai peshmerga. Iniziativa di cui non s’è saputo più nulla e che puzzava di manovra autoreferenziale per accreditare sulla scena internazionale la ministra degli esteri Mogherini nell’incarico di Alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza comune. Raggiunto lo scopo il nostro governo, e così quelli di altri Paesi dell’Unione, non si sono proposti ulteriori strategie se non quella d’assecondare la scelta di sorvoli e attacchi aerei Nato alle postazioni dell’Isis in Iraq e poi sull’assediata Kobanȇ. Alcuni bombardamenti statunitensi, soprattutto nei primi giorni di ottobre, hanno alleggerito le condizioni degli assediati d’una città svuotata solo parzialmente, perché i civili non sanno dove fuggire.

Sotto quell’impatto emotivo l’area scandinava, quella tedesca e la metropoli londinese hanno registrato un sensibile supporto con manifestazioni pubbliche. Anche in India, Russia, Stati Uniti e addirittura in Afghanistan attivisti democratici hanno sfilato per il futuro di Kobanȇ e della Rojava. Il territorio di confine turco, nelle province del sud-est s’è infiammato con una protesta amplissima crudelmente repressa dal governo Davutoğlu, su cui aleggia la supervisione di Erdoğan. Un bilancio gravissimo che conta 33 morti per azioni coercitive dell’esercito turco che a Mardin e Nusaybin ha sparato sulla folla, seguìto dalla polizia nelle strade di Bingöl e Diyarbakır, mentre a Mardin, Siirt, Adana, Gaziantep gruppi paramilitari e fazioni dell’islamismo estremista operavano attacchi assassini sulla comunità kurda solidale coi fratelli della Rojava. Un aggiuntivo bagno di sangue che passa sotto gli occhi della comunità internazionale pronta a trincerarsi dietro le dichiarazioni dei rappresentanti Onu. Fra esse spicca l’accorato appello di Staffan De Mistura che richiama alla memoria Sebrenica e quanto lì accadde, per lanciare un’autoaccusa agli apparati Onu che nulla fecero per evitare quei massacri e che potrebbero riproporre la medesima passività.

Incubi ripetibili se l’opportunismo s’incarna in una cinica real-politik, visto che centinaia di migliaia di civili sono di per sé un bersaglio inerme attualmente impossibilitato a trovare riparo. Tale sembra il panorama che lascia il popolo della Rojava e i suoi reparti di difesa armati (Ypg-Ypj) alla mercé degli eventi e sotto il mirino jihadista. Le immagini che mostrano le pattuglie dell’esercito turco poste a vigilanza dei confini di Stato instaurare amichevoli conciliabili con reparti dell’Is sui cui pick-up sventola il vessillo nero hanno fatto il giro dei media. Come le forniture di armi che via treno giungono nei pressi di villaggi controllati dai fondamentalisti. Una scelta aperta operata dalla leadership di Ankara che coglie l’occasione dell’aggressione armata al territorio dell’autogoverno del Kurdistan occidentale per indebolire una popolazione considerata, nonostante tutti i pronunciamenti, nemica. Gli organismi di sostegno della comunità kurda ribadiscono la necessità che la difesa di quest’esperienza e quest’area sia sentita come una protezione per la cultura e la società multietnica, pluralista e democratica. Un baluardo dal quale guardare al futuro e per il quale chiamano a una diffusa mobilitazione.

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