di Sonia Grieco
A dirigere il traffico a
Sana’a adesso ci sono i combattenti sciiti Houthi, armati di fucile e
con indosso la pettorina fluorescente, racconta il settimanale Yemen Times.
La capitale yemenita è nelle loro mani dal 21 settembre e
sembra che non abbiano intenzione di suonare la ritirata, nonostante
l’accordo siglato con il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi e l’insediamento alla guida del governo di un uomo a loro gradito: Khaled Bahah, ex inviato alle Nazioni Unite. Né
si sono fermati i combattimenti al Sud tra il movimento sciita, che
dalla capitale si è spinto verso le regioni meridionali, e le milizie di
al Qaeda e delle tribù sunnite. Lo scorso fine settimana sono morte
almeno 250 persone negli scontri nella città di Radda, mentre la
popolazione è in fuga.
Una situazione esplosiva, che alcuni temono faccia tornare il Paese
alla divisione pre-1990 tra un Nord sciita e un Sud sunnita dove c’è il
pericolo di una espansione dei qaedisti. Gli Houthi non vogliono
mollare la presa sulla capitale, giustificando la loro presenza come
una forza di contrapposizione a una possibile avanzata di al Qaeda su
Sana’a, mentre sono in corso le consultazioni per la formazione del
nuovo esecutivo. Al Sud, invece, le istanze
indipendentiste, mai sopite, sono state rinvigorite dall’offensiva dei
combattenti sciiti, dotati di artiglieria pesante, che non hanno
incontrato una reale opposizione da parte delle Forze armate yemenite. Al contrario, riferisce il libanese Daily Star,
il 193esimo battaglione di stanza a Radda avrebbe abbandonato le sue
posizioni per lasciar passare gli Houthi. Il suo comandante è noto come
un uomo del regime dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, fattosi da parte in seguito alla rivolta scoppiata in Yemen nel 2011 sull’onda delle primavere arabe.
Dal 14 ottobre (51esimo anniversario della rivolta contro la Gran
Bretagna) a Aden, l’ex capitale del Sud, ci sono manifestazioni e sit-in
a oltranza per la secessione. Inoltre, domenica scorsa i due movimenti
secessionisti hanno ritrovato l’unità e hanno fondato il Consiglio supremo del movimento meridionale pacifico e rivoluzionario, che al primo posto del suo programma ha messo l’indipendenza delle regioni del Sud. Una richiesta che ha trovato la sponda di 33
dei 53 deputati del Sud, che hanno parlato di referendum per
l’indipendenza e si sono costituiti in un unico blocco parlamentare. Una conseguenza della situazione a Sana’a, ha tuonato al Islah, il partito-ombrello sunnita.
Soltanto negli ultimi giorni il presidente Hadi ha apertamente
criticato la presenza dei combattenti sciiti nella capitale.
“L’espansione armata degli Houthi”, ha detto, “non è comprensibile né
accettabile dopo la firma dell’accordo di pace”. Ma sono in molti a ritenere che l’avanzata degli Houthi sia stata possibile anche grazie alla complicità di Hadi
che, se non ha sostenuto, ha per lo meno lasciato fare, sperando in un
indebolimento del rivale Islah che è in effetti alle strette.
Secondo molti analisti, sullo sfondo di queste lacerazioni
interne a un Paese poverissimo e da sempre instabile c’è la lotta per la
supremazia regionale tra l’Iran sciita e la dinastia sunnita che regna a
Riad. Un ruolo (involontario) che mette lo Yemen al centro di
interessi regionali e internazionali legati anche alla massiccia
presenza sul suo territorio di al Qaeda nella Penisola arabica (AQPA), presa di mira dai droni Usa. Nel
Paese è in atto una sorta di resa dei conti tra sciiti e sunniti che
mette in allarme Washington e le petromonarchie, preoccupati
dell’influenza iraniana sul povero e agitato Paese della Penisola.
Nel 2011 la primavera yemenita - come accaduto in Bahrein - si è risolta con l’intervento del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), organismo dominato dai sauditi, che ha imposto alla piazza un patto di elité: Saleh
ha ceduto la presidenza al suo vice Hadi in cambio dell’immunità e il
governo di transizione è stato formato a metà da Islah e a metà dal
partito dell’ex presidente, il General People’s Congress. Ma
Islah, che ha accarezzato l’idea di arrivare ai vertici del potere, è
ben presto caduto in disgrazia a Riad per i suoi legami con i Fratelli musulmani
e, dopo avere svolto per anni un ruolo anti-Houthi al confine con
l’Arabia Saudita, è stato inserito nella lista nera dalla monarchia
wahabita. Il patto è dunque saltato e sono entrati in scena gli Houthi,
capaci di mobilitare la popolazioni e di mettere in campo anche una
certa forza militare.
Il 18 agosto sono iniziate le manifestazioni antigovernative degli
Houthi a Sana’a, con la richiesta delle dimissioni dell’esecutivo,
sfociate nell’occupazione della capitale e dello strategico porto di Hodeidah affacciato sul mar Rosso. Un nuovo premier e un’intesa per formare un nuovo governo non hanno però fermato le violenze.
In base all’accordo approvato da tutte le forze politiche, ogni
partito deve indicare i nomi da inserire nel futuro esecutivo, ma
venerdì gli Houthi hanno fatto sapere che rinunciano a entrare
al governo. “Lasceremo le nostre poltrone a disposizione dei nostri
fratelli del Sud”, ha detto il leader, Abdul Malik al-Houthi,
senza che però nessun combattente sciita abbia lasciato Sana’a.
L’intenzione sembra quella di controllare dall’esterno. A ottobre hanno
posto il veto alla nomina alla guida del governo di Ahmed Bin Mubarak,
ottenendo che fosse designato una figura a loro gradita, Khaled Bahah.
Secondo un’analisi di Middle East Eye, tanta
generosità nasconderebbe il timore di trovarsi al potere in un momento
difficile, con il rischio di fallire e perdere tutto il credito
guadagnato con quella che il movimento sciita ha definito una
“rivoluzione” contro un “governo corrotto”. Gli Houthi,
infatti, sono in una posizione di forza ed entrare nella macchina
amministrativa potrebbe persino risultare d’intralcio per il loro
obiettivo: un ruolo nello Yemen post transizione.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento