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29/10/2014

La battaglia per lo Yemen

di Sonia Grieco

A dirigere il traffico a Sana’a adesso ci sono i combattenti sciiti Houthi, armati di fucile e con indosso la pettorina fluorescente, racconta il settimanale Yemen Times.
La capitale yemenita è nelle loro mani dal 21 settembre e sembra che non abbiano intenzione di suonare la ritirata, nonostante l’accordo siglato con il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi e l’insediamento alla guida del governo di un uomo a loro gradito: Khaled Bahah, ex inviato alle Nazioni Unite. Né si sono fermati i combattimenti al Sud tra il movimento sciita, che dalla capitale si è spinto verso le regioni meridionali, e le milizie di al Qaeda e delle tribù sunnite. Lo scorso fine settimana sono morte almeno 250 persone negli scontri nella città di Radda, mentre la popolazione è in fuga.

Una situazione esplosiva, che alcuni temono faccia tornare il Paese alla divisione pre-1990 tra un Nord sciita e un Sud sunnita dove c’è il pericolo di una espansione dei qaedisti. Gli Houthi non vogliono mollare la presa sulla capitale, giustificando la loro presenza come una forza di contrapposizione a una possibile avanzata di al Qaeda su Sana’a, mentre sono in corso le consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo. Al Sud, invece, le istanze indipendentiste, mai sopite, sono state rinvigorite dall’offensiva dei combattenti sciiti, dotati di artiglieria pesante, che non hanno incontrato una reale opposizione da parte delle Forze armate yemenite. Al contrario, riferisce il libanese Daily Star, il 193esimo battaglione di stanza a Radda avrebbe abbandonato le sue posizioni per lasciar passare gli Houthi. Il suo comandante è noto come un uomo del regime dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, fattosi da parte in seguito alla rivolta scoppiata in Yemen nel 2011 sull’onda delle primavere arabe.

Dal 14 ottobre (51esimo anniversario della rivolta contro la Gran Bretagna) a Aden, l’ex capitale del Sud, ci sono manifestazioni e sit-in a oltranza per la secessione. Inoltre, domenica scorsa i due movimenti secessionisti hanno ritrovato l’unità e hanno fondato il Consiglio supremo del movimento meridionale pacifico e rivoluzionario, che al primo posto del suo programma ha messo l’indipendenza delle regioni del Sud. Una richiesta che ha trovato la sponda di 33 dei 53 deputati del Sud, che hanno parlato di referendum per l’indipendenza e si sono costituiti in un unico blocco parlamentare. Una conseguenza della situazione a Sana’a, ha tuonato al Islah, il partito-ombrello sunnita.

Soltanto negli ultimi giorni il presidente Hadi ha apertamente criticato la presenza dei combattenti sciiti nella capitale. “L’espansione armata degli Houthi”, ha detto, “non è comprensibile né accettabile dopo la firma dell’accordo di pace”. Ma sono in molti a ritenere che l’avanzata degli Houthi sia stata possibile anche grazie alla complicità di Hadi che, se non ha sostenuto, ha per lo meno lasciato fare, sperando in un indebolimento del rivale Islah che è in effetti alle strette.

Secondo molti analisti, sullo sfondo di queste lacerazioni interne a un Paese poverissimo e da sempre instabile c’è la lotta per la supremazia regionale tra l’Iran sciita e la dinastia sunnita che regna a Riad. Un ruolo (involontario) che mette lo Yemen al centro di interessi regionali e internazionali legati anche alla massiccia presenza sul suo territorio di al Qaeda nella Penisola arabica (AQPA), presa di mira dai droni Usa. Nel Paese è in atto una sorta di resa dei conti tra sciiti e sunniti che mette in allarme Washington e le petromonarchie, preoccupati dell’influenza iraniana sul povero e agitato Paese della Penisola.

Nel 2011 la primavera yemenita - come accaduto in Bahrein - si è risolta con l’intervento del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), organismo dominato dai sauditi, che ha imposto alla piazza un patto di elité: Saleh ha ceduto la presidenza al suo vice Hadi in cambio dell’immunità e il governo di transizione è stato formato a metà da Islah e a metà dal partito dell’ex presidente, il General People’s Congress. Ma Islah, che ha accarezzato l’idea di arrivare ai vertici del potere, è ben presto caduto in disgrazia a Riad per i suoi legami con i Fratelli musulmani e, dopo avere svolto per anni un ruolo anti-Houthi al confine con l’Arabia Saudita, è stato inserito nella lista nera dalla monarchia wahabita. Il patto è dunque saltato e sono entrati in scena gli Houthi, capaci di mobilitare la popolazioni e di mettere in campo anche una certa forza militare.

Il 18 agosto sono iniziate le manifestazioni antigovernative degli Houthi a Sana’a, con la richiesta delle dimissioni dell’esecutivo, sfociate nell’occupazione della capitale e dello strategico porto di Hodeidah affacciato sul mar Rosso. Un nuovo premier e un’intesa per formare un nuovo governo non hanno però fermato le violenze.

In base all’accordo approvato da tutte le forze politiche, ogni partito deve indicare i nomi da inserire nel futuro esecutivo, ma venerdì gli Houthi hanno fatto sapere che rinunciano a entrare al governo. “Lasceremo le nostre poltrone a disposizione dei nostri fratelli del Sud”, ha detto il leader, Abdul Malik al-Houthi, senza che però nessun combattente sciita abbia lasciato Sana’a. L’intenzione sembra quella di controllare dall’esterno. A ottobre hanno posto il veto alla nomina alla guida del governo di Ahmed Bin Mubarak, ottenendo che fosse designato una figura a loro gradita, Khaled Bahah.

Secondo un’analisi di Middle East Eye, tanta generosità nasconderebbe il timore di trovarsi al potere in un momento difficile, con il rischio di fallire e perdere tutto il credito guadagnato con quella che il movimento sciita ha definito una “rivoluzione” contro un “governo corrotto”. Gli Houthi, infatti, sono in una posizione di forza ed entrare nella macchina amministrativa potrebbe persino risultare d’intralcio per il loro obiettivo: un ruolo nello Yemen post transizione.

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