Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

31/10/2014

Stefano Cucchi, non è successo niente

Non è successo niente, e se è successo qualcosa non è colpa di nessuno. Se qualcosa è successo tra l’arresto e la morte di Stefano Cucchi non ci sono prove. E per questa insufficienza di prove nessuno pagherà con un solo giorno di galera. La sentenza di appello sulla morte di Stefano Cucchi è, se possibile, persino peggiore della sentenza di primo grado. Tutti assolti, tutti non colpevoli. Se tra le mura della cella di piazzale Clodio, se nei corridoi delle caserme dei carabinieri dove il corpo esile dello “sporco pusher di Torpignattara” è transitato di milite in milite in maniera non proprio ortodossa, se sul letto del Pertini dove Stefano era detenuto in stato di inanizione i medici non se lo sono filato di striscio finché non è crepato, non lo sapremo mai, perché il giudice della Corte d’Appello di Roma così ha stabilito.

Niente prove, fine della storia. Sarà la cassazione forse a dirci se si dovrà tornare in appello, a replicare per l’ennesima volta la madre di tutte le farse processuali di malapolizia. Quel grande vaffa, quel dito medio del secondino imputato che svettava nell’aula del processo di primo grado, l’aula bunker di Rebibbia, ha stravinto e oggi ha avuto l’avallo di una corte che non ha evidentemente ritenuto di valutare come attendibili le tante prove e i tanti indizi che suggerivano una verità diversa dalle ripetute cadute per le scale e dalle lesioni ossee risalenti al 2006. Quel dito medio è un vaffanculo di stato.
Stefano è morto per motivi sconosciuti, è questa la nuova verità. La grande famiglia delle vittime di malapolizia, nella quale Ilaria Cucchi si è sempre contraddistinta per coraggio e determinazione, incassa forse la sconfitta più pesante, la più difficile da digerire. Ora sì, siamo tutti legittimati a pensare che c’è qualcosa di oscuro e indefinito che disorienta i processi per malapolizia verso l’insoluto. Qualcosa che puntualmente torna ed esercita una forza possente e coercitiva. Chiamiamolo come vogliamo: spirito di corpo, omertà istituzionale, connivenze tra apparati, cecità di stato. Non ha importanza. Ciò che conta è che qualsiasi cosa sia, nelle aule di tribunale dove si vivisezionano a suon di insulti le storie delle vittime e dei morti innocenti e si osannano religiosamente le divise dei vivi colpevoli, trova terreno fertile, piena legittimazione e spazza via la dignità di quelle famiglie che ostinate e ottuse cercano la verità.

Il messaggio è chiaro. Lucia, Claudia, Ilaria, Raimonda, Giuliana, tutte e tutti: non spendete più soldi in avvocati, non affollate le aule di tribunale, state alla larga da telecamere e giornalisti, rinunciate! Questa è una guerra persa, anche se le sporadiche battaglie vinte ci hanno fatto gridare alla vittoria. Fermatevi. Lo stato vi schiaffeggerà, vi offenderà ogni volta che potrà farlo, torturerà i vostri sonni e la vostra dignità. Per i vostri morti il codice penale si trasformerà in un libro di barzellette sconce. I vostri morti non contano niente, sono zero, meno di zero. Sono tossici, drogati, stalker, teppisti, barboni, matti, feccia della feccia di questa società, difesa strenuamente da valorosi uomini in divisa che “rischiano la vita per 1300 euro al mese”.

Non riuscite ancora a coglierlo il messaggio? In questo processo è ancora più chiaro che nei precedenti: più clamore mediatico fate, più articoli scrivete, più inchieste montate sulle colpe di stato e più legittimazione queste ultime avranno. Più coperture. Più sentenze favorevoli. Più vaffanculo e dita medie alzate al cielo, a gridare con la bava alla bocca, a tutti, che la divisa non si processa. È intoccabile. E se si processa può finire in un solo modo: tutti assolti. C’è violenza e violenza, ci sono botte e botte e il rito dell’Inviolabile Divisa oggi ha trovato il massimo livello di celebrazione.

Un morto di malapolizia ha sempre un muro di giustificazioni e prove, quelle escono puntualmente nero su bianco nei verbali, che scagionano, che creano alibi. Lo abbiamo capito tutti: i pugni nei denti diventano testate negli spigoli dei mobili; i lividi nel costato, improvvisi scivoloni sul pavimento delle caserme sempre assai incerato; le ossa rotte, si rompono per quelle maledette scale delle questure che nessuno si decide quantomeno a restaurare. Se muori in caserma, questo sarà il verbale della tua morte.
E comunque saranno tutti contenti, a partire dalle claque dei sindacati di categoria per finire con quel popolo dei social network col culto del fascista in divisa che commentando la notizia sul fatto che il Comune di Roma vuole intitolare una strada a Stefano Cucchi hanno dato il meglio di se con frasi sgrammaticate tipo “una volta le piazze le dedicavamo alle eroi ora ai delinquenti bravi continuiamo cosi”, “Paese di merda! si lo dico da servitore dello stato da quasi 30 anni, paese di merda!!!!”, “E li mortacci tua a te e a quella mercenaria de tu sorella che dalla tua morte se sta a fa li palazzi...”.

E ci fermiamo qui per rispetto e pudore.

Registriamo soltanto una delle tante barriere, di matrice soprattutto politica e culturale, che separa l’Italia in due. Due scuole di pensiero, due modi opposti di concepire la giustizia, le garanzie minime di dignità e salvaguardia dei diritti. Due mondi inconciliabili. La roccaforte delle impunità dovrà crollare. Il binomio sempre più solido tra cultura fascista e oltranzismo della violenza in divisa, dovrà essere spezzato una volta e per sempre.

L’onorabilità della divisa, come urlava il pm Abate nell’interrogatorio ad Alberto Biggiogero nel processo Uva, è un concetto ormai diradato. Di onorabile è rimasto ben poco. Resta la nudità della violenza, la vera anima della repressione di strada e di piazza. Restano divise sporche di sangue e, ancora una volta, le inutili lacrime di una madre, di una sorella, di un padre. Resta l’icona lontana di Stefano Cucchi e la sua smorfia di morte della quale a quanto pare, a certi giudici non importa poi granché.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento