È la questione sicurezza a tenere banco oggi in Tunisia, dove
domenica si aprono le urne per le parlamentari. Stamattina la polizia ha
ingaggiato uno scontro a fuoco con un gruppo di presunti terroristi
nella cittadina di Oued Ellil, a pochi chilometri dalla capitale Tunisi. Secondo l’Afp, alcuni agenti sono rimasti feriti e uno è morto. Un incidente simile è accaduto nella città meridionale di Kebili,
dove altri presunti terroristi sono stati arrestati dopo avere ucciso
una guardia di sicurezza. Il ministero dell’Interno ritiene che stessero
preparando un attacco nella zona. Intanto, a fine mese si apre il processo per terrorismo, il primo nel Paese dal 2011, che vede alla sbarra 600 imputati.
L’ombra dell’islamismo radicale si allunga su un voto per molti dalla
portata storica, che arriva quando sono trascorsi tre anni dalla
rivolta popolare che ha messo fine al ventennale regime dell’ex
presidente Ben Ali e che ha dato il via alle primavere arabe. Circa
5,2 milioni di tunisini sono chiamati alle urne per scegliere 217
deputati tra circa 13mila candidati all’Assemblea, mentre il 23 novembre
si terranno le prime elezioni dirette del presidente della repubblica.
In lizza ci sono 27 candidati.
Un’affollata galassia di sigle e di nomi, tra cui molti volti “ripuliti” del vecchio regime, ma i favoriti sembrano essere i candidati del partito islamico Ennahda, la cui ascesa al potere è coincisa con la fine di Ben Ali.
Per molti la sfida è tra laici e islamici, segno di una spaccatura che
si sta allargando nel Paese dal 2011, quando la fine del regime è
significata anche la fine di quella sorta di laicità imposta dall’alto
che si è spesso trasformata in persecuzione dei movimenti di stampo
islamico e persino dei simboli della religiosità. Diverse donne raccontano di quando la polizia strappava loro il velo.
Ennahda è sicuro di replicare il risultato delle legislative di tre
anni fa (37%), che lo portarono a dominare l’Assemblea nazionale (un
Parlamento transitorio). Una vittoria che però non gli ha garantito la
permanenza alla guida del Paese. Il suo mandato, infatti, è stato
bagnato dal sangue di due esponenti dell’opposizione uccisi da militanti
islamisti: Chokri Belaid (assassinato a febbraio del 2012) e Mohammed al-Brahmi
(25 luglio 2013). Due omicidi di cui è stato ritenuto moralmente
responsabile Ennahda, che hanno scatenato un ritorno delle proteste e la
fine del governo islamico con un accordo raggiunto grazie alla
mediazione del potente sindacato tunisino Ugtt, da cui è nato un governo tecnico di transizione, più gradito alle potenze occidentali.
La minaccia islamista, con il rischio di infiltrazioni jihadiste
dalla Libia e dall’Algeria, è un cavallo di battaglia elettorale del
fronte laico, in cui militano volti noti dell’ex regime. E la minaccia
si è concretizzata più volte negli ultimi tre anni, con attacchi contro
le forze di sicurezza, con decine di vittime. Lo scorso luglio 15
soldati sono stati uccisi da miliziani nelle zone più interne del Paese,
mentre gli arresti di presunti terroristi sono spesso seguiti da
proteste e scontri con la polizia. Sono oltre mille le persone
in carcere con accuse di terrorismo, secondo il ministero dell’Interno.
Ma dietro le sbarre sono finiti anche tanti giovani per reati contro
l’ordine pubblico durante le proteste contro l’ex presidente Ben Ali
(condannato all’ergastolo in contumacia).
La Tunisia è una Paese in crisi economica, con alti tassi di
disoccupazione, una consistente fuga di cervelli e manodopera, il cui
sviluppo è rallentato dalla corruzione e dal clientelismo negli apparati
amministrativi. C’è un grosso divario tra le città e le zone
rurali, dove le condizioni di vita restano precarie e le aspettative di
benessere e democrazia suscitate dalla cosiddetta Rivoluzione dei
Gelsomini sono state deluse più che altrove. E tanta delusione arriva
anche dall’impunità concessa agli uomini del vecchio regime e alle forze
di sicurezza che durante i giorni della rivolta spararono sulle folle.
È in questo clima che i tunisini andranno a votare, sperando in un
reale cambiamento sulla strada della democrazia. Ma sull’affluenza alle
urne pesa la frustrazione per quella che tanti ormai chiamano la
“rivoluzione tradita”.
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