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23/10/2014

Oltre la competizione: il cervello sociale


Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale. 

(Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 2, trad. it. Enzo Grillo, La Nuova Itala editrice, 1970, p. 403; oppure, in “Opere Complete”, Ed. Riuniti, Volume XXX, p. 92, terzo capoverso) 

Il passo può non risultare chiarissimo. Marx sta parlando dello sviluppo del capitale fisso, dei macchinari, e della loro importanza crescente nel modo di produzione capitalista. Qui fa la comparsa il famoso concetto di “general intellect”. Ne hanno parlato in molti, da chi voleva contrastare la caduta tendenziale del saggio di saliva nella propria bocca, a chi, pur in buona fede, ha considerato questo concetto solo dal punto di vista “interno” all’economia politica. 

Il concetto, invece, è molto più ampio. Tutto si riduce ad avere (o non avere) una visione sociale, comunista, della storia della specie umana. La rapida automazione della produzione obbliga Marx a sottolineare come il lato sociale, collettivo, della conoscenza umana sia sempre più evidente; ciò non vuol dire che (prima dello sviluppo della tecnologia industriale, prima dell’avvento della grande industria) tutto ciò non ci fosse già. Il cervello della specie è sempre stato... sociale”. 

E’ da quando qualcuno inventò, anzi, noi inventammo, la ruota che l’umanità fa “proprie”, nel senso di “socializza”, le conoscenze di alcuni, le scoperte di pochi. I freni alla socializzazione delle conoscenze, come delle arti, sono dovuti semplicemente alla divisione in classi. La scoperta di uno è la scoperta di tutti: se gli antichi greci potevano filosofare era grazie a chi cucinava per loro, senza quest’ultimi nessun singolo avrebbe potuto filosofare su qualcosa. Se i grandi scienziati, i grandi poeti, i “geni” del Rinascimento, i grandi della musica si sono potuti dedicare alle loro opere è perché potevano dedicarsi a tempo pieno a studiare, a scrivere, a scolpire, a comporre; era perché altri pensavano a portargli qualcosa in tavola. 

La domestica di Newton ha scoperto il rapporto tra forza massa e accelerazione tanto quanto Newton stesso: senza di essa il solo individuo, preso a raccogliere le mele per mangiare, anziché permettersi di farsene cascare una in testa, non avrebbe scoperto proprio niente. Considerare i risultati di questi “geni” risultati individuali vuol dire accettare ciecamente la divisione in classi e da essa dedurne una morale meritocratica squisitamente borghese. 

A tutto ciò si aggiunge il contesto culturale: se Mozart fosse nato tra gli aborigeni, probabilmente non avrebbe composto il Flauto Magico. Il cervello è sociale perché gli esseri umani non sono tutti eremiti ma costituiscono, per l’appunto, una specie: il cervello o è sociale o non è.

La divisione in classi, da che mondo è mondo, ha sempre creato barriere alla naturale socializzazione delle scoperte: mentre le prime  (ruota, fuoco ecc...) venivano naturalmente socializzate, senza ricorrere ad un tribunale per stabilire se il copyright della ruota era della Apple o della Samsung, con la divisione in classi la conoscenza diventò fruibile da pochi e si è velocemente creata l’ideologia individualista per la quale il singolo “genio” è l’unico ad aver prodotto una determinata opera. L’incessante sviluppo delle forze produttive, però, ha lentamente corroso queste barriere. Dopo la stampa, ad esempio, le idee iniziarono a circolare già più velocemente. Difficile stabilire chi sia lo scopritore della geometria cartesiana, dato che, 3 secoli prima della pubblicazione delle opere di Cartesio, appunti recanti due “assi” comparivano già negli studi di Oresme (cfr. Clagett, “La meccanica nel medioevo”). Difficile stabilire chi sia il padre della “scienza” moderna: Galileo? Cartesio che era a conoscenza delle opere del Pisano? Chi ha inventato l’analisi infinitesimale? Leibnitz o Newton? Di chi è il copyright? Di nessuno, perché, spinti dalla Storia, arrivarono alle stesse scoperte negli stessi anni. 

Cosa dice Marx di nuovo? Niente. Sottolinea come lo sviluppo del modo di produzione renda sempre più evidente il carattere sociale della conoscenza umana. La velocizzazione dei trasporti, delle comunicazioni – ciò che Marx chiama “l’annullamento dello spazio attraverso il tempo” – in una parola internet,  ha reso innegabile questo fenomeno. 

Non c’è contenuto che sfugga alla rete. Tutto è (potenzialmente) condivisibile. Internet ha reso immanente, contingente, ciò che fino ad ora era rimasto potenziale. Il “virtuale” sta rendendo reali le potenzialità del cervello sociale. Solo la divisione in classi riesce ancora ad impedire che tutti possano accedere alla rete.

In altri casi, invece, il mancato accesso alla rete rimanda a motivi ideologici, o psicologici. C’è chi si affretta a scagliarsi contro la tecnologia (chissà poi perché) adducendo argomenti falsi. Mumford, nel suo interessantissimo lavoro “Tecnica e cultura”, si lancia in una invettiva squisitamente ridicola contro il grammofono: “così quando fu inventato il grammofono la gente smise di imparare a suonare il violino, la chitarra ed il piano, nonostante la passiva audizione non potesse nemmeno lontanamente equivalere all’impegno dell’esecuzione”.

Probabilmente Mumford, nel 1934, non capiva che stava vivendo nel secolo in cui proprio l’ascolto ha incentivato giovani musicisti a intraprendere lo studio di uno strumento: i ragtime di Scott Joplin registrati sui Piano Rolls (i “midi” di fine ’800) hanno spinto fino ad oggi migliaia di pianisti a confrontarsi con le sue “Maple Leaf Rag”(https://www.youtube.com/ watch?v=hagYX1OJyDk) e “The Entertainer”; la prima registrazione di musica classica, eseguita dal pianista francese Alfred Cortot per la Victor Records ha fatto da apripista alla lunga serie di superlativi pianisti del ’900, le cui registrazioni sono ormai fruibili da chiunque possa accedere a youtube, registrazioni che guidano generazioni e generazioni di pianisti nella ricerca della propria interpretazione. Se Paul McCartney non avesse potuto imparare la chitarra ascoltando i vinili jazz e ragtime di suo padre, pianista negli stessi anni in cui Mumford svarionava, se John Lennon non avesse potuto imparare a memoria gli accordi delle canzoni napoletane (delle quali era un grande conoscitore) ascoltandole per ore e ore non avremmo avuto “Sgt. Pepper”, “White Album”, “Abbey Road” e gli altri capolavori immortali dei Beatles. Chissà che faccia farebbe oggi il buon Mumford se collegandosi a youtube, potesse vedere quante centinaia di migliaia di giovani di tutti il mondo suonano questi brani: su youtube ormai si inciampa più facilmente nei vari “tutorial” di certe canzoni che nella versione originale perché i tutorial hanno più visualizzazioni; contrariamente a quanto sosteneva Mumford sono più le persone che ascoltano dei brani per imparare a suonarli di quanti li ascoltino passivamente, e per ogni brano ci sono centinaia di utenti che grazie alla rete hanno uploadato il video in cui sono loro, in prima persona, a suonare. 

Un’altra ideologia diffusa proviene da chi critica la rete perché “dà tutto a tutti” e quindi “chissà dove si va a finire!”. Il lato ideologico, borghese, e individualista di queste critiche sta già nella premessa: non si tratta, infatti, di “dare”, come se si dovesse “avere” certi servizi per “diritto“, si tratta di riappropriarsi di ciò che è socialmente nostro come specie, ciò che tutti noi abbiamo contribuito a creare, a realizzare, a produrre. Un altro approccio curioso al tema tecnologico è quello di Ivan Illic, esponente del’ “anarchismo cristiano” (?): nella tecnologia egli vede la causa della perdita della “convivialità”. Ciò che egli non capisce è che il #disagio della nostra epoca non è dettato dalla tecnologia, ma dalla mancanza di prospettive praticabili per il futuro. L’alienazione telematica si insinua là dove manca il lavoro, là dove l’”amicizia” teorizzata da Illic è minata tanto da un erasmus, quanto da un trasferimento forzato da migliori condizioni lavorative: in questa disgregazione totale, un sorriso anche solo su skype, o una voce amica che fa squillare WhatsApp è l’unico – pur digitale appiglio per un’umanità che si perde nelle maglie del capitale. C’è poi tutta una parte di sinistrume che, probabilmente, schieratasi con la “buona” tecnologia sovietica, contro la “cattiva” tecnologia “americana”, ha forse perso qualche punto di riferimento e deve ancora scrollarsi dall’eschimo la polvere delle macerie del Muro di Berlino: crollato il finto mito dei “due blocchi” hanno rinunciato in toto alla tecnologia “imperialista” e hanno optato per chiedere ospitalità politica in qualche squat dove, al massimo, giocano ogni tanto a Snake con il loro fedele Nokia 3310. 

Queste sono solo alcune delle forme di cretinismo antitecnologico a causa delle quali c’è ancora chi impedisce a sé stesso di partecipare e collaborare allo scambio di contenuti: ci dispiace per loro, vorrà dire che dovremo imparare purtroppo a farne a meno, forse non perdiamo granché, al limite sarà una risata – in full hd – che li seppellirà. Un esempio della cooperazione tecnologica che ci offre internet è quello dei software open source. Lungi dai falsi miti sul fatto che sia “gratis” o non circoli denaro (la versione di Linux più in voga, Ubuntu, è ormai portata avanti con investimenti in denaro e i programmatori che la sviluppano sono stipendiati), la metodologia open source ci offre un esempio pratico di come i vari singoli si possano coordinare per contribuire alla produzione di un cervello sociale su vasta scala. 

Certo, nel mentre che guardiamo, al solito fiduciosi, alle potenzialità della nostra specie, non possiamo non cogliere i lati ancora negativi dello sviluppo della rete. Essa, nonostante sia una delle spinte più rivoluzionarie, a memoria di capitale, degli ultimi decenni, è ancora un prodotto di questa società: rispecchia i lati sempre più marci di questa si spera l’ultima – divisione in classi, porta a galla gli aspetti più perversi e macabri del #disagio dei nostri tempi, veicola gli ultimi scampoli di profitto sfuggiti alla caduta tendenziale, incurante dei tendini delle mani degli utilizzatori più giovani, incurante delle retine dei nostri occhi. Sicuramente la tecnologia che ci immaginiamo non sono gli inquinanti arnesi all-inclusive (smartphone e tablet a base di coltan, batterie inquinantissime che durano meno di un giorno, ecc...) che ci propinano oggi: forti della distinzione proposta da Mumford tra utensile, strumento, e macchinario, ci immaginiamo una tecnologia tale che l’uomo possa modellare secondo i suoi bisogni, e non subire a seconda di come fluttua il saggio di profitto. Una tecnologia della quale l’uomo possa nuovamente tornare a capirne almeno a grandi linee il funzionamento. Sogniamo la riappropriazione sociale della scienza, della tecnica, dell’arte e di tutti i saperi, l’abolizione di ogni forma di proprietà privata della conoscenza. Solo un contesto di questo tipo porterà a far riemergere i valori cari a Illic (e a chi scrive!): in una società nella quale non si dovrà scegliere la metropoli in cui vivere in base ad uno stage, a un corso di laurea o ad un contratto di lavoro non si avrà bisogno di parlarsi su Skype, ma potremo raggiungere la piazza in bici per parlare dal vivo dell’ultimo film visto in streaming, dell’ultimo libro letto (senza bisogno di crackarlo!) sul reader, o dell’ultimo album ascoltato per intero su youtube. 

Sta a noi, sta al cervello sociale, utilizzare questo potente strumento per quello che esso veramente rappresenta: la possibilità di coordinare simultaneamente grandi e piccole lotte locali per rilanciarle in tempo reale su scala internazionale, la possibilità di diffondere tutti quei contenuti fino ad ora inaccessibili, la possibilità di aggirare facilmente copyright, censure, e barriere di ogni tipo. Sta a noi, sta al cervello sociale, utilizzare la rete per trasformare la società in modo che la rete stessa possa diventare solo e semplicemente lo strumento per diffondere il meglio delle conoscenze che la nostra specie ha accumulato dal pollice opponibile in poi.

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