02/11/2014
Gerusalemme Est - Giovani tra Intifada e mancanza di leadership
di Michele Giorgio – IL MANIFESTO
I due shebab palestinesi sono nascosti dietro a un cassonetto dei rifiuti, all’angolo tra le vie Salah Edin e Sultan Suleiman, il cuore commerciale di Gerusalemme Est. Sono giovanissimi, avranno 16 anni. Hanno il volto scoperto, in segno di sfida. Gli agenti di polizia, con il pesante equipaggiamento antisommossa, sono lontani poche decine di metri. Presidiano Bab a Zahra con l’ordine per questo venerdì di preghiera molto teso di non lasciare entrare nella città vecchia i palestinesi maschi con meno di 50 anni. I due ragazzi stringono tra le mani una pietra. Con un scatto felino uno dei due la scaglia contro i poliziotti. Altrettanto, tre-quattro secondi dopo, fa il suo amico. Insieme scappano veloci nel vicolo di fronte. Quei sassi, fuori bersaglio, mettono in allerta i poliziotti ma i due ragazzi ormai sono lontani. Li rivediamo dopo qualche minuto, poco lontano. Li avviciniamo.
All’inizio si rifiutano di parlarci, sono sospettosi. Gerusalemme Est da giorni pullula di mistaravim, gli agenti che agiscono sotto copertura, «mascherati da palestinesi», per catturare i palestinesi che guidano manifestazioni di protesta. Poi uno di loro, che si presenta come Habib, accetta di rispondere alle nostre domande. «Vogliamo difendere (la moschea) di Al Aqsa, siamo pronti a una nuova Intifada, gli israeliani minacciano i nostri luoghi santi, ci provocano, dobbiamo reagire e non abbiamo paura di farlo», spiega Habib con il tono di un adulto. Da queste parti si cresce in fretta, l’infanzia è breve, troppo. Interviene il suo amico, che ci scruta con occhi nerissimi da sotto la felpa grigia con cappuccio, «Muataz Hijazi ha fatto cosa giusta contro chi minaccia le moschee, non possiamo rimanere a guardare ed aspettare», dice riferendosi al palestinese di 32 anni, indicato dagli israeliani come l’uomo che mercoledì sera ha ferito a colpi di pistola il rabbino ultranazionalista Yehuda Glick. La madre di Hijazi ha raccontato che il figlio è stato trascinato sulla terrazza di casa da poliziotti ed agenti dei servizi di sicurezza. E, ha aggiunto la donna, dopo averlo «torturato anche con un trapano», l’hanno ucciso. Le sue parole hanno accresciuto lo sdegno, la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, soprattutto di quelli più giovani. La zona araba della città si è trasformata in un campo di battaglia.
A Gerusalemme non si viveva una fase così carica di tensione dal 2000, quando la passeggiata di Ariel Sharon accese la miccia della Seconda Intifada. Habib allora aveva appena tre anni ma è come se li avesse vissuti da protagonista quei giorni di rabbia e ribellione contro Israele e contro l’Autorità nazionale palestinese, colpevole di aver fallito totalmente l’obiettivo dell’indipendenza. Ci dice che viene dal campo profughi di Shuaffat, parte del territorio comunale ma da qualche anno diviso da Gerusalemme dal muro costruito da Israele intorno alla città. Le autorità israeliane, è chiaro, intendono liberarsi di quel campo dove vivono ammassati profughi palestinesi delle guerre del 1948 e del 1967 e centinaia di famiglie povere che non possono permettersi di vivere in città. Si avvicinano altri due ragazzi, un po' più grandi di età. Riferiscono le prime notizie del «Giorno della Rabbia» – proclamato contro la colonizzazione israeliana da Fatah e altre organizzazioni palestinesi – che arrivano dalla Cisgiordania e da altre zone della Gerusalemme araba. Al posto di blocco di Qalandiya, verso Ramallah, almeno 8 palestinesi sono stati feriti dal fuoco dei soldati israeliani.
Habib e i suoi amici non hanno bisogno del «Giorno della Rabbia» per mobilitarsi, per loro è sempre il giorno della rabbia. «Funziona così – dice il ragazzo accendendosi una sigaretta – durante la notte soldati e poliziotti entrano nel campo, impongono il coprifuoco e cominciano a buttar giù le porte delle case di chi non apre subito. E arrestano chi vogliono senza dare spiegazioni. Ci siamo abituati». Tutti i giovani – prosegue – «entrano ed escono dal carcere, anche io sono stato in prigione, anche se solo per pochi giorni. Durante l’interrogatorio mi dicevano di confessare che sono di Hamas ma non l’ho fatto, perché non faccio parte di alcuna organizzazione. Io seguo solo la parola di Allah e lotto per al Quds (Gerusalemme) e la Palestina». Habib e gli altri ragazzi la scuola l’hanno finita presto: «Studiare non serve per lavare i pavimenti dei negozi degli ebrei e neppure, se mi andrà bene, per diventare taxista».
Anche Mahmoud ci chiede di non rivelare la sua identità. E’ un po' più grande degli altri ragazzi. Ha 24 anni e fa il meccanico a Wadi al Joz da quando ne aveva 15. Dice di aspettare qualcuno che si metta alla guida della nuova Intifada che, afferma convinto, è già scoppiata a Gerusalemme «ma non tutti i palestinesi non se ne sono accorti, gli israeliani invece sì». Ciò che manca ai nuovi rivoltosi, insiste Mahmoud, «è una vera leadership palestinese che parli anche a noi di Gerusalemme. Ora non c’è. Abbiamo solo Allah e grazie a lui non molliamo».
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