Senza fondo. La guerra del petrolio è cominciata ufficialmente da pochi giorni, quando l'Opec ha deciso di non ridurre la produzione quotidiana al di sotto dei 30 milioni di barili (circa un terzo del totale mondiale). Per un mercato che si basa su piccole differenze tra domanda e offerta - anche sul medio periodo - si tratta di una scelta che punta a lasciar cadere il prezzo.
E immediatamente i mercati hanno risposto: ieri il prezzo internazionale della qualità Wti - ex riferimento centrale, ora passato al Brent - è sceso molto sotto i 70 dollari al barile: per la precisione 65,99. Meno della metà rispetto al record storico dell'estate 2008 (quando toccò quota 147) e oltre il 30% in meno rispetto a luglio 2014. Anche il Brent è arrivato a sfiorare i 70 dollari.
Come detto in altri articoli nei giorni scorsi, la "forchetta" di prezzo tra i 60 e i 70 dollari è il limite del costo di produzione dello shale oil negli Stati Uniti; la soglia, insomma, che rende conveniente oppure no la tecnica del fracking. E proprio le discrete quantità per ora ricavate da questa tecnica devastante - oltre alla domanda più limitata, dovuta alla crisi economica globale - avevano mantenuto negli ultimi cinque anni il prezzo poco sopra i 100 dollari.
Se il prezzo, come prevedibile, scenderà ancora, per le compagnie impegnate nel settore shale sarà il fallimento. Gli investimenti necessari fatti per aprire questo tipo di "giacimenti" sono stati giganteschi, finanziati con l'emissione di titoli corporate (debiti privati, insomma) collocati sui mercati, soprattutto statunitensi. Il calo dei prezzi del greggio ha già provocato una svalutazione consistente dei loro titoli azionari, quotati a Wall Street. Si calcola che, fino a venerdì scorso, le 75 aziende agenti nello shale abbiano perso capitalizzazione borsistica per quasi 160 miliardi di dollari. Il crollo delle ultime ore dovrebbe essere ancora più consistente.
A questa tragedia - che come tutte le oscillazioni di borsa avrebbe potuto essere solo temporanea - va aggiunto il problema del rimborso dei prestiti ottenuti e il pagamento degli alti interessi promessi nel momento in cui lo shale oil e lo shale gas venivano descritti - anche dallo stesso Obama, incautamente - come l'Eldorado dei prossimi anni. Anche qui, si calcola che ci siano in circolazione almeno 211 miliardi di dollari di debiti ad alto tasso di interesse contratti dalle compagnie statunitensi nel settore idrocarburi; cifra che va sommata ai prestiti concessi a tasso normale...
Per far fronte a questo indebitamento francamente mostruoso, molte compagnie hanno deciso di vendere a più non posso. Non soltanto il prodotto estratto con la tecnica del fracking, ma anche "diritti di estrazione", pozzi, diritti di ricerca, ecc. Quasi una smobilitazione annunciata, una "fuga verso la liquidità" in cui si cerca il gonzo cui vendere qualcosa che non renderà mai il prezzo pagato. E che diventa sempre più difficile da vendere...
Queste vendite forsennate hanno a loro volta contribuito nei mesi scorsi a far scendere velocemente il prezzo del barile, tanto da sollevare l'ira funesta dei grandi produttori di petrolio riuniti nell'Opec (più la Russia, con i suoi oltre 10 milioni di barili al giorno), che hanno così deciso di accelerare il processo in corso: abbassare più velocemente il prezzo per eliminare dei concorrenti stupidi e dannosi per tutti, oltre che per se stessi. A 60 dollari quelli dello shale cominceranno a chiudere in rapidissima successione.
Tutto bene così? Non proprio. L'altissimo indebitamento e il grande peso assunto nella capitalizzazione di borsa aprono uno scenario fosco per l'andamento di Wall Street e della finanza globale, che sono fin qui vissute in una bolla di droga fornita dalle banche centrali (Federal Reserve in primo luogo). Se qualcuno pensava che l'economia reale fosse ormai soltanto un cascame novecentesco, sostituibile e sostituito dalla finanza, dovrà ora fare i conti con la vendetta del mondo "fisico". Quel diavolo di barile il cui prezzo - sia che schizzi verso l'alto, sia che precipiti agli inferi - determina comunque scossoni definitivi agli equilibri consolidati.
Con in più, questa volta, la messa in discussione del dollaro Usa come moneta di riferimento mondiale.
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