di Michele Giorgio – Il Manifesto
«Non c’è il taglio
della produzione del petrolio…l’Opec ha preso una buona decisione».
Sono state sufficienti queste poche parole pronunciate ieri
pomeriggio al termine del vertice Opec a Vienna dal ministro del
petrolio saudita, Ali Al-Naimi, per far crollare in
poche ore la quotazione del Brent e quella del Wti sotto i 70
dollari. In tarda serata la tendenza era sempre al ribasso, verso un
prezzo che il petrolio non toccava da oltre quattro anni. E mentre
gli automobilisti occidentali, apprendendo la notizia, si
rallegravano sognando un netto calo alla pompa del prezzo di benzina
e gasolio – sogno destinato a svanire ancora una volta a causa delle
tasse governative e delle speculazioni sul greggio messe in opera
dalle grandi compagnie petrolifere – i rappresentanti di Iran
e Venezuela, che avevano insistito per un taglio della produzione
volto a far risalire il prezzo del barile (e con esso le entrate di
valuta pregiata nelle loro casse) non hanno potuto far altro che
ammettere la sconfitta.
Di fronte al secco «no» dell’Arabia Saudita e delle altre
petromonarchie del Golfo, i 12 Paesi membri dell’Opec hanno
mantenuto a 30 milioni di barili al giorno il tetto della
produzione. Il ministro saudita non ha voluto contemplare il
taglio anche soltanto di un milione di barili così come gli esperti del
settore, o almeno quelli più ottimisti, avevano previsto. Motivo
ufficiale? Riyadh sostiene che senza garanzie da parte degli Stati
che non fanno parte del cartello di Vienna, i tagli della produzione
potrebbero essere immediatamente colmati da altri paesi,
vanificando così gli sforzi per far risalire il costo del barile
e facendo perdere ai membri dell’Opec sostanziose quote di mercato.
Una tesi non infondata ma anche gli interessi strategici e le
rivalità regionali hanno un peso in quella che è stata chiamata la
«guerra dei prezzi». A cominciare dal conflitto a distanza tra Arabia Saudita e Iran per finire ai «colpi» che Riyadh prova a dare a Russia
e Venezuela, alleati dell’Iran e del presidente siriano Bashar
Assad.
Il ministro degli esteri venezuelano Rafael Ramirez
perciò ha lasciato la riunione visibilmente contrariato. Il
rappresentante di Tehran invece ha ostentato tranquillità. «Non
è la decisione che voleva l’Iran ma non siamo arrabbiati», ha
commentato il ministro del petrolio Bijan Zanganeh. E invece
a Tehran l’esito del vertice dell’Opec ha fatto stringere i pugni
dalla rabbia a parecchi dirigenti della Repubblica islamica.
Con il prezzo del petrolio in continuo calo e i pesanti riflessi
delle sanzioni economiche internazionali che subisce da anni,
l’Iran dovrà fare bene i conti nelle sue casse sempre più vuote.
Allo stesso tempo a Tehran non tutti guardano con sfavore al
mancato taglio della produzione Opec e condividono la stessa paura
dei sauditi di perdere quote di mercato di fronte alla crescita di
quella statunitense, ai massimi in questi ultimi anni, destinata
però a rimanere fuori mercato se i livelli di prezzo diventeranno
insostenibili. L’obiettivo sarebbe quello di costringere gli
americani a frenare la produzione fondata sullo Shale Oil, ossia
il petrolio che si ricava con la trivellazione che frantuma
le rocce.
Secondo i dati degli esperti internazionali presto
l’America del Nord sarà in grado di produrre almeno 4 milioni di barili
al giorno di Shale Oil e di petrolio estratto dalle sabbie
bituminose del Canada. Gli Stati Uniti, principali
consumatori di energia del mondo, producono oggi 8,5 milioni di
barili al giorno e grazie anche alla quota di Shale Oil le
importazioni nette sono scese a 5,2 milioni. Tuttavia lo
Shale Oil non è più competitivo sotto gli 80 dollari al barile (tra
60 e 70 secondo altri calcoli) e con prezzi bassi molti produttori
rischierebbero la bancarotta essendosi indebitati per gli
investimenti già fatti e per portare avanti per le ricerche.
Questa prospettiva dovrebbe indurre i produttori di questo tipo
di petrolio a frenare e il mercato mondiale, pensano a Riyadh e con
meno ottimismo a Tehran, potrebbe nel giro di un anno o due
stabilizzarsi su un costo del barile ben più alto di quello attuale.
Il futuro immediato però parla di un eccesso di offerta di fronte ad
una domanda di petrolio calata sensibilmente a causa soprattutto
della crisi economica che colpisce in particolare le economie
occidentali. I danni per Tehran – che dal petrolio ricava il
60% delle sue entrate - si annunciano pesanti mentre i ricchi
regnanti sauditi hanno riserve di valuta per andare avanti 2–3 anni
senza grandi problemi. A soffrire per il calo del
prezzo del barile è anche l’Iraq devastato dalla guerra interna e che
vede i suoi giacimenti minacciati dai jihadisti dello Stato
Islamico (che vendono il greggio iracheno e siriano sul mercato
nero ricavando almeno 2 milioni di dollari al giorno). Senza dimenticare le tensioni legate ai giacimenti petroliferi tra il governo centrale a Baghdad e i dirigenti curdi.
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