M. Widmann, Süddeutsche Zeitung, Germania Foto di Oliver Tjaden, traduzione a cura di Internazionale
Un tempo si pensava che la
vita dei marinai fosse piena di avventure. In realtà è un lavoro duro
che a volte si basa su gravi forme di sfruttamento. Ecco cosa succede
nel porto di Amburgo.
Chi ha viaggiato per
mare qui si sente subito a casa, perché questo posto ricorda il ventre
di una nave: dal soffitto arriva una debole luce al neon e nei corridoi
ci sono corrimano di ferro fissati alle pareti. Il pavimento, però, non
oscilla. Nel seminterrato dell’ospedale Groß-Sand di Wilhelmsburg, ad
Amburgo, sono le vite umane che rischiano di andare a fondo.
Nella sala d’attesa c’è
un marinaio che chiameremo John. La parete è coperta di vetrinette con
orsacchiotti di peluche vestiti da marinaio. John non li guarda
neanche, è troppo occupato a digitare messaggi al cellulare. Sta
parlando con casa sua, dall’altra parte del mondo, dove tutti sperano la
stessa cosa che spera lui: che Doc lo lasci tornare a bordo della sua
nave. “L’unica cosa che possiamo fare è pregare”, dice John, che è
cattolico come quasi tutti i filippini.
John è sbarcato da
poche ore. È piccolo di statura, e la barba un po’ lunga e rada lo fa
sembrare un ragazzo. È arrivato dall’Asia a bordo di una nave cargo in
grado di trasportare più di diecimila container. Una montagna di casse
d’acciaio che fanno arrivare in occidente tutto quello di cui l’europeo
moderno crede di aver bisogno: iPad, giocattoli di plastica, scarpe da
ginnastica, camicie maschili che per pochi centesimi fanno il giro del
mondo. L’uomo moderno resterebbe nudo senza le merci contenute nelle
gigantesche navi portacontainer e senza persone come John, che le
mettono in movimento facendo girare gli ingranaggi del commercio
mondiale.
A bordo John ha il
compito di sorvegliare il carico e di pulire la nave con la pompa
d’acqua a pressione. Tempo fa gli si è conficcata una scheggia
nell’occhio: ci è mancato un pelo che finisse tutto. Ogni giorno John
raschia via la ruggine e poi vernicia, raschia e vernicia: per evitare
che il salmastro corroda la nave, bisogna ridipingerla due volte
all’anno. John è un Ab, cioè able seaman, un marinaio scelto. Oggi i
marinai si chiamano così: lui corre da una parte all’altra del ponte
per dieci ore al giorno, dal lunedì al venerdì, e per otto il sabato e
la domenica. Ma questa volta ha corso troppo in fretta: il gradino era
bagnato ed è scivolato battendo il ginocchio. Ora gli fa un male del
diavolo, più della solitudine. John può solo pregare che Doc faccia la
cosa giusta.
Un cartello rosso lo
conduce da Jan Gerd Hagelstein: sopra c’è scritto Arzt/ Doctor/Médico,
ma nel porto di Amburgo lo chiamano tutti Doc. È il medico della gente
di mare, quello dell’ambulatorio dei marinai. Hagelstein sa bene cosa
si aspettano da lui quelli che fanno questa professione, un lavoro che
definisce “assolutamente brutale”. Doc è stato ufficiale medico e con
la marina tedesca è arrivato fino in Somalia. Ha la barba grigia, come
potrebbe averla un comandante, e dentro si porta un peso: “A bordo delle
navi”, mi dice, “si vedono cose che non lasciano indifferenti”.
I marinai che vanno da
lui hanno spesso un’aria esausta, sono pallidi, dimostrano molti più
anni di quelli che hanno. Alcuni piangono per la nostalgia di casa, ma
per quella non ci sono medicine. Quasi tutti, dice Doc Hagelstein,
arrivano “quando stanno già malissimo, ma devono continuare a
lavorare”. Si presentano dal medico, ma chiedono subito di tornare a
bordo.
John corre da una parte all’altra del ponte per dieci ore al giorno in piedi alla meglio, gli bruciano addirittura le mani. “Almeno
il 70 per cento vorrebbe tenersi i suoi disturbi e continuare a
lavorare anche se, dal punto di vista sanitario, farebbe bene a
licenziarsi”. Certi giorni Doc si chiede se non è solo una rotella
dell’ingranaggio. Una rotella che manda avanti qualcosa che non va.
Le tracce del mito
I turisti hanno in mente
un’immagine molto diversa quando invadono Amburgo a frotte per visitare
il porto. Passeggiano lungo l’imbarcadero, comprano berretti da
capitano e panini ripieni di pesce, ascoltano i suonatori di fisarmonica
che strimpellano vecchie canzoni di Hans Albers, piene della nostalgia
da cui è attanagliato chi va per mare. Vanno a zonzo per la Reeperbahn,
la celebre via del quartiere a luci rosse, e si fanno mostrare dalle
guide i luoghi dove un tempo si azzuffavano i marinai. È per questo che
molti vengono ad Amburgo: per inseguire le tracce del mito di quegli
uomini, che arrivati in porto dopo mesi passati in mare a lottare contro
la natura, sperperavano la paga in rum e ragazze, prendendosi qualche
malattia venerea.
È probabile che le cose
andassero proprio così, in quel lontano passato in cui gli scaricatori
di porto svuotavano ancora le stive a braccia e le navi restavano
ormeggiate alle banchine per settimane intere. Oggi invece il
carico è stipato dentro i container e uno non lo vede più, non ne
sente più l’odore. Il container è subito issato da gru enormi e
scaricato in tempi brevissimi. I giganti del mare riprendono il largo
dopo dodici, diciotto ore al massimo: il ruolino di marcia li spinge di
nuovo verso l’Asia. “Ogni ritardo costa molto, molto caro”,
mi spiega Arnold Lipinski, responsabile del personale marittimo per
conto degli armatori amburghesi Hapag-Lloyd. Lipinski avverte subito i
suoi apprendisti marinai: “Se volete navigare per vedere il mondo, avete
sbagliato posto. Conoscere altre civiltà? Quel tempo è finito”. E le
malattie veneree? A Doc Hagelstein non capita più di curarne: “Le cose
sono cambiate radicalmente”, dice.
John sbarca ad Amburgo
ogni tre mesi. Quante volte è stato a passeggio sulla Reeperbahn? Il
conto è presto fatto: “Never”, mi risponde, “no time”. E subito
aggiunge: “Doesn’t matter”. John non va certo per mare perché è
attratto dai mondi lontani, né perché è in cerca di una vita
avventurosa e di una donna in ogni porto. A casa, nelle Filippine, ha
una moglie e due figli piccoli. No, lui va per mare perché non ha alternative: “No choice”.
Insieme alla sua famiglia ha fatto un patto con il diavolo, come se ne
fanno a migliaia nel suo paese, dove per persone come lui non ci sono
posti di lavoro e l’unica via d’uscita è imbarcarsi e solcare i mari.
John è cresciuto in una
capanna e avrebbe potuto diventare commerciante, magari vendendo frutta
esotica per strada per un pugno di dollari al giorno. Ma il suo vicino
aveva una casa lussuosa e faceva il marinaio. E così la sua famiglia ha
unito le forze, la madre gli ha dato i suoi risparmi e John si è
iscritto all’istituto nautico. Per tre anni ha pagato 800 dollari a
semestre e al termine degli studi si è presentato a una delle molte
agenzie di Manila che rimediano equipaggi. John ha firmato. Il
suo primo imbarco è durato undici mesi, durante i quali è nato il suo
secondo figlio. Quando John è tornato a casa voleva prenderlo in
braccio, ma il bambino si è messo a piangere: di quell’estraneo non ne
voleva sapere. “Sacrifice”, dice John. Lui si sacrifica perché la sua
famiglia abbia una vita decente. Ha già comprato una casa a rate e i figli frequentano una scuola privata, così avranno qualche opportunità nella vita. O
almeno l’avranno finché il padre è in salute e lavora, intascando lo
stipendio mensile: la paga base di 600 dollari più 800 dollari per 120
ore di straordinario. Quando si ammala, un marinaio prende solo la paga
base. E dopo qualche settimana neanche più quella. All’armatore un marinaio tedesco costa almeno tre volte di più, quindi costa troppo.
Ecco perché non si vedono quasi più marinai tedeschi (in passato
erano 70mila, mentre oggi sono appena settemila). Sulle navi lavorano
quasi 70mila filippini, la metà di tutti i marinai in attività: senza di loro il mondo, così come lo conosciamo, si fermerebbe.
Le dimensioni delle navi
sono aumentate, e con loro quelle dei porti. Guardandoli si ha
l’impressione che sulla Terra abbiano preso il potere le macchine. Solo
gli uomini sono rimasti uguali. John è alto poco meno di un metro e 70,
ma a bordo ha l’impressione di rimpicciolirsi ancora un po’: la nave è
lunga quasi 400 metri, ma ospita appena 26 persone, che nel corso della
giornata s’incontrano due volte: alla pausa caffè (venti minuti) e a
pranzo (un’ora).
Il luogo dove i marinai
riprendono le loro normali dimensioni è il porto di Amburgo, tra il
frastuono dei treni merci e dei camion. Gli uomini salgono volentieri
sull’autobus che li porta al Duckdalben, una missione religiosa che si
dedica alla gente di mare. Appena arrivano, si affrettano a sedersi
davanti ai computer per parlare con i familiari su Skype, e già dopo
qualche minuto gli altoparlanti diffondono il pianto di bambini piccoli.
In quell’istante i marinai cambiano faccia, mi spiega Maike Puchert,
che li assiste in qualità di diacona: “Finalmente sono rilassati, come
se si fossero tolti un peso di dosso”. Per giunta al circolo Duckdalben
il pavimento smette per un po’ di oscillare sotto i loro piedi e possono
finalmente farsi una partita a biliardo. In media gli uomini si
trattengono qui un’ora e mezza,
poi devono tornare a bordo. Alcuni trovano il tempo di spedire qualche
centinaio di dollari alle mogli, nelle Filippine, per pagare un parto
cesareo. Altri mandano una cartolina con la foto della Reeperbahn
abbellita da una donna a seno nudo e dietro ci scrivono “Ti amo”.
Duckdalben è Amburgo così come la conoscono i marinai, sempre che
abbiano il tempo di scendere a terra.
Ma se sono costretti a
restare a bordo, Maike Puchert va a trovarli e gli porta qualche
tessera telefonica. A volte, durante quelle visite, i marinai le
consegnano qualcosa. Spesso si tratta di bigliettini con su scritto
“Abbiamo una sola tuta da lavoro e non riusciamo mai a lavarla”. Oppure
“Abbiamo quasi finito le provviste: a bordo ci resta solo un sacco di
riso, ma il capitano non ne ordina altri”.
In quei momenti
la diacona Puchert ha davvero la sensazione che i marinai lavorino per
dei trafficanti di schiavi. Molte delle persone che si occupano della
gente di mare, qui ad Amburgo, prima o poi usano l’espressione
schiavitù moderna. Molti menzionano gli armatori
greci, che hanno la fama peggiore. Ma ci sono anche i tedeschi, i tedeschi
di Amburgo, che soprattutto con la crisi dei trasporti marittimi ora
risparmiano sull’unica voce su cui possono farlo, cioè sull’equipaggio. Alcuni
non pagano l’ultimo stipendio ai loro uomini, rischiando un processo.
Altri li costringono a firmare una dichiarazione in cui attestano di
aver riscosso la paga e poi gli versano un importo molto inferiore.
Quasi tutti tollerano che le loro imbarcazioni battano bandiere che
fanno risparmiare, come quella della Liberia, di Antigua o di Barbuda,
dove gli equipaggi costano meno e lavorano più ore di quelli tedeschi.
Attualmente la proporzione tra queste e la bandiera tedesca è di 2.811 a
375.
Richiesta d'aiuto
Se c’é un problema, i marinai telefonano al porto e
si fanno passare Ulf Christiansen, un uomo dall’aria talmente tranquilla
che viene da chiedersi come può aver voglia di litigare con armatori e
comandanti senza scrupoli. Chi lo sottovaluta, però, sbaglia. Da
giovane anche Christiansen è andato per mare. L’ha fatto negli anni
settanta e ottanta, un’epoca in cui navigare era ancora bello. In India,
quando la sua nave rimase in porto per tre settimane, Christiansen ingaggiò un motociclista e con lui attraversò la giungla. “Fantastico”,
dice. Ma la voglia di andare per mare gli è passata da un pezzo: ne ha
viste troppe quando era ispettore dell’International transport workers’
federation (Itf ), il sindacato dei trasportatori che tutela anche i
marinai.
Questa mattina gli è
arrivata per email una richiesta d’aiuto. Proveniva da una di quelle
piccole navi portacontainer che prelevano nel porto di Amburgo il carico
delle navi giganti e lo distribuiscono al di là del mar Baltico, in
Scandinavia o in Russia. Un marinaio filippino gli scriveva: “The
chiefmate has no mercy for us”, il primo ufficiale è spietato con noi.
Lui e i suoi compagni dovevano ripulire la nave dalla ruggine di
continuo, mentre sopra le loro teste venivano caricati i container. In
porto cambiavano ormeggio anche sette volte in due giorni, e perfino in
piena notte, per stivare il carico. “Stress”, gli ha scritto il
marinaio. Ma il termine scientifico che indica l’esaurimento della gente
di mare è "fatigue". Quasi non riescono a dormire, e se prendono
sonno non riposano davvero, per via del rumore, delle vibrazioni e del
movimento incessante della nave. Dopo aver passato anche solo pochi mesi
a bordo, le loro energie toccano il fondo, e la cosa può risultare
mortale. “L’80 per cento degli incidenti a bordo è frutto di errore
umano”, mi dice Marcus Oldenburg, un ricercatore dell’Istituto
centrale di medicina del lavoro e marittima di Amburgo. Secondo
Oldenburg, in quegli incidenti non sono le persone che fanno errori. È
un fallimento di tutto il sistema che le sovraccarica.
Ulf Christiansen si
mette un elmetto bianco e percorre a lunghe falcate la passerella
molleggiata, diretto verso la murata buia. Vuole ispezionare la nave.
Durante il sopralluogo nessuno deve rivolgergli la parola, ma molti lo
fanno lo stesso, perché in porto Christiansen è un personaggio
potente. Va dove i marinai vengono “davvero presi per il culo” e parla
con i portuali, con cui cerca sempre di avere ottimi rapporti. E quelli
magari rinviano le operazioni di scarico. A quel punto, mi spiega
Christiansen, molti armatori si mostrano improvvisamente disponibili a
scendere a compromessi. Come ad aprile, quando un marinaio filippino ha
ricevuto in un attimo 3.800 dollari di arretrati.
Il primo ufficiale, un
giovane bielorusso, lo accoglie con i sandali ai piedi. Christiansen
gli dice che desidera parlare agli able seamen presenti a bordo. Nessun
problema: gli uomini sono convocati via radio. Si presentano quattro
filippini, sorridendo timidamente. Il rumore dell’impianto di aerazione e
il fracasso dei container impedisce quasi di sentirli. Gli uomini
indossano tute rosse incrostate di vernice secca, uno somiglia a
un’opera d’arte moderna. Il primo dei tre dice che queste ultime notti
ha dormito “dalle due alle tre ore” per volta. “Siamo sotto pressione”,
spiega il secondo. Il terzo esclama in tono implorante: “Non vogliamo
che ci facciano un rapporto negativo, ci rovinerebbe la carriera”. Temono
di finire sulle liste nere delle agenzie di reclutamento e corre voce
che se ti capita nessuno t’ingaggi più. Ma dev’essere successo qualcosa
di grave perché un marinaio di questa nave chiedesse aiuto via email.
Christiansen entra in un
locale illuminato al neon e chiede al capitano di stampargli l’elenco
dell’equipaggio. Sulla nave lavorano uomini di otto nazionalità: gli
ufficiali vengono dall’Europa orientale, i marinai sono quasi tutti
asiatici. È una combinazione non facile: quelli dell’Europa dell’est
hanno un modo di fare ruvido e diretto, mentre gli asiatici sono
riservati e per gentilezza non dicono mai di no. Christiansen parla a
bassa voce con il capitano. Non minaccia, semplicemente gli fa capire
che tiene d’occhio la sua nave.
Nel ventre dell’ospedale
di Wilhelmsburg Doc Hagelstein entra finalmente nella sala d’attesa. In
mano tiene un unguento per le contusioni e una confezione di
antidolorifici. Mette tutto sul tavolo davanti a John e gli dice di
prendere una compressa solo quando sente dolore: “No pain, no tablets”.
Poi gli consegna una relazione scritta in inglese, nel caso in cui nel
prossimo porto debba andare dal medico. Sul foglio c’è scritto:
sospetto danno al menisco. John riceve anche una fasciatura e il
consiglio di piegare il ginocchio il meno possibile. Quindi Hagelstein
lo congeda dicendogli che l’autista verrà a prenderlo tra poco. John ha
l’aria sollevata, sembra quasi contento di poter tornare a bordo. Sa
che raggiungerà la sua nave, tra poche ore salperà e da quel momento
tornerà a raschiare via la ruggine e a verniciare, raschiare e
verniciare, giorno dopo giorno. A sera, quando la solitudine lo
tormenta, John va nella palestra di bordo a fare sollevamento pesi.
Lavora con i manubri fino a quando non ne può più. Solo allora piomba
in un sonno che narcotizza ogni dolore.
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