Sapevo perfettamente che il mio pezzo sulla crisi dell’Università
avrebbe suscitato molti malumori e perplessità: c’è chi mi contesta i
dati sulla produttività scientifica, chi si lamenta che non ci sia la
parola “precari”, chi si allarma per la frase “università pubblica non
vuol dire per forza statale” e pensa che sia la solita manfrina
neoliberista a favore dell’università privata, mostrando di non aver
capito bene (parlo di “pubblica” non “privata”), ma ogni cosa a suo
tempo, risponderò ad ogni singola contestazione. Per ora vorrei
proseguire il ragionamento, restringendo il discorso al caso italiano.
Come è noto, il dibattito si è attestato
sul tema: pubblico-privato, come se non ci fossero altre alternative o
ibridazioni. Vogliamo verificare se le cose stanno così?
In primo luogo, le università private
non sono tutte la stessa cosa e ci sono varianti diverse, anche se si
può essere comunque contrari a ciascuna di queste varianti, ma vale
comunque la pena di capire che una università on line, una università
come la Luiss o la Bocconi ed una università cattolica come quella di
Milano o Roma, o come la Lateranense, la Gregoriana o il Pontificio
Ateneo Salesiano sono cose molto diverse fra loro, assolvono a fini
diversi, hanno metodi diversi ed anche funzione sociale diversa.
Se le università on line sono spesso
diplomifici a pagamento, la stessa cosa non si può dire nè di quelle
imprenditoriali (Bocconi o Luiss) né di quelle religiose che, peraltro,
si differenziano fra loro. Qui non è il caso di entrare nel merito, mi
basta solo indicare le diversità. Ed ancora diverso sarebbe il caso
delle Università aziendali, finalizzate a produrre tecnici ed ingegneri
da impiegare nella stessa impresa.
Personalmente sono abbastanza contrario a
tutte queste forme, anche se con gradazioni e per motivi diversi, ma
questo non è importante, quello che mi preme è dimostrare come il modo
di ragionare tradizionale in bianco e nero (pubblico contro privato) non
funziona più molto, anche perché dobbiamo iniziare a misurarci con
fenomeni ibridi non inquadrabili in nessuna delle due categorie: ad
esempio se gli ordini professionali (che sono enti pubblici,
giuridicamente dipendenti dal Ministero di Grazia e Giustizia) si
dessero propri corsi di laurea, magari in accordo con qualche università
pubblica o privata già esistente, come dovremmo giudicare questi corsi:
pubblici o privati?
Se, come già si dice, alcune università
straniere, magari statali, aprissero sedi decentrate in Italia
applicando il modello 60-30-10 (60% delle ore on line, 30% nella sede
italiana e 10% nella sede madre) come dovremmo considerarle? E se ad
aprire qualche particolare facoltà fosse un consorzio di enti locali o
un sindacato o un’ associazione di cooperative come dovremmo
catalogarle? Va da sé che saremmo di fronte a forme nuove, probabilmente
ibride, comunque non inquadrabili nelle categorie classiche di pubblico
e di privato.
Ma, soprattutto, le università statali
saranno sempre la stessa cosa, al di là del nome? In primo luogo, diamo
per scontato che i tagli operati dallo Stato in questi anni non saranno
restituiti e, credibilmente, ce ne saranno altri. Sin qui l’università
ha retto i tagli aumentando le tasse degli studenti, alienando parte del
patrimonio immobiliare e rimpiazzando solo in piccola parte quanti
andavano in pensione tanto fra i docenti, quanto fra i tecnico
amministrativi. Ora il governo incoraggia ulteriormente l’esodo dei
pensionandi “per svecchiare” l’Università, ma di risorse per reclutare
nuovi assunti non se ne vedono. Anche perché, quanti vengono posti in
quiescenza non è che muoiano (per lo meno non subito) e, se non gravano
più sui bilanci dell’Università, pesano pur sempre su quelli statali.
Per cui facilmente ci saranno altri tagli alle contribuzioni statali
all’università, motivati dall’ulteriore carico pensionistico. Peraltro,
le Università dovranno trovare i soldi per il Tfr di quelli che vanno
via e non sarà semplice perché gli accantonamenti realmente disponibili
sono minimi e di banche disposte ad esporsi ancor di più con gli
indebitatissimi atenei non sembra ce ne siano tantissime. Aumentare
ancora le tasse degli studenti? Forse, ma si tratterà di raschiare il
barile, perché il pericolo è che ad ogni aumento una fetta di studenti
decidano o di iscriversi altrove o di non iscriversi affatto, data
anche la scarsità di risultati professionali.
L’unica via di uscita sarà quella di
coinvolgere i privati (imprese, banche, società finanziarie ecc.), in
una prima fase attraverso la norma che consente ai rettori di nominare
esterni all’università nel consiglio di amministrazione; in una seconda
fase, ci saranno compartecipazioni a progetti finalizzati, forme miste
di impresa (per esempio per master, centri speciali di ricerca,
sponsorizzazioni di cattedre o interi corsi di laurea ecc.) che
assorbiranno quote crescenti del personale e degli stessi immobili
dell’Università. I vuoti di chi sarà andato in pensione saranno sempre
più colmati da personale precarissimo e sotto pagato, mentre l’organico
della docenza sarà ristretto ad un piccolo nucleo di docenti, scelti dai
consigli di amministrazione ed, essendo gli unici titolati ad eleggere
gli organi e lo stesso rettore, saranno scelti esattamente in funzione
della perpetuazione dei rapporti di potere stabiliti.
Questo per le università più importanti
ed interessanti economicamente, mentre le altre, soprattutto quelle più
piccole e decentrare, semplicemente saranno indotte al default e tolte
di mezzo.
Quando l’Università “statale” sarà
diventata questo, qualcuno se la sentirà ancora di parlare di università
pubblica? Perché non iniziamo a parlarne da ora?
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