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24/11/2014

Ttip, Damon Silvers: Incentiva il modello Fca

Damon Silvers, direttore politico dell'Afl-Cio.
L'intesa di libero scambio potrebbe spingere gli europei a delocalizzare in America. Dove i costi sono più bassi. Il capo dei sindacati Usa a Lettera43.

Mira a creare la più grande area di libero scambio del mondo. Promette di portare benefici per tutti: aumento dell’occupazione, degli investimenti, sviluppo.
Il Ttip, l'accordo di partenariato transatlantico tra Usa e Ue, è uno dei temi più caldi della legislatura europea, ma i negoziati tra Washington e Bruxelles hanno messo in luce numerosi punti di disaccordo, al centro del dibattito anche del Consiglio Affari esteri del 21 novembre dedicato al commercio.

TTIP, I SOCIALISTI FRENANO SULL'ACCORDO. Gli europarlamentari, a cui spetta il compito di monitorare le trattative tra la Commissione e gli Stati Uniti e votare l'accordo, hanno già iniziato a dare segnali di insofferenza.
Nel mirino, in particolare, la clausola Isds (ovvero la risoluzione delle controversie tra Stato e investitori che prevede la possibilità per questi ultimi di ricorrere a collegi arbitrali terzi in caso di violazione delle norme di diritto internazionale): «Deve essere lasciata fuori dal Ttip», ha avvertito l'eurodeputato socialista tedesco Bernd Lange, presidente della commissione per l'Industria, la ricerca e l'energia. «Gli americani e l'esecutivo europeo devono tenere in considerazione le nostre opinioni, perché senza i socialisti il parlamento non avrà il via libera su questo accordo».

SILVERS: «L'UE RISCHIA UN AUMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE». Per fare luce sul Ttip, il gruppo S&D ha invitato a Bruxelles Damon Silvers, avvocato e direttore politico dell'Afl-Cio, la più grande Confederazione sindacale degli Usa (formata da 57 sindacati nazionali e internazionali, rappresenta 13 milioni di lavoratori, ndr), il quale ha illustrato le possibili conseguenze di un accordo siglato nei termini sbagliati.
«L'obiettivo del Ttip è delocalizzare le produzioni dei brand europei negli Usa dove la manodopera costa meno, e poi rivendere i prodotti in Ue», spiega Silvers a Lettera43.it. «Un po' come sta succedendo con la Fiat-Chysler. Ma se noi vi rubiamo il lavoro perché offriamo alle aziende salari più bassi, voi che cosa fate? I disoccupati. Che non comprano più nulla perché non hanno soldi». E così, avverte, «non sarebbe solo la vostra economia a soffrire, ma quella mondiale». Il Ttip, ricorda, «potrebbe invece riguardare l'integrazione di due diverse società basandosi su un modello che punta a rafforzare le norme sociali».


DOMANDA. Usa e Ue presentano il Ttip come un accordo vantaggioso per tutti. Lei sembra pensarla diversamente.
RISPOSTA
. Sinora la volontà di inserire nell'accordo l'Isds, l'intento annunciato di limitare il potere degli enti europei per regolare la privacy e la sicurezza alimentare a favore del business statunitense, e le pressioni del mondo finanziario per annullare le riforme finanziarie negli Usa, sembrano un chiaro esempio che i veri interlocutori del Ttip non sono i governi.
 
D. E chi?
R.
Gli interessi economici da un lato e la società civile dall'altro. Il governo degli Stati Uniti e l'Ue non sono le squadre che stanno giocando questa partita, ma il campo di gioco.
 
D. Qual è la prima regola che deve essere messa in campo?
R.
Il riconoscimento delle norme fondamentali del lavoro dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), tra cui il diritto di sciopero. Ricordo che oggi gli Stati Uniti non sono firmatari di tali norme internazionali di base. E per quanto queste siano sottoscritte dai membri dell'Ue, in pratica sono già messe sotto attacco dalla Troika in gran parte dell'Europa del Sud.
 
D. Quindi il rischio è di perdere quello che di buono ha ancora l'Ue?
R. Dico semplicemente che quando voi parlate degli Stati Uniti in relazione al Ttip dovete tener conto che vi dovrete interfacciare con tre diverse politiche economiche e sociali.
 
D. Quali?
R.
Una basata su una politica di salari elevati, nel Nord degli Usa e sulla West coast, e due con salari bassi con gravi divisioni sociali e una tradizione di politica autoritaria a livello locale, nel Sud e Sud-Ovest. Gli Stati Uniti sono una democrazia a livello internazionale, ma non lo sono nel vero senso della parola in molte aree locali, dove c'è ancora un sistema politico controllato dai datori di lavoro senza spazio per la voce dei dipendenti.
 
D. Ed è su questi ultimi che il Ttip potrebbe ripercuotersi?
R.
Non lo sappiamo. Ma quello che è prevedibile è che ci sarà uno sforzo da parte delle aziende americane, che sfruttano il vantaggio di avere salari più bassi, a produrre ed esportare prodotti a prezzi competitivi in Europa.
 
D. Per questo le norme comuni sul lavoro sono così necessarie?
R.
Sì, ma per ora l'argomento non è ancora stato affrontato seriamente.
 
D. E voi avete provato a sollecitare il dibattito Oltreoceano?
R.
L'American labour movement non è abbastanza forte per ottenere qualcosa da questo accordo. Soprattutto per quanto riguarda il commercio, non abbiamo potere. Da soli non possiamo fare nulla.
 
D. Chi può fare qualcosa?
R.
I vostri sindacati e i socialisti democratici. Anche perché sono i sindacati e i lavoratori europei a essere minacciati dal Ttip, sono loro che dovranno affrontare il problema di trovarsi in competizione con i salari americani più bassi nel settore manifatturiero e dei servizi.
 
D. Per non parlare di quello agricolo.
R.
Sì. L'agricoltura statunitense è sempre più centralizzata, governata da grandi aziende che lavorano su larga scala con regole diverse da quelle europee. Abbiamo a disposizione un Paese enorme, norme ambientali diverse e una produzione agricola organizzata a livello industriale.
 
D. Quindi?
R.
Saremo capaci senza dubbio di avere prezzi molto più bassi rispetto a quelli di una piccola media azienda del Sud Italia.
 
D. I sostenitori del Ttip invece dicono che saranno proprio i piccoli produttori europei a guadagnarci.
R.
Assolutamente no. Basta pensare che ogni Paese che ha siglato un accordo di libero commercio con gli Usa negli ultimi 25 anni ha visto distrutto il proprio settore agricolo rappresentato da piccole aziende.
 
D. Quindi bisogna dire no al Ttip?
R.
Dipende tutto da che tipo di settore agricolo volete nel vostro futuro. Se volete preservare un tessuto fatto di Pmi, che lavorano ancora a livello artigianale, non potete farle sopravvivere con il Ttip.
 
D. C'è chi punta ai consumatori americani di prodotti di qualità.
R.
Negli Usa c'è una sorta di revival per le piccole produzioni di qualità, ma non penso che anche un aumento della domanda possa bastare a sostenere l'economia agricola dell'Ue, che anzi con il Ttip potrebbe peggiorare.
 
D. Si spieghi meglio.
R.
Negli Stati Uniti puoi trovare i pomodori italiani e americani. Io per esempio compro quelli italiani perché sono più buoni, ma quelli americani sono più venduti perché sono meno costosi. Se un domani con il Ttip anche gli europei si troveranno al supermercato i pomodori americani a un prezzo basso, magari li compreranno anche loro. E sarebbe la fine dell'industria italiana del pomodoro.
 
D. Insomma è un Ttip molto pro-Usa?
R.
Uno potrebbe pensare di sì, grazie alla manodopera a basso costo e alla nostra tradizione industriale potremmo capitalizzare le attività economiche che non stanno andando avanti in Europa, e fare crescere così i nostri livelli di occupazione. Per esempio i tedeschi fanno le migliori macchine? Noi potremmo farle fare qui a prezzi inferiori. Sarebbe perfetto.
 
D. Ma?
R.
Il problema è per quanto. Se noi vi rubiamo il lavoro perché offriamo alle aziende salari più bassi, voi che cosa fate? I disoccupati. E i disoccupati non comprano più nulla perché non hanno soldi. Così non sarebbe solo la vostra economia a soffrire, ma quella mondiale.
 
D. E voi non avreste più consumatori a cui vendere i vostri prodotti...
R.
Esatto, la nostra paura è quella di scatenare una guerra al ribasso che alla fine colpisce tutti. Se noi abbassiamo i salari, con il Ttip anche i vostri saranno tagliati per mantenere le produzioni in casa. Le offerte di lavoro saranno però sempre più al ribasso. E alla fine diventeremo tutti poveri.
 
D. Intanto però nei primi anni ci guadagnereste.
R.
Alla fine perderemo comunque. Il modello sociale europeo è un buon modello e noi non vogliamo distruggerlo. Per questo i vostri lavoratori e governi dovrebbero chiedersi: che cosa rischia di diventare il Ttip per l'Ue?
 
D. Ci risponda lei.
R.
Un accordo che permette alle aziende europee di trasferirsi a produrre negli Usa perché ci sono norme ambientali meno stringenti e salari più bassi. E prima di delocalizzare il proprio stabilimento automobilistico tedesco il datore di lavoro dirà all'operaio: «Il tuo salario è di 17 euro, ma in Mississippi è di otto. Certo tu sei uno specializzato, sei molto produttivo, quindi non devi prendere otto euro ma 12. Se però non vuoi lavorare per 12, spostiamo la fabbrica in Mississippi».

D. Insomma dopo la Cina, arriva l'America?
R. Sì, ma nessuno ci pensa. Oggi un eurodeputato mi diceva: ho davvero paura della Cina, non voglio che l'Ue diventi così, per questo abbiamo bisogno del Ttip. Dobbiamo avere un grande mercato e non farci fagocitare dai cinesi. Non possiamo farci imporre il loro modello sociale.
 
D. Forse crede ancora nell'American dream...
R.
Il problema è che questo deputato non aveva capito che il modello di cui stava parlando in realtà non è cinese, ma è cino-americano. È la partnership commerciale tra Usa e Cina ad averlo prodotto: consumatori e produttori insieme.
 
D. Il capitalismo cino-comunista a stelle e strisce?
R.
Sì. Quando i cinesi dicono di voler aumentare i salari perché così la gente non è felice, non sta bene, sono i produttori americani a opporsi e minacciare i cinesi che se lo faranno porteranno le produzioni altrove. Se io produco in un posto e so che il prodotto sarà venduto in un altro non mi preoccupo del salario del lavoratore, non mi preoccupo se non potrà comprarsi qualcosa, perché tanto io faccio i profitti con un'altra clientela. Capitali americani, forza lavoro cinese e mercato americano. È questo il mix micidiale.
 
D. E ora vogliono fare lo stesso con l'Ue?
R.
Non esattamente. Gli Stati Uniti non sono interessati all'Unione europea come una risorsa produttiva, ma al suo mercato di consumatori. Vogliono i clienti europei, non i lavoratori europei.
 
D. E i loro brand?
R.
Forse sono anche interessati a comprare alcuni marchi europei perché sono buoni, ma quello che vogliono è avere la possibilità di vendervi i loro prodotti.
 
D. Invece a Bruxelles il Ttip viene descritto come l'occasione per vendere prodotti made in Europe al mercato americano.
R.
Non è così, questo punto non è in agenda. In passato la politica commerciale europea ha cercato di fare degli accordi in Sud America, Asia e Africa per vendere i propri prodotti agricoli, i materiali, le manifatture. E in cambio comprava le materie prime offerte da quei Paesi. Ma ora con il Ttip non è questo che si sta negoziando.
 
D. Cosa si sta negoziando allora?
R.
Vogliono delocalizzare le produzioni dei brand europei negli Usa dove la manodopera costa meno, e poi rivendere i prodotti in Europa. Un po' come sta succedendo con la Fiat-Chysler.
 
D. Il modello Marchionne su scala transatlantica?
R.
Questo è il piano, quello che vogliono fare. Non lasciare più niente.
 
D. Sì ma per una Torino che muore, una Detroit rinasce: i sindacati americani non dovrebbero essere contenti?
R.
No, io ho una visione a lungo termine. Noi dell'Afo-Cio sappiamo già come finisce la storia, che cosa succederà.
 
D. Qual è la prima cosa da fare allora per evitare di avere un partenariato dannoso?
R.
Fermare l'Isds, che darebbe alle imprese il potere di impugnare le decisioni prese da governi e chiedere un risarcimento nei casi in cui quelle decisioni abbiano effetti negativi sui propri profitti.
 
D. L'europarlamentare socialista Lange ha già fatto questa richiesta, ma il commissario Malmström ha detto che la clausola è solo «congelata».
R.
Invece deve essere eliminata. In America a livello politico funziona così: solo se mostri di avere potere la gente capisce che hai potere. E solo allora puoi chiedere qualcosa in maniera educata. Ma la Commissione non crede che la sinistra europea abbia davvero il potere e l'abilità per bloccare l'Isds.
 
D. Se invece ci riuscisse?
R.
Allora la prossima volta che la sinistra chiederà di cambiare qualcosa del Ttip, sarà ascoltata più seriamente.
 
D. Magari sulla pericolosità del pollo al cloro?
R.
Quello non è un tema fondamentale, viene dopo. Se tu perdi la battaglia sui diritti dei lavoratori, perderai anche quella sul pollo al cloro. È una questione di equilibrio di potere tra società e business: se non ci sono diritti nel mondo del lavoro, le aziende avranno molto più poteri e faranno quello che vogliono.
 
D. Dice che i diritti dei lavoratori sono a rischio?
R.
Dico che molti non capiscono cosa sta per succedere. Ogni volta che parlo con qualcuno nel Nord Europa: Svizzera, Svezia, Danimarca, Olanda, Germania sono tutti convinti di essere molto più efficienti e avere operai specializzati di così alto livello che vinceranno la competizione con chiunque. E da un lato può essere vero.
 
D. Dall'altro?
R.
Alla fine tutti cercano il prodotto che costa meno. Negli Stati Uniti ogni cosa arriva ormai dalla Cina, perché produce a basso costo, anche le scarpe di lusso. Solo un'azienda è rimasta a produrre calzature in Massachussets.
 
D. E ora il Ttip potrebbe lasciarne una sola in Europa...
R.
Il Ttip potrebbe incoraggiare questa competizione al ribasso, ovvero quanto meno puoi pagare le persone, non certo la protezione sociale. Ha bisogno di consumatori, non di lavoratori. E questo bisogna tenerlo presente, perché è una separazione disastrosa.
 
D. Insomma il Ttip non s'ha da fare?
R.
È presto per dirlo. Non se alla fine questo accordo porterà davvero all'innalzamento del tenore di vita o a un ulteriore abbassamento dei salari. Per questo dobbiamo restare vigili, lottare tutti insieme, Usa e Ue, per ottenere la tutela dei diritti dei lavoratori e opporci se il Ttip risulta incomprensibile. Come diceva il rabbino polacco Nachman:  «Tutto il mondo è un ponte molto stretto, la cosa fondamentale è non avere paura di nulla».

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