Per chi suonano le campane del Corriere della Sera: la solita musica a favore della rendita immobiliare e contro i poveri!
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Con un articolo comparso oggi in prima pagina del Corriere della Sera di Roma on-line, assistiamo all’ennesima campagna contro le case popolari e i suoi abitanti.
Il Corriere della Sera contro i poveri: nella logica che nel mercato degli alloggi gli affitti sono da 1.500€ in su, si grida allo scandalo perché i canoni delle case popolari, per chi vive di una pensione minima (500 euro mensili), sono stabiliti a 7,75 euro a mese.
Riportando lo ‘studio fatto da un cittadino romano’ si evince che 7.066 delle case popolari vengono affittate a questo canone e quindi si denuncia la vergogna da sbattere in prima pagina.
Tralasciando la confusione fatta dai due giornalisti, che ancora mescolano le case di edilizia residenziale pubblica con le case del patrimonio disponibile del Comune di Roma, abbiamo il dovere di ristabilire la verità per far capire ai cittadini romani le vere ragioni che muovono queste campagne tendenti a ridare fiato alla speculazione edilizia e alla rendita parassitaria, che vedono le case popolari come il male da recidere a favore del mercato immobiliare. Come dire o si è in grado di pagare mutui o affitti di mercato (da 1500 € in su) o è bene che finite sotto i ponti.
Per questo precisiamo quanto segue:
- la prima ‘clamorosa’ notizia che c’è dietro l’attenta lettura dell’inchiesta dello ‘zelante cittadino modello preso ad esempio dal Corsera’ è che le case popolari sono abitate dai poveri (7.066, circa un terzo, vivono con una sola pensione minima): proprio per questa categoria la legge regionale per l’E.R.P. prevede un affitto simbolico appunto di 7,75 euro mensili.
Appresa questa notizia quindi non si può che non prendere atto di un cambio di strategia da parte della cronaca romana del giornale: si colpevolizzano i poveri e non più i ‘ricchi’ che non avrebbero diritto a stare negli alloggi pubblici. Ma al ‘cittadino statista’ e agli attenti giornalisti sfugge che oltre al canone mensile, chi percepisce pensioni di 500 euro, deve pagare anche gli oneri accessori (senza sconti 40/70 euro mensili secondo i casi), i servizi (luce e gas), le medicine e poi – scandalo più grande – anche permettersi il lusso di mangiare (auspichiamo che egli abbia segnalato anche tutto questo alla Procura di Roma).
- A giornalisti a cui dovrebbe stare a cuore la verità non dovrebbe sfuggire che le denunce del costruttore Marchini sono relative agli immobili non E.R.P. la cui assegnazione è stata fatta in modo discrezionale e clientelare da tutte le amministrazioni e che le stesse denunce non le abbiamo viste per la truffa dei P.d.Z. (si tratta anche qui si edilizia pubblica!), che per la loro realizzazione è stato messo in atto un sistema bipartisan (politici, costruttori, cooperative) che ha sottratto allo stato e alla collettività centinaia di milioni di euro. Non abbiamo visto neanche gli stessi estensori dell’articolo del Corsera di Roma in questione denunciare questo scandalo.
- Sfugge ancora a chi si cimenta a parlare di case popolari, di bilanci e mancate entrate, che questo patrimonio pubblico è stato costruito con i soldi dei lavoratori (ritenuta ex-Gescal) e non con finanziamenti dello Stato o dei Comuni e quindi non può essere usato per ricavarne profitto o tantomeno per ripianare bilanci, come spesso illegalmente è stato fatto. Le presunte somme non rientrate nella casse del comune sono spesso richieste di pagamenti per servizi mai erogati e per giustificare l’enorme costo della gestione privata (Romeo).
- Aver reso ingestibile questo importante patrimonio pubblico è servito solo a spartitorie, inconcludenti e costosissime privatizzazioni che hanno alimentato il fenomeno di Mafia Capitale, senza portare benefici agli inquilini e alla città.
- Così, però, continua a funzionare, nonostante quello che sta emergendo dall’inchiesta della magistratura romana, quindi via la Romeo Gestioni e dentro la Prelios. Questo cambio ci pare pienamente ignorato dalla grande stampa. Nessuno si domanda cosa c’è dietro questo cambiamento e dietro a questi colossi delle ‘gestioni’ immobiliari (sono sempre loro direbbero tanti).
I cittadini della nostra città hanno bisogno che la casa torni ad essere un bene comune, che si sviluppi la politica degli alloggi a canoni sociali, che si accresca quindi il patrimonio delle case popolari (in Italia siamo solo al 3% dell’intero patrimonio abitativo contro la media del 20% degli altri paesi europei) proprio per calmierare il mercato degli affitti e dei mutui divenuti insostenibili per sempre più ampi settori sociali: abbiamo bisogno di una forte gestione pubblica per garantire il diritto alla casa per tutti/e.
vedi anche: Giornalisti e ispettori del Mef giocano sporco, contro i lavoratori
Qui di seguito l'articolo di Rizzo e Stella sul Corriere della Sera
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Corriere della Sera
Roma, le case del Campidoglio
Affitti a 7,7 euro al meseIl Comune possiede oltre 42 mila immobili: di 24 mila si conosce il canone. Solo 16 fruttano più di 1.000 euro mensili
di Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella
Il signor Gianpaolo Cuccari, un cittadino romano deciso a sapere ciò che evidentemente lassù in alto nessuno vuole sapere, si è piazzato per settimane davanti al computer e ha battuto a tappeto il database di 24.525 appartamenti di proprietà del Comune di cui possiamo conoscere (evviva la trasparenza!) il canone incassato. E ha scoperto che 7.066 di queste case, cioè quasi un terzo, sono affittate a 7 euro e 75 centesimi al mese. Direte: è un errore di stampa. Lo ripetiamo: sette euro e settantacinque centesimi al mese. Il costo di una pizza Margherita (senza birra) in una bettola fuori mano. Sul versante opposto, le abitazioni spesso di prestigio e collocate nei posti più esclusivi della città eterna che sono affittati dal Campidoglio a più di mille euro al mese (andate online e cercate: nelle zone storiche di pregio si parte dai 1.500 in su...) sono in tutto 16: sedici! Lo 0,06 per cento. Di più ancora: le case affittate a meno di 300 euro (solo topaie o quasi di periferia, sul libero mercato) sono il 95,1%.
Sbarrati gli occhi per l’indignazione, il solitario Sherlock Holmes ha preso carta e penna e ha denunciato il fatto alla Procura della Repubblica e alla Corte dei conti: «Nel corso del tempo il Comune di Roma non ha mai aggiornato i canoni e, in conseguenza dell’ingresso nell’euro, appare certo che si sia limitato a fare la conversione dell’importo nella nuova moneta. La documentazione allegata al presente esposto pone in evidenza, essendo gli importi dei canoni differenziati a seconda della colorazione utilizzata, il metodo con cui sono stati enucleati i dati sopra indicati». La prova? «Nel medesimo immobile spesso è possibile rinvenire la situazione per cui la maggior parte delle persone paga canoni irrisori, mentre altri soggetti abitanti nel medesimo palazzo pagano canoni che, seppur affatto alti, sono notevolmente superiori agli altri». Ovvio: chi era già dentro ha continuato a pagare cifre risibili per decenni senza che alcuno si prendesse la briga di andare ad aggiornare l’affitto.
Di più ancora: «Sorge il fondato sospetto che nel corso del lungo tempo trascorso dal momento della prima assegnazione soggetti diversi dai legittimi assegnatari abbiano goduto degli immobili ad insaputa degli organi comunali competenti, colposamente inerti». Immaginiamo la faccia del procuratore generale della Corte dei conti Salvatore Nottola: «Ma non c’è nessuno che controlli?». Intendiamoci: in una metropoli come Roma, con tutti i problemi sociali che esistono e si sono aggravati negli ultimi anni, ci sta pure che alcune abitazioni pubbliche vengano assegnate a prezzi ultra-popolari. Ma quelle case a 7,75 euro al mese son davvero occupate solo da vecchi pensionati impoveriti dalla crisi o da famiglie indigenti che non ce la fanno? Dubitiamo.
Le denunce dei mesi scorsi da parte dell’opposizione che in consiglio comunale fa capo ad Alfio Marchini, del resto, hanno documentato casi assurdi. Ad esempio l’appartamento di 70 metri quadrati in via dei Cappellari, a Campo de’ Fiori, affittato a 222 euro. O la casa di 122 metri quadri in via Labicana, vicino al Colosseo: 174. O il monolocale in piazza Navona: 22. O la sede Pd di via dei Giubbonari, dietro il ministero della Giustizia: 200. Per non dire di alcuni sbalorditivi affitti commerciali, come quello di un bar in via dei Campi sportivi, oltre Villa Glori, che sborsa 26 euro mensili: ottantasei centesimi al giorno! O di un ristorante in via Appia Antica: 258 euro al mese. Cioè 8 al giorno: il costo di un contorno, patate o cicoria.
Siete scandalizzati? Eppure è ancora peggio di come appare. Perché le prime denunce dell’andazzo, sulla gestione del patrimonio immobiliare capitolino, sono addirittura del 1977. Quando Jimmy Carter entrava alla Casa Bianca, Renato Vallanzasca veniva catturato, i radicali chiedevano le dimissioni di Leone e in India si dimetteva Indira Gandhi. Fu allora che, su denuncia dell’allora sindaco Giulio Carlo Argan, la magistratura mise sotto inchiesta l’assegnazione di 2002 case comunali. Finite in decine di casi a galoppini della Dc che non ne avevano alcun diritto.
Da allora, è stato un continuo succedersi di inchieste, polemiche, promesse di svolte virtuose e definitive. Inutile elencarle tutte. Basti ricordare che nel 1988, cioè 27 anni fa, l’allora assessore comunale al Demanio spiegava che il Campidoglio vantava crediti dagli inquilini morosi dei «26 mila appartamenti di edilizia economica e popolare» per 80 miliardi di lire dell’epoca: oltre 88 milioni di euro attuali. Nonostante il canone fosse mediamente tra i 26 e i 32 euro di oggi. E già allora l’assessore, Antonio Gerace, confidava all’Ansa: «È difficile addirittura stabilire chi realmente occupa l’abitazione. Molti inquilini si sono installati abusivamente nelle case e vi risiedono da oltre 15 anni senza pagar alcun canone».
L’anno dopo, la Finanza rilevava una morosità di 47 miliardi e mezzo di euro attuali «soltanto in relazione a 8.300 alloggi di edilizia residenziale pubblica». Di più, denunciava il Comune: «Almeno 5.000 inquilini non hanno un volto». Va da sé che sul tema le polemiche erano roventi. Di qua il pentapartito che voleva affidare la gestione ai privati, di là le sinistre, col Pci in testa, che si opponevano. Ed è andata avanti così per anni e anni. Ancora polemiche. Ancora risse. Ancora promesse. Ancora scandali, come quello vent’anni fa di Affittopoli quando saltò fuori che anche abitazioni comunali di prestigio erano finite a politici, amici di politici, parenti di politici...
Scrisse il Giornale , protagonista di una dura campagna stampa, che «su un patrimonio valutato sui 15.000 miliardi di lire il Comune ne attende 40 di incasso ogni anno, ma, a conti fatti, ne arrivano solo la metà». Tradotto in euro: da quel tesoro immobiliare del valore di 11 miliardi e mezzo d’oggi, il Campidoglio ricavava una quindicina di milioni. Per spenderne contemporaneamente 106 per la manutenzione. Una pazzia. Destinata negli anni non a essere superata. Ma a peggiorare addirittura.
Quei 17.930 immobili di cui nessuno sa più nulla
Quei 24.525 appartamenti di cui parlavamo all’inizio non sono nemmeno l’intero patrimonio capitolino. Per arrivare alla cifra ufficiale degli immobili comunali di edilizia residenziale contenuta nell’esposto di Cuccari, ovvero 42.455, occorre aggiungerne 17.930. Dei quali, scrive il segugio ai giudici, nulla si sa.
Sappiamo però che dal suo sterminato patrimonio immobiliare, nel quale ci sono appunto anche molti alloggi esclusivi in pieno centro storico non assegnati a indigenti, il Comune ha ricavato nel 2013 circa 27,1 milioni di euro. Media ad appartamento: 52 euro al mese. Una miseria. Ancora più indecente in confronto a quanto è stato speso nel 2014 per la gestione e le manutenzioni di ogni proprietà: 138,9. Quasi il triplo.
Chi controlla, allora? C’è innanzitutto una società privata. Per molto tempo, in cambio di un «modico» compenso di nove milioni annui, la Romeo gestioni si è occupata della gestione amministrativa e di alcune di quelle manutenzioni di cui dicevamo. Poi c’è, ovvio, la politica. Ovvero il dipartimento del patrimonio. Ma non è mai cambiato nulla. Ogni tanto il sindaco di turno proclama che la cose cambieranno: e le parole restano parole. Nel settembre del 2012, tempi di spending review, uscì un’Ansa: «Contro le case e gli immobili pubblici dati in affitto per due soldi arriva a Roma l’Anagrafe pubblica degli immobili». Con tanto di esempi, come quello di un bar a Santa Maria in Trastevere: 52 euro mensili. Un cappuccino al giorno e il padrone si era già rifatto. Svolte epocali successive? Mah...
Anche Ignazio Marino, nel settembre 2014, ha detto di voler «avviare le attività propedeutiche» (testuale) per adeguare i canoni. E anche stavolta le buone intenzioni, che non mettiamo in dubbio, sono rimaste lì, appese come caciocavalli al trave. Per mesi. Finché a febbraio la Romeo gestioni, che aveva ricevuto l’incarico di studiare la cosa, ha lamentato per iscritto di non aver mai avuto dal Comune il via libera per chiedere gli aumenti agli inquilini...
Mentre affitta gli immobili propri a prezzi stracciati, il Campidoglio paga a peso d’oro quelli altrui. Siccome evidentemente non bastano le case popolari, ha preso in affitto da costruttori ed eredi 4.801 appartamenti nelle aree periferiche per 21 milioni annui. Canone medio mensile: 364 euro, sette volte di più di quanto incassa dai suoi. Poi c’è l’emergenza abitativa: altri 42 milioni accompagnati da un fetore fastidioso, come dicono le inchieste su Mafia Capitale. Anzi, è forse l’affare più succulento: per alcuni immobili i canoni pagati dalle casse capitoline sfiorano i 2.700 euro mensili. E l’emergenza dura da anni. Se non decenni. Di nuovo la stessa domanda: chi controlla? Nessuno, è evidente, ha mai controllato davvero. Perché appena il Comune ha cominciato finalmente a fare le verifiche è saltato fuori di tutto. Su un campione di 96 famiglie assegnatarie di quelli alloggi messi a carico dei cittadini per l’emergenza abitativa 39 non ne avevano alcun diritto. Quattro su dieci. Ma votano...
La (cattiva) politica, qui, fornisce la spiegazione a ogni cosa. Dietro ogni apparente sciatteria o apparente scivolone della burocrazia c’è sempre la (cattiva) politica. È un gioco delle parti, fra certi (cattivi) funzionari dell’amministrazione e i partiti. Ognuno ha il proprio tornaconto. Si spiega così come mai i controlli, a Roma, siano un buco nero che inghiottisce tutto. E per cambiare le cose non bastano gli annunci né la semplice buona volontà. Serve fare le cose più semplici. Però farle davvero.
L’eredità dei palazzinari e le delibere sotto esame
Vi pare possibile che una signora con 1.048 (millequarantotto!) appartamenti affittati al Comune di Roma, Angiola Armellini, erede dell’impero del re dei palazzinari Renato, non paghi allo stesso Comune le tasse sulla casa? E vi pare possibile che possa chiudere una pendenza come questa, nell’estate del 2014, grazie a un accordo con l’Agenzia delle Entrate che prevedeva 37 milioni di multa più 10 al Comune di Roma? Briciole, in confronto ai due miliardi di euro volati in Lussemburgo. Briciole. Mentre i canoni pagati dal Campidoglio continuavano a correre...
Ne troviamo le tracce in una serie di «determinazioni dirigenziali» spedite qualche settimana fa dal Comune (evviva!) ai magistrati contabili. Contenute in un librone che porta scritto sul frontespizio «Allegato alla relazione sul controllo successivo di regolarità amministrativa per la Procura generale della Corte dei conti».
È il risultato delle verifiche a campione fatte nel 2014 su una serie di provvedimenti dell’amministrazione. In tutto, 1.534. E questi controlli hanno scovato anche delibere, contratti, decisioni discutibili: 222. Uno ogni sei documenti presi in esame. Scelte che davano da pensare. In qualche caso parecchio.
Non è una coincidenza che molte di quelle determine finite sotto osservazione siano state sfornate dai dipartimenti delle politiche abitative (21) e del patrimonio (20). Nel librone inviato alla Corte dei conti c’è per esempio l’autorizzazione al pagamento di circa un milione e mezzo per sei mesi di pigione di un immobile affittato al Comune di Roma dalla Farvem Real Esate, società controllata al 50% da Massimo Ferrero, detto «Viperetta», il proprietario d’una catena di sale cinematografiche e presidente della Sampdoria, e da sua moglie Laura Simi. E il pagamento di 1,2 milioni all’immobiliarista Sergio Scarpellini per un trimestre di affitto dell’immobile in via delle Vergini dove stanno alcuni uffici del consiglio comunale. E la delibera relativa a un versamento di 274 mila euro alla società «il Tiglio» che fa capo all’immobiliarista Domenico Bonifaci per l’affitto di un ufficio in via Flaminia.
Ufficio al centro di una storia curiosa. L’immobile era infatti di proprietà di una società comunale, «Risorse per Roma», che lo vendette il 28 dicembre 2007 (mentre il Campidoglio era commissariato) a una società costituita un mese prima da Bonifaci. Il quale lo riaffittò prontamente al Comune, ripagandosi il mutuo con il canone. Un capolavoro... A spese dei cittadini.
Le politiche sociali e la coop di Mafia Capitale
Ma il record delle «determine» più contestate spetta, e forse non poteva essere diversamente dopo quanto si è letto nelle cronache, al dipartimento politiche sociali. Per capirci, la struttura comunale interfaccia delle cooperative. Gli atti impugnati sono 58 su 222. Fra questi le proroghe dei finanziamenti alla «Eriches 29» di Buzzi, l’uomo simbolo di Mafia Capitale insieme a Massimo Carminati, e all’altra cooperativa «Domus Caritas», per l’assistenza alle famiglie in «emergenza abitativa». Motivo dei rilievi? Quei nuclei familiari non avevano diritto ai benefici, tanto da risultare destinatari di provvedimenti di sgombero. Si tratta di tre delibere per un totale di 600 mila euro, adottate fra la fine di luglio e la fine di novembre 2014. Ma Enrico Lamanna e Vito Tatò, i due ispettori della Ragioneria generale dello Stato spediti dal ministero dell’Economia a fare le pulci ai conti della Capitale in previsione del decreto «salva Roma», l’avevano già messo nero su bianco molto ma molto tempo prima. Nel rapporto inviato al Comune di Roma il 16 gennaio 2014 denunciavano infatti che le continue proroghe alle società citate, e per importi superiori alle soglie oltre cui per legge si devono bandire le gare, erano assolutamente illegittime.
Nero su bianco: «Gli enti pubblici possono stipulare convenzioni con le cooperative sociali per la fornitura di beni e servizi, diversi da quelli soci sanitari ed educativi, in deroga alle procedure, purché detti affidamenti siano di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria. Nel caso in questione tale soglia è stata abbondantemente superata». Di più: «La proroga d’un affidamento è espressamente vietata dall’art. 23 della Legge n. 62/2005...». Più chiaro di così... Non per gli uffici comunali, però. Sordi, ciechi. Muti. Fino allo scoppio dello scandalo Mafia Capitale.
Micidiale, la relazione degli ispettori. Non si limitava a sottolineare l’illegittimità delle proroghe alle cooperative che sarebbero state coinvolte un anno dopo nelle inchieste. Metteva anche il dito nella piaga delle municipalizzate e di tante altre storture. Come il cosiddetto salario accessorio di cui scrivevamo ieri. E la giungla delle indennità stratificate negli anni. Indennità per la presenza in servizio. Indennità manutenzione uniforme. Indennità attività di sportello. Indennità oraria pomeridiana (sic!). Indennità annonaria. Indennità decoro urbano. Indennità disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti.
Eppure, quella relazione è stata di fatto, fino allo scoppio di Mafia Capitale, completamente ignorata. Solo «dopo», ad esempio, è stata istituita una struttura interna con il compito di rafforzare i controlli così come era previsto un anno e mezzo prima (un anno e mezzo!) da un decreto Monti. E solo un paio di mesi fa il pacco delle «determine» messe sotto esame, comprese quelle su Buzzi, è arrivato finalmente alla Corte dei conti: e c’è da domandarsi se non abbiano contribuito a questo le punzecchiature del rompiscatole di turno, il consigliere radicale Riccardo Magi, che per mesi ha tempestato di lettere e richieste gli uffici. A proposito, e quelle 222 «determine» finite nel mirino? Ne sono state annullate due e revocate sei. Dei dirigenti che le avevano firmate, non ne è stato sanzionato uno.
21 giugno 2015 | 07:58
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