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18/09/2015

Fed in crisi, non sa più che fare

Difficilmente un evento mancato è così gravido di conseguenze. La Federal Reserve Usa, ieri, non ha varato l'annunciato rialzo dei tassi di interesse base, lasciandoli – come da sei anni a questa parte – all'interno della “forchetta” tra zero e 0,25%. Il rubinetto del denaro gratis per le banche statunitense per ora continua a restare aperto, comincerà a chiudersi più in là. Forse.

Perché è così importante questa non decisione per l'economia mondiale? È dal 1971 che gli Stati Uniti manovrano a proprio piacimento l'”aspirapolvere globale” fondato sulla propria politica monetaria, senza più la preoccupazione di dover fa corrispondere una quantità d'oro alla moneta stampata. Quando ne hanno bisogno, inondano il pianeta di liquidità denominata in dollari (e in tanti, imprese e stati, si indebitano grazie ai tassi attraenti perché bassissimi), favorendo investimenti ovunque; e fanno il contrario quando hanno bisogno di far rientrare i capitali a casa, risucchiando anche tutti quelli originati durante le vacche grasse in altre aree del mondo.

Dopo sei anni di liquidità a gogo, il momento del reverse sembrava decisamente arrivato. Ma si è mostrata evidente la crisi cinese, che trascina al ribasso tutti i paesi emergenti esportatori di materie prime (spesso indebitati in dollari), la persistente debolezza europea, l'incertezza sulla reale forza della stessa “ripresa” americana (i posti di lavoro in più, creati in questi ultimi anni, sono lavoretti a bassa qualifica e basso salario; l'inflazione resta inchiodata vicino allo zero, ecc). “I mercati”, crollando ripetutamente e con forti oscillazioni in tutto il mese di agosto, hanno fatto vedere di essere molto nervosi e di desiderare, dunque, un prolungamento della politica monetaria “accomodante” ed espansiva seguita finora.

Si può dunque dire che la rinuncia ad alzare i tassi sia una “vittoria dei mercati” sulla Fed. Ossia un'inversione rispetto alla tradizionale funzione di guida della stessa Fed nei confronti dei mercati. Ma proprio in questo sta “la notizia”, specie se si confermerà anche ad ottobre. Sono due anni, infatti, che la Fed annuncia una “svolta” che non arriva mai.

È fin troppo facile, infatti, discettare sui pro e sui contro. Se la Fed dava inizio al rialzo del costo del denaro, partiva la fuga dei capitali dai mercati più deboli verso l'America, con conseguente aumento del valore del dollaro (e riduzione delle già non molte esportazioni Usa), del prezzo dei titoli del Tesoro, ecc. Mentre così tutti possono tirare il fiato o tirare a campare. Specie le praticamente già fallite società dello shale oil, che hanno sì fatto aumentare la produzione Usa di petrolio e gas, ma producendo sottocosto e indebitandosi per cifre che non potranno mai essere restituite.

Le variabili dipendenti sono migliaia, e tutte di grandi dimensioni e quasi tutte di estensione globale. Ma questo significa che la Federal Reserve non può di fatto più operare tenendo d'occhio – come da statuto – soltanto il mercato interno e gli interessi degli Stati Uniti, segnatamente in base ai due pilastri storici (tasso di inflazione e tasso di disoccupazione). Deve guardare alle tendenze mondiali senza essere la Banca Centrale del mondo.

C'è una contraddizione in termini, in questo ruolo. Perché diventa evidente – con il continuo rinvio del rialzo dei tassi – che la Fed non può più agire solo come garante degli interessi Usa. Se aumenta il costo del denaro, anche di pochissimo, provoca una scossa di terremoto di dimensioni globali. Ma le conseguenze possono essere tali da rovesciarsi come uno tsunami sugli stessi Stati Uniti.

Basta guardare al caso Cina. Lì la crescita spaventosa, al ritmo quasi sempre superiore al 10% annuo (solo ora sceso ad “appena” il 7), è trainata dal contributo degli investimenti fissi: pari al 40% del Pil. Impossibile continuare così, specie in una situazione di evidente eccesso di capacità produttiva inutilizzata a livello planetario. La Cina, come già deciso da alcuni anni, sposterà dunque buona parte della sua crescita dagli investimenti ai consumi interni. Ottima notizia per i lavoratori e cittadini del Celeste Impero, ma una tragedia per gli esportatori di beni di investimento in Cina (in primis la Germania, ma anche gli Stati Uniti). Per non parlare delle ricadute al ribasso sul prezzo del petrolio, già ai minimi terni. Anche qui, un'ottima notizia per consumatori e imprese energivore, ma una tragedia per i produttori (a cominciare dai protagonisti del fracking, praticamente falliti da alcuni mesi).

I mercati dunque hanno vinto, viva i mercati? Qui sottolineiamo l'ultima contraddizione. È una vittoria disastrosa, perché distrugge – o perlomeno incrina profondamente – la credibilità della Fed come “regolatore” dell'andamento dei mercati. I quali, da soli, danno ogni giorno prova di vivere con l'occhio alle mosse delle banche centrali (oltre alla Fed, di Bce, Boj e Banca d'Inghilterra), incapaci di autoregolarsi e ancor meno di autolimitarsi.

Ma se si mette in crisi questo potere della Fed si toglie buona parte dell'energia per far funzionare l'”aspirapolvere globale” in mano agli Stati Uniti. Dopo 44 anni. Apre le porte su un altro futuro, in cui nessuno è davvero più il dominus sui mercati globali.

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