di Fabrizio Casari
Un altro muro, a
completare la recinzione della fortezza ariana nella sua versione
magiara, sembra dipingere con pennellate di vergogna l’ultimo quadro del
Vecchio Continente. Qui non si tratta più di politiche inclusive o
esclusive nei confronti dei migranti, nemmeno di governance obbligata
per quanto difficile. Si tratta di una concezione xenofoba che
sull'identità religiosa e su una (presunta) identità etnica costruisce
un programma pericoloso per la convivenza europea.
L’odio razziale che la sottocultura del fascista Orban eleva a linea
politica, apre interrogativi non più rinviabili nel seno europeo.
L’Europa che ci viene proposta nella sua rappresentazione giuridica e
politica, ovvero l’Unione Europea, non è certo uno spettacolo che scalda
i cuori.
La prematura scomparsa degli elementi culturali che l’avevano
disegnata - dall’identità politica al modello socioeconomico - è da
tempo evidente e la riduzione dell’Europa ad un consorzio finanziario a
guida tedesca è un fatto difficilmente contestabile. Ma nella gestione
dei flussi migratori emerge però prepotentemente una Europa che dimostra
come il sistema di valori, l’identità e persino l’anima culturale sulla
quale era stata concepita sono ormai alla deriva.
S’avanza una
Europa nera, che dipinge gli equilibri politici e la stessa identità
continentale a tinte fosche. E il paradosso della vicenda profughi ed
immigrati è che i paesi dell’Est, in particolare Polonia e Bulgaria,
hanno letteralmente invaso il resto d’Europa con centinaia di migliaia
di migranti.
Allora chiedevano, giustamente, aiuti e comprensione; oggi, che
pensano di essere diventati paesi autosufficienti, offrono marchiature e
muri a chi fugge dai rispettivi inferni. L’Ungheria governata dal
fascista Orban, cui è addirittura toccato un semestre di presidenza Ue
appena prima dell’impalabile semestre italiano, non rappresenta però un
caso isolato, una sorta di unicità negativa che l’insieme dei 28 paesi
che compongono la Ue può permettersi di giudicare alla stregua di un
fenomeno locale o temporaneo.
Certo la storia dell’Ungheria è
nera come il carbone ed è certamente diversa da quella polacca o Ceka,
ma il propagarsi rapido dell’ideologia totalitaria in tutta l’Europa
dell’Est rende impossibile sottovalutare o circoscrivere il problema.
Alla rivendicazione di una improbabile razza magiara, Budapest fa
seguire i fatti. Lo spaccio di oltre 800.000 passaporti ungheresi in
quelli che considera territori perduti in Slovacchia, Romania e Ucraina,
crea allerta.
La Nato ritiene che Orban provi a insediare quinte colonne etniche
nei paesi Baltici per chiedere domani modifiche alle frontiere.
Basterebbe che la Commissione Europea si rivolgesse al Comando Nato
nella stessa Bruxelles per avere valutazioni circa la pericolosità del
premier fascista ungherese.
E nell’opera di revisione di quanto
fatto finora sarebbe bene anche considerare finalmente con uno sguardo
diverso lo stesso governo ucraino, certo non privo d’identità nazistoidi
al suo interno, invece che di proseguire nelle sanzioni contro Mosca
che, pur con tutti i suoi errori e crimini, come già in altri passaggi
storici - dall’Afghanistan alla Siria - si oppone sola alle derive
iperpoliticiste dell’Occidente, che per interessi geostrategici crea e
difende milizie e governi orrendi che successivamente gli si rivoltano
contro con tutta la loro pericolosità.
A
meno di non voler sostenere che l’unica condizione per la presenza
nella Ue sia l’applicazione delle dottrine monetariste, la Polonia in
mano a Duda, la Repubblica Ceka dell’antieuropeista ad alto tasso
etilico Zeman, la Slovacchia di Fico (che ha l‘ardire di definirsi
socialista), come la Bulgaria del corrotto Ponta, rappresentano un
problema di natura politica - e dunque sistemico - che Bruxelles non può
fingere d’ignorare.
Vi è insomma una parte consistente dell’Europa dell’Est dai tratti
xenofobi e fascisti che non può più essere considerata compatibile con l’Unione Europea. La cosiddetta “svolta” del 1989 è ora chiara a tutti.
La comune caratteristica degli ex paesi del blocco orientale a guida
sovietica sembra, a posteriori, voler dare ragione a chi la vedeva come
una minaccia più che una promessa.
Non bastano certo le minacce
di procedure d’infrazione, ovvero multe che non verranno mai riscosse,
ad affrontare con la giusta determinazione il problema. E nemmeno la
minaccia di sanzioni semplici da aggirare e che nessuno rispetterebbe,
servirebbero a lavare la coscienza dell’Ue, che ama spacciarsi come
centro della cultura multietnica e baluardo della democrazia
internazionale.
Il blocco dell’ultradestra europea si caratterizza infatti per l’odio
razziale contro l’immigrazione e per la repressione spietata verso le
opposizioni interne, che quasi ovunque vede anche la versione giuridica
nell’impedimento legale alla formazione di partiti comunisti o di
sinistra che dir si voglia.
Non sono fascisti perché marchiano
gli immigrati: marchiano gli immigrati perché sono fascisti e, in quanto
tali, per passato e presente, incompatibili con il consesso civile.
L’Unione Europea deve aprire una fase nuova, cominciando a dire con
chiarezza che non può far parte della UE chi applica politiche razziste e
repressive al suo interno.
Che non può continuare a partecipare ad una identità politica europea
chi nega i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta Internazionale
delle Nazioni Unite e dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, oltre che
dagli statuti fondativi della stessa Unione Europea.
Sarebbe
un buon sistema per inviare un messaggio anche alle forze più
reazionarie che, accucciate come avvoltoi in attesa dell’occasione
giusta, minacciano anche dall’interno l’identità democratica degli
stessi paesi fondatori dell’Unione.
Diceva Bertold Brecht che la
sconfitta del nazismo non doveva generare illusioni, perché “sebbene la
bestia sia stata annientata, il ventre che la concepì è ancora gravido”.
Parole profetiche quelle del grande drammaturgo.
La minaccia dell’onda nera appesta di nuovo il centro del Vecchio
Continente e l’affermarsi in molti paesi delle destre xenofobe,
nostalgiche del nazismo, rischia di trasformare di nuovo l’Europa da
soluzione del problema a problema senza soluzione. Già una volta la
storia ha dimostrato che ad esitare la si paga cara. La conoscenza dei
corsi e ricorsi vichiani dovrebbero spingere a non ripetere l’errore.
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