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10/09/2015

Possibili conseguenze della crisi cinese

Come era facile prevedere, la situazione delle borse cinesi è ancora molto traballante e tutto fa pensare che il peggio debba venire. E, pertanto, già si inizia a valutare le possibili conseguenze sull’economia mondiale ed in particolare europea.

C’è chi ha osservato che:

a- nonostante tutto, la Cina resta il massimo creditore mondiale, in possesso di grandi masse di liquidità, per cui è remoto il pericolo di un suo default con successivo effetto domino;

b- la Cina è il massimo paese manifatturiero con forti avanzi commerciali, per cui “una recessione non parte di qui”.

Ragionamenti con una base di fondamento indiscutibile, ma un po’ troppo semplici e sbrigativi.

Partiamo da una cosa: si, effettivamente la Cina ha una massa di liquidità impressionante, per cui, anche se il debito statale dovesse essere superiore di parecchie volte a quello stimato, non sussiste l’ipotesi di un default. Quanto, poi, al debito delle amministrazioni locali e delle aziende, si tratta in gran parte di debito interno, per cui eventuali default brucerebbero capitali di risparmiatori cinesi, molto più che di banche occidentali, con conseguenze prevedibili più sul piano politico e sociale che su quello economico. Sin qui ci siamo. Il problema è che, se la Pboc, per sostenere l’economia interna, iniziasse a fare massicci qe, otterrebbe l’effetto di svalutare la moneta in misura ben maggiore di quella voluta, con effetti a catena sugli equilibri monetari mondiali.

Se, invece, ricorresse almeno in parte, alle masse di denaro accumulate (in primo luogo dollari e titoli di debito Usa) la cosa avrebbe immediate ripercussioni sulla stabilità monetaria statunitense, sia con effetti politici, ad un anno dal voto per la Casa Bianca, sia sul prezzo delle materie prime (normalmente scambiate in dollari). Ed un deprezzamento del dollaro avrebbe poi l’effetto di deprimere le esportazioni cinesi negli Usa, il che tornerebbe addosso alla Cina come un boomerang. La cosa più auspicabile per la Pboc sarebbe quella di bilanciare le due cose, mantenendo il più possibile invariati i rapporti Dollaro-Euro-Yuan, salvo gli “aggiustamenti” previsti. Ma è cosa più facile a dirsi che a farsi, in primo luogo perché non è affatto detto che ci sia accordo sulle nuove parità (appunto, gli “aggiustamenti” voluti da Pechino potrebbero non essere gli stessi auspicati da Washington), poi perché il gioco sarebbe a tre (se non a quattro, mettendo dentro anche lo Yen) e lo spostamento di A si riflette anche sui rapporti fra B e C, per cui non è detto che le mosse di tutti e tre vadano nella stessa direzione e non si creino effetti di “onde di ritorno” che squilibrano il tutto.

Ma, anche se, per un colpo di fortuna si centrasse subito la “formula magica” dei nuovi equilibri monetari, la cosa potrebbe non funzionare sul piano delle economie reali. Infatti, immaginiamo un deprezzamento più o meno bilanciato e simultaneo delle tre monete principali, resterebbe il problema del rapporto con le altre e, soprattutto sarebbe piuttosto complicato valutare l’effetto sui consumi interni a ciascun paese e di conseguenza su produzione ed occupazione.

E qui veniamo all’altro dente dolente: è verissimo che la Cina ha avanzi commerciali così robusti da poter incassare una flessione di profitti, senza per questo andare in rovina e far partire una recessione, anche perché, come importatore, salvo che per le materie prime, la Cina non è un mercato che assorba tantissimo della produzione mondiale. Ma è vero solo in parte. Proprio perché paese eminentemente manifatturiero ma povero di materie prime (lantanoidi a parte), la Cina rappresenta il massimo acquirente mondiale di materie prime come rame, petrolio, zinco, ferro cui dovremmo aggiungere il cemento che non è esattamente una commodity. Per cui, se riduce la sua produzione, riduce anche la domanda di questi beni ed in modo sensibile, con effetti sui loro prezzi mondiali. Il che metterebbe immediatamente nei guai tanto le società finanziarie che operano nel trading di questi beni, già a marzo dell’anno scorso ci fu un bagno di sangue per hedge fund del settore ed alcuni finirono spazzati via, se adesso si ripetesse, sarebbe un bagno di sangue al quadrato.

A ruota seguirebbero i paesi produttori di materie prime che sono una bella fetta degli emergenti. E, infatti, già alle avvisaglie della crisi cinese, sono andate immediatamente in affanno le borse degli emergenti, dal Brasile all’Indonesia, ecc. ed anche di paese non “emergenti” come l’Australia. E c’è anche un altro brutto segnale: di solito, quando l’economia tira, salgono i prezzi del petrolio (che va a produzione e consumi) e cala quello dell’oro (bene rifugio per i tempi di magra) e, vice versa nei periodi di crisi. Appunto, oro e petrolio hanno andamenti simmetrici e contrari. Qui, invece, stiamo assistendo alla flessione tanto dell’uno quanto dell’altro: brutto affare! Significa che si sta profilando una sfiducia generalizzata negli investimenti tanto in una direzione quanto nell’altra.

Dunque, è vero che, direttamente, è difficile che una recessione possa partire dalla Cina, ma, indirettamente può benissimo accadere che la recessione possa partire per effetto della contrazione della domanda di materie prime. Insomma, vogliamo ricordarci, ogni tanto, che il parametro fondamentale dell’andamento dell’economia è la domanda aggregata mondiale e che la Cina è uno dei due principali agenti che la determinano?

Sin qui abbiamo ragionato (e solo per sommi capi) sugli effetti economici della eventuale (e probabile) crisi cinese, ma ce ne sono di ancora più rilevanti sul piano politico, ma di questo parleremo una prossima volta.

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