di Chiara Cruciati – il Manifesto
Il tricolore iracheno sventola su Ramadi, capoluogo dell’Anbar. Sopra
la sede del governo due soldati appoggiano la bandiera tra i serbatoi,
in strada le truppe ballano con i fucili in mano. Restano esigue sacche
di islamisti nei quartieri est, gli scontri continuano nel 30% della
città ma lo Stato Islamico sta scappando, una fuga opposta a quella di
maggio quando a dileguarsi furono le truppe di Baghdad. Sette mesi dopo
la città sunnita è quasi libera ma in macerie.
I raid occidentali hanno permesso
ai soldati iracheni – sostenuti per la prima volta da unità sunnite
volontarie – di entrare a Ramadi: «Sì, la città è liberata – annunciava
ieri con un po’ di fretta il generale Rasool – Un nuovo capitolo della
storia di questo paese».
È probabile che sia così: il
governo è riuscito dove aveva fallito a Tikrit. Accanto ai soldati
governativi c’erano combattenti sunniti, organizzati dalle tribù, e non
le milizie sciite che avevano guidato la riconquista della città natale
di Saddam Hussein per poi macchiarsi di odiosi abusi contro i civili.
Resta da vedere se il futuro della provincia (teatro del malcontento
sunnita verso il governo sciita) seguirà il percorso tracciato
dall’azione militare.
Per ora si festeggia, a Ramadi
come a Baghdad, Karbala, Bassora. E si pensa alla messa in sicurezza: il
premier al-Abadi fa sapere che ad occuparsi della difesa futura e della
rimozione di ordigni inesplosi saranno la polizia locale e le tribù. Ramadi
è strategica: a 100 km ad ovest di Baghdad e a 50 da Fallujah, taglierà
le vie di rifornimento dell’Isis verso la seconda città della provincia
e impedirà l’avanzata verso la capitale. Ma soprattutto aprirà alla
vera battaglia, Mosul. Il governo lo ha già annunciato: prossimo
obiettivo è la seconda città irachena. Che richiederà uno
sforzo maggiore: a Ramadi sono stati dispiegati decine di migliaia di
soldati, a Mosul ce ne vorranno molti di più.
Ma soprattutto – è il proposito di Baghdad – alla
vittoria militare si dovrà accompagnare la ricostruzione, il ritorno
degli sfollati e la pacificazione interna: l’avanzamento dell’Isis non è
figlio solo della macchina da guerra di al-Baghdadi, ma anche della
rete locale creata in Iraq. Una rete composta da ex baathisti,
membri dell’establishment politico di Saddam, tribù locali che hanno
visto nell’Isis il mezzo per scardinare l’odiata autorità sciita
post-raìs.
Siria, evacuata Zabadani
In Siria l’exit strategy dalla
crisi passa per gli accordi locali tra governo e opposizioni, in attesa
del negoziato viennese sponsorizzato da Casa Bianca e Cremlino. Dopo il
successo di Homs e il fallimento di Yarmouk, ieri è stato implementato
quello siglato a settembre per Zabadani, al confine con il Libano.
Centinaia di miliziani feriti (membri di al-Nusra, Ahrar al-Sham e
Esercito Libero) hanno lasciato la città, da mesi circondata da truppe
siriane e Hezbollah. A bordo di bus e ambulanze organizzate dall’Onu
hanno raggiunto il Libano dove voleranno in esilio in Turchia.
Simile scenario, ma all’opposto,
nei due villaggi sciiti di Kafraya e Fuaa, nella provincia di Idlib,
dove centinaia di famiglie vivono sotto l’assedio di al-Nusra. Ad
andarsene sono 330 civili sciiti: dalla Turchia torneranno in Siria in
zone controllate dal governo. Spostamenti di popolazione che fanno
storcere il naso a molti osservatori, già preoccupati dai cambiamenti
demografici subiti dal paese.
Gli accordi locali sono ad oggi i più
efficaci strumenti per porre fine agli scontri armati, seppure la pace
non regni ancora nelle zone interessate: ieri ad Homs 32 persone sono
morte in un doppio attentato.
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