Terzo appuntamento con il nostro approfondimento, qui e qui la prima e la seconda parte.
Intervistato dal Corriere della Sera Vali Nasr, rettore della Scuola
di studi politici internazionali della John Hopkins University di
Washington, ha recentemente dichiarato: Se andiamo a cercare
spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme.
Il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile
siriana oggi l’Isis non esisterebbe.(…) Il fatto che esista
un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è una cosa di
enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico.
Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune,
all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo
un’ideologia, ma anche una patria da difendere. Il
politologo di origine iraniana, già consigliere di Obama, coglie così,
meglio di molti altri osservatori politici, gli elementi di novità
strategici e tattici che stanno dietro l’ascesa dello Stato Islamico. La
categoria del “terrorismo islamico”, con cui si è soliti inquadrare il
tema, inchioda il nemico a due sole dimensioni: la violenza e la fede.
Il problema è che lo stigma bipolare coglie alcuni aspetti epifenomenici
della questione, ma ne nasconde altri, meno visibili ma indispensabili
per comprenderne la natura. Su tutti quella volontà di “farsi Stato” del
movimento di al-Baghdādī che ne costituisce il cuore del “pensiero
strategico”, nonché il tratto peculiare e distintivo rispetto alle
precedenti generazioni di jihadisti. Un elemento che raramente viene
colto, tanto che lo Stato Islamico raramente è citato con il suo nome,
semmai virgolettato, mentre gli si preferisce in genere l’acronimo Isis
o, in arabo, Daesh (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām).
Sopprimendo o edulcorando l’evocazione della statualità si perde però di
vista il carattere innovativo della movimento e delle analoghe
strutture attive nella “fascia salafita”, tra Sahel, Sahara e Golfo. Non
a caso Boko Haram si richiama al Califfato di Sokoto, uno dei più vasti
imperi africani che prima di essere sgominato dai britannici nel 1903
si estendeva dal bacino del Niger al lago Ciad. E anche in questo caso
l’obiettivo è (ri)farsi Stato Islamico nella Nigeria settentrionale,
ricongiungendosi ai territori contigui ed etnicamente affini in Niger,
Ciad e Camerun. Per certi versi lo Stato islamico può essere considerato
come una specie di avatar delle petromonarchie del Golfo poiché ha come
fondamento ideologico il wahhabismo, propagato con la violenza, e si
appoggia alle risorse petrolifere conquistate in Iraq e Siria, per
assicurarsi fonti di finanziamento e accrescere la propria influenza. E’
noto inoltre come i libri di Abd al-Wahhāb, fondatore della dottrina
wahhabita, siano distribuiti in Iraq ed in Siria proprio dall’IS. Esiste
dunque un forte legame ideologico e di solidarietà materiale fra il
regime saudita e l’organizzazione jihadista. E’ necessario tuttavia
prendere in considerazione anche le profonde mutazioni che ha assunto il
wahhabismo nella sua trasposizione in un contesto diverso rispetto a
quello della penisola arabica. La sua trasformazione cioè da ideologia
di riferimento di un movimento conservatore e legittimista a base
dottrinale in un movimento “rivoluzionario”. Ed è proprio questa
trasformazione (che pone in imbarazzo gli stessi sauditi sempre più in
difficoltà nel giustificare i propri legami economici e politici con gli
Stati Uniti) che sta alla base della comprensione del fenomeno dello
Stato Islamico. Questa forma di salafismo-jihadista emerge con la guerra
in Afghanistan ed ha fin qui prodotto tre generazioni di combattenti.
La prima generazione è stata quella che ha fondato il movimento,
conferendogli un carattere globale nel contesto della “guerra di
liberazione” afghana degli anni Ottanta del secolo scorso. Il suo
principale teorico era lo sceicco palestinese Abd Allāh Yūsuf al-’Azzām.
La seconda generazione è quella che ha dato origine ad al-Qāʿida, il
movimento di Osama bin Laden e di al-Ẓawāhirī. Anch’essa ha origine
nell’esperienza dell’Afghanistan, declinata però in contesti nuovi
(Egitto, Bosnia, Algeria, Cecenia). Si può dire che l’impronta
ideologica di questa seconda generazione di combattenti sia stata quella
di dare alla guerra santa una dimensione globale, individuando negli
Usa il proprio principale nemico.
La terza generazione è invece quella
di Abou Moussab al-Zarqaoui e di Abou Moussab al-Souri che hanno, seppur
in modo diverso, sottoposto a critica gli obiettivi e il modus operandi
dei predecessori teorizzando un jihad “locale” che si concentrasse
prioritariamente sulle zone liberate da usare come base per una
espansione futura. Con al-Zarqaoui si procede quindi ad una
“irachenizzazione” di al-Qāʿida.
Lo Stato Islamico si radica nelle
riflessioni di questa terza generazione jihadista. Letta in questa
prospettiva la guerra in Afghanistan, lungi dall’essere l’ultimo
conflitto per procura combattuto dalle due superpotenze del Novecento
nel contesto della Guerra Fredda, diviene piuttosto l’incubatrice degli
accadimenti che si dipanano dal primo attentato al World Trade Center
del 1994 fino alla proclamazione del califfato nel 2014. Vale allora la
pena ricordare, seppure brevemente, quanto ebbe a sostenere il
consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Zbigniew
Brzezinski, in merito al sostegno fornito da Washington ai mujāhidīn
afghani, all’epoca considerati dall’occidente combattenti per la
libertà: Cos’è più importante? I talebani o il crollo dell’impero
sovietico? Qualche musulmano riottoso o la liberazione dell’Europa
centrale e la fine della Guerra Fredda?
Queste riflessioni ci riportano a prendere in considerazione nel
dettaglio il luogo dove l’idea stessa di Stato Islamico è nata: la
fascia sunnita dell’Iraq. Avendo ben chiaro, però, che prima
dell’intervento statunitense del 2003 in questo paese non esisteva
ancora una branca di al-Qāʿida, e che essa è nata solo nel 2004,
approfittando del clima di caos politico generato dalla caduta di Saddam
Hussein e dopo la fuga dei principali capi jihadisti dall’Afghanistan.
Le radici dello Stato Islamico risalgono dunque all’arrivo in Iraq di
al-Zarqaoui e all’inizio delle operazioni del suo gruppo, Jama’at
al-Tawhid wal-Jihad, affiliatosi al network di al-Qāʿida nel 2004 e
rinominatosi al-Qāʿida in Iraq. E’ sempre qui che avviene la mutazione
di al-Qāʿida in Iraq in Isi (poi Isis nel 2013 e Is nel 2014), dopo la
morte nel giugno del 2006 dello stesso al-Zarqaoui (ormai “dissidente”
da al-Qāʿida stessa) e la fusione nell’ottobre dello stesso con una
federazione di gruppi jihadisti locali, la Maglia Shura al-Mujahidin fi
al-Iraq. Ed è sempre nel teatro iracheno che l’odierno IS matura il
nuovo pensiero strategico (la fondazione di uno Stato) e anche una
tattica politica volta a cercare appoggi in fazioni e gruppi
ideologicamente molto lontani dallo jihadismo. L’organizzazione si
struttura in un territorio dove hanno trovato rifugio molti orfani di
Saddam Hussein, un’area dove da anni cova il risentimento per
l’invasione americana e dove la repressione sciita nei confronti della
minoranza sunnita era più marcata. Ed è proprio tra ex ufficiali della
Guardia Repubblicana, come l’ex colonnello al-Turkmānī, o alti ufficiali
dei servizi segreti, come Abdul Hadi al Iraqi, o generali dell’Esercito
come Abū ʿAlī al–Anbārī, tutti radicalizzati in carcere, che lo Stato
Islamico recluta i suoi leader più abili.
Tra la fine del 2006-2007
l’organizzazione aveva subito battute di arresto critiche quando le
milizie tribali arabo-sunnite del Movimento del risveglio (Sahwa) le si
erano rivoltate contro, mentre il gruppo dei volontari stranieri e il
denaro iniziavano a scarseggiare. Le cellule jihadiste subirono così un
processo di disintegrazione producendo criminali locali dediti a
rapimenti ed estorsioni utili a pagare i salari degli affiliati più che a
finanziare l’insurrezione. In uno studio su al-Qāʿida in Iraq del
dicembre del 2013 Michael Knights spiegava: a partire dalla metà del 2010 l’Isi era “un morto che cammina”.
Il cambiamento avviene nell’estate del 2010 quando la leadership
dell’Isi passa nelle mani di Abu Bakr al-Baghdādī, un ex prigioniero del
carcere americano di Camp Bucca. Nell’aprile del 2011 si assiste ad un
rilancio dell’organizzazione che si garantisce un significativo spazio
operativo all’interno delle comunità arabo-sunnite con una serie di
clamorosi attacchi contro le carceri irachene. Il punto di svolta vero e
proprio però è la progressiva disintegrazione della Siria a partire
dall’inizio del 2012. Il paese, che per anni era stato solo una stazione
di passaggio per i foreign fighters diretti in Iraq, diventa prima il
rifugio sicuro dei jihadisti che operavano in Iraq, e poi la culla
dell’Isis. L’intuizione tattica alla base dei successi militari è la
fusione, in un unico campo di battaglia, delle aree sunnite di Iraq e
Siria. Proprio per questo il conflitto siriano ha costituito un
trampolino di lancio ideale per le ambizioni transnazionali
di al-Baghdādī e la sua ideologia “antimperialista”. Si trattava di un
occasione storica per abbattere la frontiera siro-irachena creata in
maniera artificiale dai francesi facendo leva sulla ribellione della
maggioranza sunnita in Siria e della minoranza sunnita in Iraq. Per i
salafiti infatti la Siria non esiste. Questo nome sarebbe come quello
dell’Iraq una fabbricazione degli atei e nel loro gergo ispirato al
corano l’Iraq si chiama Bilad al-rafidayn (terra dei due fiumi) mentre
la Siria sarebbe Bilad al-Sham (terra del Levante). Al-Baghdādī cominciò
con il creare una branca ufficiale di al-Qāʿida in Siria, che prese il
nome di Jabhat al-Nuṣra, dotandola di uomini, mezzi e armi. Abou
Mohammed al-Jolani, un quadro siriano dell’organizzazione, venne
incaricato di supervisionare e dirigere l’operazione.
Rapidamente
al-Nuṣra si impose come una forza disciplinata, ben equipaggiata e
influente nelle zone liberate dall’esercito siriano. Malgrado ciò i
rapporti tra al-Jolani e al-Baghdādī si deteriorano. Sebbene i due
leader condividessero l’obiettivo dell’instaurazione del califfato,
Jabhat al-Nuṣra adottava un atteggiamento più pragmatico
nell’applicazione della legge islamica allo scopo di non alienarsi il
sostegno della popolazione locale e degli altri gruppi ribelli siriani
con cui cooperava. Nell’aprile del 2013 al-Baghdādī annunciò la fusione
del suo movimento (Stato Islamico in Iraq) con al-Nuṣra, per dare vita
allo Stato Islamico in Iraq e Sham (ISIS). I partigiani di al-Jolani non
gradirono però l’operazione e rinnovarono la propria fedeltà ad
al-Qāʿida, il cui capo, al-Ẓawāhirī, nel giugno del 2013 decise che le
due organizzazioni dovessero rimanere distinte, seppure in un rapporto
di reciproca collaborazione. Questa presa di posizione indusse
al-Baghdādī a ripudiare la propria organizzazione promuovendo una
scissione: i partigiani di al-Jolani mantennero il nome di Jabhat
al-Nuṣra mentre quelli di al-Baghdādī utilizzarono la nuova
denominazione di Stato Islamico in Iraq e Sham, il cui portavoce in
Siria divenne Abu ali al-Anbari. A partire da questo momento l’Isis
conobbe un rafforzamento progressivo che lo portò dalla precedente
politica di alleanza con altre forze ribelli ad una progressiva
autosufficienza. La disciplina dei suoi miliziani, la competenza tecnica
dei suoi quadri, la coerenza ideologica e il buon equipaggiamento delle
truppe provocarono due tipi di reazione negli altri gruppi “ribelli”
siriani: alcuni rimasero soggiogati dal suo prestigio e confluirono
nella nuova organizzazione, spinti anche dall’impotenza dimostrata dal
FSA, altri allarmati dalla sua forza iniziarono a combatterlo. Si tratta
in particolare delle brigate islamiste e salafite del Fronte Islamico,
create nel novembre del 2013, di alcune brigate nazionaliste o islamico
nazionaliste e del Fronte Rivoluzionario Siriano.
Nel gennaio del 2014 il movimento di al-Baghdādī riuscì ad assumere
il pieno controllo di Raqqa, cacciando i miliziani di al-Nuṣra che
l’avevano “liberata” il 6 marzo del 2013 ed eleggendola a “capitale” del
Califfato. Si tratta di una città di poco più di 200 mila abitanti che
ha però una storia densa di significato per i musulmani poiché per 13
anni, dal 796 al 809, fu la capitale del Califfato di Harun al-Rashid.
Il 10 giugno, dopo una folgorante offensiva durata pochi giorni,
al-Baghdādī condusse le sue truppe ad occupare la citta irachena di
Mosul, la seconda citta del paese con oltre 2 milioni di abitanti, da
dove il 29 giugno annunciò al mondo la nascita del Califfato. Un abbozzo
di Stato che ora occupa un’area più vasta della Gran Bretagna abitata
da circa 10 milioni di persone e che si è formato nel suo territorio di
elezione, lo spazio tribale sunnita a cavallo della linea Sykes-Picot,
fra l’Iraq occidentale e la Siria orientale.
Appare chiaro dunque come
lo Stato islamico sia figlio delle guerre imperialiste e delle avventure
neocoloniali. La combinazione letale, ma efficace, di estremismo
religioso ed esperienza militare è frutto innanzitutto della
destabilizzazione dell’Iraq, iniziata nel 2003 con l’invasione degli
Stati Uniti, e poi del confronto bellico scoppiato in Siria nel 2011.
Appare altrettanto evidente come siano stati gli Usa e l’Unione Europa,
insieme ai loro alleati turchi, sauditi, qatarioti, kuwaitiani e degli
Emirati Arabi ad aver creato le condizioni per la nascita dell’Isis. Le
guerre irregolari o la guerriglia sono sempre profondamente politiche, e
i conflitti scoppiati con la “guerra al terrore” lo sono in modo
particolare. Questo non significa che ciò che accade sul campo di
battaglia sia insignificante, ma che dev’essere opportunamente e
politicamente contestualizzato. Altrimenti non si spiegherebbe come
nella presa di Mosul 1300 miliziani jihadisti siano riusciti in soli
quattro giorni a sbaragliare un contingente avversario che poteva
contare, almeno sulla carta, su oltre 60.000 effettivi ben equipaggiati.
Il nodo della questione era che per la maggioranza degli abitanti di
Mosul i combattenti dell’Isis, per quanto brutali, erano comunque
preferibili alle forze di al-Mālikī controllate dagli sciiti. Così se è
vero che nella situazione attuale è facile immaginare che gli attacchi
aerei avranno un’efficacia relativa, dato che l’IS agisce come un
esercito di guerriglia e non vi sono movimenti di truppe o di materiali
facilmente individuabili e bombardabili dall’alto, mentre i suoi
dirigenti sono abituati a nascondersi. E’ ancor più vero che annientare
l’impianto militare dello Stato Islamico senza sanare davvero e in tutti
i suoi aspetti la grande ferita dell’Iraq porterà inevitabilmente l’IS a
reincarnarsi in un nuovo e più sofisticato “mostro provvidenziale” da
utilizzare come pretesto per ulteriori operazioni militari.
La “territorializzazione” del jihad risponde però anche ad altre
esigenze oltre a quella ideologica, su tutte la legittimazione sociale e
le necessità logistica-finanziarie. Secondo il capo del consiglio
provinciale di quell’area lo Stato Islamico impadronendosi di Mosul, il
10 giugno 2014, avrebbe messo le mani su qualcosa come 400 o 500 milioni
di dollari custoditi nella banca centrale della città. Tuttavia le
risorse finanziarie derivanti dalle conquiste territoriali non spiegano
da sole la potenza finanziaria del movimento che secondo recenti stime
potrebbe contare su assets per 2 miliardi di dollari. Una parte
consistente del Pil dello Stato islamico deriva dal petrolio. Secondo
stime del governo USA, l’IS guadagna almeno 50 milioni di dollari al mese
dall’estrazione e vendita illegale di petrolio commercializzato a
prezzo di saldo: dai 35 ai 10 dollari al barile. Come vuole la legge del
mercato ogni scambio suppone un venditore e un compratore. Alla prima
figura corrisponde in questo caso il “terrorista islamico”. Alla
seconda, il consumatore globale, soprattutto occidentale. La strategia
di espansione di IS in Iraq e Siria non ha fatto altro che puntare al
controllo degli impianti petroliferi. L’ultimo pozzo siriano è stato
conquistato lo scorso luglio, i jihadisti controllano ora 253 pozzi
petroliferi di cui 161 ancora operativi. Secondo il comitato
parlamentare per l’energia di Baghdad l’IS estrae ogni giorno 30-40 mila
barili in Siria e 20 mila barili in Iraq. Secondo altre fonti la
produzione non arriverebbe invece ai 10 mila barili giornalieri, anche a
causa dell’intensificazione dei bombardamenti aerei. Comunque sia la
gestione dei pozzi richiede competenze specifiche e per ovviare ai
problemi tecnici i jihadisti hanno potuto contare sull’invio di
macchinari e personale esperto da parti degli Stati sostenitori. Oltre
alle donazioni da una miriade di controverse organizzazioni di carità,
il contrabbando di greggio e di prodotti raffinati resta dunque la
maggiore entrata su cui punta il califfo al-Baghdādī.
La strategia
dell’IS poggia anche sul controllo delle risorse naturali, cosa che gli
ha permesso di retribuire i propri miliziani e sostenere le popolazioni
amministrate attraverso la confisca, ad esempio, dei depositi di grano e
i mulini della Siria dell’est e nelle province di Ninive in Iraq. In
questo l’IS è riuscito la dove gli altri gruppi anti al-Asad hanno
fallito: i forni, le fabbriche, i mulini e i silos sono stati rimessi in
grado di funzionare e i loro prodotti sono stati offerti a prezzi
calmierati alle popolazioni povere. Fintanto che la sua condizione
finanziaria glielo permette l’IS può così praticare una politica sociale
attiva ottenendo in cambio l’accettazione delle sue politiche
draconiane in materia di costumi e ordine pubblico. L’auto sufficienza
in termini di risorse finanziarie, umane, energetiche o alimentari ha
anche permesso di avviare un’amministrazione efficace sui territori
controllati. Come descrive Emanuela C. Del Re in un recente numero della
rivista Limes questo proto Stato ha ormai una “capitale”, globalmente
riconosciuta nella città siriana di Raqqa ed è stato suddiviso in
province, i wilāyāt, seguendo un concetto storico dell’islam. Al vertice
della macchina statale c’è il “califfo” , il “vicario di Dio” (khalīfat
rasūl Allāh), e immediatamente sotto di lui due vice provenienti dal
Consiglio della šūrā, l’organo più importante dello Stato Islamico.
Questi sono responsabili dei wilāyāt iracheni e di quelli siriani. Il
vice di al-Baghdādī in Siria è Abu ali al-Anbari, mentre in Iraq questo
ruolo era ricoperto fino all’agosto scorso, quando è rimasto ucciso in
un attacco di droni, da Abū Muslim al-Turkmānī. L’apparato statale fa
perno su otto consigli: il “Consiglio della sharīʿa”, che ha natura
teologica e amministra la giustizia; il “Consiglio della šūrā”, che
definisce le politiche statali; il dipartimento delle finanze; l’Ahl
al-Hall wa’l-Aqd (coloro che sciolgono e legano), con finalità
legislative; il consiglio militare, il consiglio di sicurezza, il
consiglio dei media e l’organizzazione amministrativa vera e propria.
Tale organizzazione come abbiamo visto sopra fa perno sui wilāyāt
affidati ad un “governatore”, il Wālī, i cui immediati sottoposti sono
gli emiri che controllano le zone in cui è divisa la provincia. La
macchina burocratica può contare su circa un migliaio di quadri
intermedi, forniti di esperienza militare o di polizia, per amministrare
territori in cui vivono milioni di persone. La formazione di questo
migliaio di quadri sta a testimoniare l’ambizione dello Stato Islamico
di far durare a lungo la propria amministrazione. Il Califfato ha
portato avanti, fin da subito, una strategia di omogeneizzazione dei
territori controllati che ha visto nella distruzione dei santuari, delle
moschee sciite e nella furia iconoclasta il suo tratto più
“spettacolare”, ma che si è concretizzata per i cristiani dei Mosul
nella proposta di accettazione dello status di dhimmi (status di suddito
non musulmano), in quella di conversione all’Islam oppure nell’esilio.
Lo Stato Islamico promuove inoltre la hijra (emigrazione) attraverso
l’esaltazione della figura del mujāhidīn muhāǧir (combattente migrante) e
l’insediamento di veri e propri coloni stranieri per sostituire quelle
popolazioni locali poco disposte ad accettare le leggi draconiane
imposte dai jihadisti. Di fatto si tratta di un’importazione di
sostenitori che soddisfano determinati criteri ideologico-religiosi per
schiacciare le forme del dissenso, un tratto che nemmeno troppo
paradossalmente evoca il sionismo. Un aiuto propagandistico in questo
senso lo hanno indubbiamente fornito le conquiste territoriali ottenute
dall’IS che gli hanno procurato un grande prestigio verso i jihadisti
del Medio oriente e più in generale di tutti i paesi del mondo. In un
rapporto del giugno dello scorso anno si stima che attualmente ci siano
elementi di 81 paesi differenti, fra cui molti paesi occidentali. Un
fenomeno inedito per la sua ampiezza. Intervistato dal Sole 24 Ore
Gilles de Kerchove, coordinatore europeo dell’antiterrorismo, ha
recentemente dichiarato: Stimo che i cittadini europei che stiano
combattendo o abbiano combattuto in Siria siano circa 5 mila.
Ipotizziamo che il 5-10% di loro sia molto violento. Il numero è
enorme.
Fonte
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