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27/12/2015

Che cosa non può fare, nel capitalismo, l’agricoltura contadina. Una riflessione

Perché questo articolo? – si chiederanno in molti – Non potreste semplicemente supportare quello che c’è senza rompere tanto le scatole?

Giuste osservazioni, vediamo di “entrare nel merito”.

Come figli di ex mezzadri, appassionati di ciclismo e quindi di scampagnate, contadini, operai o attenti consumatori di cibo bio (quando possibile) e così via, siamo molto sensibili al tema dell’agricoltura e dell’alimentazione, poiché mangiare la merda non ci piace. Appena possiamo, proviamo a “fuggire in campagna” come al mare o in montagna, perchè pensiamo che il rapporto con la natura e le altre specie sia cosa fondamentale. Ma ci chiediamo anche: perchè è così difficile trovare il tempo, il denaro e lo spazio per fare ciò?
Questo ci sembra il punto della questione, soprattutto in seguito alla scoperta della bella esperienza di Mondeggi, fattoria a gestione collettiva, e alla discussione con diversi dei suoi occupanti, animatori e simpatizzanti; confronto da noi stimolato anche attraverso la pubblicazione di articoli scritti dagli stessi, come di altro tipo.

Pensiamo infatti che, in un mondo in cui domina il rapporto sociale capitalistico con solo alcune zone che vedono la presenza di residui di altri tipi di rapporti sociali, il principale problema stia in un malefico connubio: avere un po’ di denaro da spendere per mantenersi, grazie all’affitto di una sempre maggiore (ahimè) quantità del nostro tempo, oppure provare a vivacchiare nel tempo a nostra disposizione, ma non potendo far fronte a spese e quindi in assenza di denaro. Se ci mettiamo che questa non è solo una realtà, ma un triste fatto globale e uniamo il tutto con la tendenza mondiale alla concentrazione della popolazione nelle città (nel 2017 il 70% delle persone vivrà in questi spazi) otteniamo un risultato poco incoraggiante rispetto al poter dedicare attenzioni al proprio orto.

Leggendo l’interessante opuscolo distribuito dai compagni di Mondeggi, efficace per documentazione, sintesi e uso dei dati (utili per far comprendere la putrescenza della società “modello Expo” in cui viviamo) troviamo due passaggi che ci sembra siano un altro nocciolo di una questione che, per vari motivi, non siamo mai riusciti a sviscerare qui come di persona. Il senso di questo articolo va anche in questa direzione, “sperando” che attraverso questo mezzo si possano trovare strategie comuni di lotta e comunicazione, come sempre auspicato in primis dagli stessi compagni di Mondeggi, tra i pochi a sottolineare di questi tempi la necessità di una convergenza concreta delle lotte, non solo a parole.

Se, infatti, sulla drammatica situazione globale a livello di devastazione ambientale e aumento delle temperature siamo ovviamente d’accordo, i punti riguardanti la pars costruens ci vedono in disaccordo, vediamo perchè.

L’uso di fonti energetiche rinnovabili, se pensiamo al boom dei pannelli solari in Italia o alla crisi di sovrapproduzione di quelli “made in Cina”, è sicuramente auspicabile ma, prescindendo da un superamento del capitalismo a livello totale, quindi produzione, circolazione, distribuzione, consumo e ri-uso, abbiamo sempre come attori protagonisti i grandi proprietari, che oltre alla natura pensano bene di rifarsela con chi materialmente produce quei pannelli.

La produzione locale del cibo e il suo consumo, sono allo stesso modo subordinati alle medesime leggi, in quanto o si ha il tempo e lo spazio di produrre per sè come per altri, ma allora ci si affida al mercato per la vendita e in genere molto spesso si va tra le braccia delle Coop (che ricattano i piccoli come i medi produttori) ; oppure, se non si ha tempo e spazio per l’autoproduzione, oggi se va bene ci si affida ad un Gruppo di Acquisto, sennò si compra il “bio” (il cui mercato ha un suo giro d’affari poco solidal) altrimenti si va al Lidl, spendendo il giusto per mangiare la merda. E’, ancora una volta, un problema che riguarda tutte le sfaccettature del ciclo, produci – consuma crepa, non una soltanto delle sfere citate.

L’agroindustria, come l’industria in senso stretto, e su questo hanno pienamente ragione i compagni di Mondeggi, è tale perchè prodotto sociale capitalistico. “Drogato” dalla sua cocaina, il petrolio, il capitale è riuscito ad espandere la produzione in modo impensabile, diffondendo col commercio i suoi prodotti (per la merce oppio in Cina, ricorrendo anche alla guerra) affamando da una parte per ingozzare dall’altra. Da qui lo squilibrio emerso in questi mesi nei vari dibattiti inutili di Expo, dove si ricorda come 1 miliardo e passa di persone nel mondo sia affetto da obesità, mentre 3 miliardi fanno la fame. I “costi” nel tempo sono, come ricordano i compagni, l’uso del tempo sociale dei lavoratori piegato per il profitto dei produttori, i rendimenti decrescenti dei terreni e l’inquinamento che oggi si palesano davanti a noi. Ma il problema sta, indipendentemente da dove la si produce, nella produzione di merce, che diventa tale non appena arriva al mercato…

La ripartizione del cibo e le filiere del commercio, hanno a loro modo uno squilibrio analogo, perchè se è vero che il 70% del cibo grazie al 30% dello spazio agricolo viene prodotto attraverso l’agricoltura contadina, mentre l’agroindustria occupa il 70% e dello spazio e il 30% della produzione con costi enormi, qui bisogna aggiungere che i prodotti dei contadini (come in India accade tutt’ora, per es) sono venduti attraverso la grande distribuzione, che come la Coop qui in Toscana e non solo, seleziona in maniera centralizzata e affama i piccoli produttori rubandogli tempo, essendo proprietaria o comproprietaria dello spazio in cui lavorano. Anche per questi contadini, come per tutti i lavoratori, chi è proprietario del loro tempo (o glielo affitta) come dello spazio, determina la loro miseria sociale. E lo stesso avviene nel caso in cui i contadini sono proprietari del loro pezzo di terra, poiché devono vedersela col mercato… Torna, ancora una volta, la dimensione globale del problema, che non prevede via di fuga in isole felici. Con la merce non si sfamano le persone.

Per concludere e due parole sui rifiuti: sicuramente tutti questi problemi, e non certo da oggi, sono ingigantiti dall’asservimento reale e totale di ogni cosa al capitale, quindi all’1% ma, in definitiva, alla globalità delle nostre relazioni mediate dal denaro e incentrate sul profitto. Prendiamo le macchine e la tecnologia: libererebbero un sacco di tempo e aumentano la produzione, ne basterebbe pure il giusto, ma con i vigenti rapporti di proprietà vengono utilizzati dall’1% contro di noi. Si tratta dunque di rifiutarli? No, serve puntare il dito contro i nostri aguzzini, avendo nel mentre un piano per il futuro, saldamente incentrato, però, sull’indispensabile superamento del capitalismo, per i motivi espressi prima. Altrimenti prescindiamo dalla realtà che vogliamo plasmare. Come fare a superarlo e come organizzarsi nello scontro non può, invece, essere affrontato qui, un po’ per assenza di spazio e un po’ perchè non è questione che dipenda interamente da noi, a livello soggettivo, restando legata al movimento reale e sociale, nel mondo. Il piano, dicevamo, passa anche dal problema rifiuti, perchè si può differenziare, ri-utilizzare pure ogni cosa, ma è sfruttamento “rinnovabile”: anche quello è tempo di lavoro non pagato e se ogni giorno ci trovassimo un camion pieno di rifiuti da riciclare, non avremmo risolto comunque né il problema consumo, né quello di chi quei prodotti li ha lavorati nel suo tempo di lavoro per il profitto altrui, né quello dell’ambiente (vedi gli inceneritori). Tutto questo ci ricorda come, d’altra parte, non esiste, ad oggi, alcuna sovranità, alimentare o di altro tipo: a meno che non si intenda quella appena esposta, che è quella del capitale come prassi.

Produrre il cibo localmente e secondo le stagioni è un nostro sicuro auspicio, fare a meno di un’industria 4.0 come di quella 1.0 presente oggi in Asia, che producono il 40% dei rifiuti nel mondo, è sicuramente auspicabile però, se non affrontiamo il problema nella sua interezza, ci ritroveremo magari un orto ben curato, se ne avremo la possibilità, ma dovendolo curare nel nostro tempo “libero”, mentre intanto ci tocca continuare a lavorare… se troviamo un lavoro… Quindi che fare? Come mangiare nella società futura? Beh, revolution loading… e, se riusciremo a vincere questo scontro epocale, potremo in tutti i modi trovare la necessaria sintesi tra “diritto alla città” e quello alla campagna, lavorando 1 ora massimo al giorno o 5-6 alla settimana e passando, perchè no, un po’ del nostro tempo effettivamente liberato nei nostri orti sociali autogestiti gestendoli con un’app.

Sarà una lotta di classe mondiale, e non di “popolo”, che ci “seppellirà”?

Jep Gambardella

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