di Michele Giorgio – Il Manifesto
Minacciano di
nuovo il pugno di ferro i ministri del governo Netanyahu contro il
«terrore ebraico» che colpisce i palestinesi. Persino Naftali Bennett,
leader di “Casa ebraica”, il partito dei coloni israeliani, è sceso in
campo invocando l’uso della forza contro gli estremisti ebrei. «Abbiamo
di fronte un terrorismo condotto da persone che nemmeno riconoscono lo
Stato di Israele, che vogliono innescare un conflitto apocalittico», ha
tuonato.
Sino ad oggi però si sono visti ben pochi fatti oltre alle parole. I
quattro sospettati dell’assassinio di Ali Dawabsha, 18 mesi, e dei suoi
genitori la scorsa estate a Kfar Douma, restano detenuti ma non sono
ancora stati rinviati a giudizio. E lunedì notte altri
estremisti israeliani, con ogni probabilità coloni, hanno rischiato di
provocare una nuova strage di civili innocenti lanciando candelotti
lacrimogeni dentro una casa del villaggio palestinese di Beitilu, vicino
Ramallah, in Cisgiordania.
All’interno dell’abitazione c’era Hussein Najjar assieme alla moglie e
al figlioletto Karam, di nove mesi. Si sono salvati per miracolo. L’attacco è avvenuto verso le 3 di mattina, quando la famiglia Najjar era immersa nel sonno.
«Siamo riusciti a metterci in salvo grazie all’intervento dei vicini
che hanno spaccato i vetri dell’abitazione lasciando uscire il gas.
Siamo stati fortunati», ha raccontato Hussein Najjar ai giornalisti. Suo
figlio Karam ha rischiato di rimanere soffocato.
La stessa polizia israeliana ha definito l’attacco un
«crimine nazionalistico ebraico». D’altronde gli attentatori hanno
lasciato la loro firma, inequivocabile. Su un muro esterno è stata
trovata una scritta in ebraico, “Vendetta. Saluti dai Prigionieri di
Sion”, in evidente riferimento ai loro compagni detenuti perché
coinvolti nell’attacco omicida a Kfar Duma in cui morirono Saad e Reham
Dawabsha e il piccolo Ali. Il bimbo bruciò vivo nelle fiamme che
avvolsero in pochi attimi la sua abitazione dopo il lancio di almeno due
bottiglie incendiarie. I genitori morirono nelle settimane successive a
causa di ustioni gravissime. Della famiglia sterminata resta in vita
solo l’altro figlio, Ahmad, 4 anni, che porterà per tutta la vita su
gran parte del corpo i segni lasciati dal fuoco.
A distanza di cinque mesi da quel rogo, il ministro della
difesa Moshe Yaalon e quello della sicurezza interna Gilad Erdan,
continuano a sostenere la tesi della mancanza di prove schiaccianti nei
confronti di quattro giovani estremisti di destra. Confermano così
l’ambiguità del governo Netanyahu: implacabile nei confronti
dell’Intifada palestinese, morbido verso i coloni. Negli ultimi
giorni i gruppi di estrema destra sono stati protagonisti di
dimostrazioni violente anche a Gerusalemme e hanno persino cercato di
dare l’assalto alla casa di Yoram Cohen, il capo dello Shin Bet, il
servizio di sicurezza interno, che accusano di aver abusato dei quattro
sospettati di Kfar Douma, tutti in possesso della doppia cittadinanza.
Itamar Ben-Gvir, l’avvocato della destra radicale, ieri ha denunciato
presunte molestie e violenze sessuali a danno dei quattro sospettati
durante gli interrogatori. Sostiene inoltre che le confessioni
fatte dai quattro estremisti detenuti sarebbero state estorte con la
forza durante gli interrogatori. «Mi vergogno dello Stato di
Israele che accetta il comportamento degli agenti di sicurezza», ha
commentato l’avvocato durante una conferenza stampa. Da anni i
palestinesi denunciano gli stessi abusi ma Ben Gvir non ha mai aperto
bocca per difendere i loro diritti violati.
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