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25/12/2015

Perché ci odiano? Culture neocoloniali e deindustrializzazione nel ventre molle dell’Europa

Dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre da più parti ci si è chiesti: perché ci odiano? Questa volta le risposte, almeno quelle presenti nell’informazione generalista – che però è quella che forma l’opinione pubblica e di conseguenza le risposte politiche che a loro volta formano l’opinione pubblica in un loop senza fine – hanno tentato la carta psicologica. I terroristi altro non sarebbero che “scarti sociali” con “un livello medio-basso di cultura, una famiglia molto solida ed unita alle spalle e la pericolosa tendenza al fanatismo religioso. In tutti i terroristi si è sempre osservato che più si chiudevano ed isolavano rispetto alla società più diminuiva il loro senso di realtà, alimentando così dichiarazioni sempre più farneticanti da rendere quindi ogni loro “delirio” come giusto e possibile. In tutti i terroristi si è anche sempre osservato che la molla che li ha spinti ad agire è sempre l’odio” (qui). La scelta terrorista sarebbe la conseguenza di un’esistenza alienata e marginale che trova nell’idea forte del radicalismo islamico una prospettiva altrimenti impossibile e con internet lo strumento di relazione della propria patologia. Di tutte le risposte che i policy makers occidentali potevano escogitare questa è davvero la più incredibile. Non che ci credano essi stessi (se il capitalismo fosse così stupido sarebbe seppellito da un pezzo tra le bizzarrie della storia), ma essendo la più veicolata diviene quella socialmente più accettata, dando vita ad un processo di de-responsabilizzazione complessivo delle società occidentali. Corollario alla risposta psicologica è la richiesta di una “psicologia dell’antiterrorismo”, che miri a prevenire psichiatricamente la patologia del terrorista. Purtroppo, a queste cose l’opinione pubblica ci crede davvero.

Per quanto ci riguarda, da tempo immemore andiamo dicendo che l’attuale disordine mediorientale è il frutto del tentativo di ordinare alcune regioni del mondo ancora escluse dalla messa a profitto liberista; che il “terrorismo” è un fenomeno creato direttamente dalle politiche occidentali in Medioriente; che lo Stato islamico è tuttora armato, finanziato e coperto da precisi e individuati soggetti statuali occidentali coi propri referenti regionali. Nonostante la genesi oggettiva, va anche detto che esiste una massa di persone che al messaggio del radicalismo islamico crede in buona fede. Soprattutto, ci credono quelle migliaia di foreign fighters che dalle periferie europee decidono di andare a combattere in Medioriente. Se nella regione mediorientale la risposta alla domanda “perché ci odiano” si trova nell’interpretazione oggettiva di fatti storici secolari che hanno prodotto tale odio, nella metropoli europea va percorsa un’altra strada. Qui vogliamo dare solo due spunti interpretativi, o se vogliamo due esempi, che possano valere per un discorso generale in grado di rispondere alla domanda che agita l’incredulità del buon europeo.

Il 23 febbraio 2005 il governo francese, con l’assenso di tutte le maggiori forze politiche di centrodestra e centrosinistra, varava la legge n.158-2005 che riconosceva il ruolo positivo del colonialismo francese nelle terre d’Oltremare e in particolare in Africa del nord e Indocina. Questo l’articolo 1:
La Nation exprime sa reconnaissance aux femmes et aux hommes qui ont participé à l’oeuvre accomplie par la France dans les anciens départements français d’Algérie, au Maroc, en Tunisie et en Indochine ainsi que dans les territoires placés antérieurement sous la souveraineté française”.
Qui invece l’articolo 4, successivamente cassato dopo una lunga trafila parlamentare che ne aveva stabilito “l’inopportunità” perché sembrava rappresentare “un’ingerenza nella storia coloniale francese”:
Les programmes scolaires reconnaissent en particulier le rôle positif de la présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord et accordent à l’histoire et aux sacrifices des combattants de l’armée française issus de ces territoires la place éminente à laquelle ils ont droit” (qui).

Questa legge, tutt’ora in vigore, seguiva la proclamazione della “Giornata della riconoscenza nazionale” stabilita dal governo di Jacques Chirac e approvata da tutte le maggiori forze politiche di centrodestra e centrosinistra, giornata che vede la sua celebrazione il 25 settembre. A chi andava la “riconoscenza” della Quinta Repubblica francese? Agli Harkis, termine arabo che indicava i musulmani algerini collaborazionisti con la colonizzazione francese dell’Algeria durante la lunga guerra di liberazione del Fln. Ancora, il 14 aprile 2012, Nicolas Sarkozy riconobbe la responsabilità storica della Francia “nell’abbandono degli Harkis veterani ai tempi della guerra”, nel frattempo per ovvie ragioni sbarcati a milioni in Francia dopo la liberazione del paese arabo, molti dei quali in rapporti con l’Oas e in seguito strenui sostenitori del Front National di Le Pen (padre). Ancora oggi, per dire, sono 800.000 gli Harkis presenti in territorio francese. Nel 2006 un deputato socialista, Georges Freche, per aver definito i collaborazionisti arabi “subumani”, venne espulso dal partito.

Nel 2005 dunque, sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale e quarantatre anni dopo la Liberazione dell’Algeria, la Francia ribadiva la sua propensione coloniale, non solamente procedendo al riconoscimento pubblico dei collaborazionisti arabi (fomentando di fatto l’odio degli arabi francesi non assimilati alla cultura coloniale), ma sancendo per legge il ruolo positivo del proprio colonialismo come fattore di sviluppo e progresso per i territori sottomessi. Non sono le politiche occidentali del XIX secolo allora, né la spartizione coloniale dell’impero ottomano firmata Sykes-Picot nel 1916, a generare l’odio attuale delle masse arabe in Medioriente e in Europa, ma la costante rivendicazione della giustezza di quelle politiche ancora oggi, nonché la reiterata volontà di riprodurle su diversa scala e con strumenti più affinati. Le popolazioni arabe non rimangono vittime della propria autocommiserazione storica incapace di farle evolvere autonomamente, ma è il capitalismo occidentale, incapace di pensarsi fuori dalle dinamiche colonialiste e imperialiste, a rigenerare un odio che è tutto politico e per niente psicologico, anche laddove trova forme di espressione apparentemente impolitiche o addirittura psicoanalizzabili. E’ la mancata rottura col mondo coloniale, la sempiterna rivendicazione della superiorità morale e culturale dell’Occidente, la reiterazione pedissequa di atteggiamenti e politiche, a generare l’odio. Non la Francia del secolo scorso, ma la continuità tra la Francia di allora e quella di oggi, continuità rivendicata pubblicamente per legge. Anche la perenne omogeneità politica riguardo alle posizioni sulla colonizzazione, che trova sempre compatti centrodestra e centrosinistra odierni così come lo erano l’Unr e il Pcf ai tempi, rende difficile – se non impossibile – operare una selezione e una scelta nella politica francese. Per l’arabo le divisioni della politica francese scompaiono quando si tratta di ristabilire il proprio primato su quello dei popoli colonizzati, inverando l’equazione “francese = colonizzatore” che dovrebbe essere biasimabile ma che è perfettamente comprensibile dal punto di vista arabo.

La dimensione culturale colonialista e assimilazionista degli Stati occidentali e di quello francese in particolare non è però l’unico motivo capace di generare odio, non un odio generico, ma l’attuale, cosciente e politico odio verso le politiche occidentali (politico, ribadiamo, anche quando assume forme non politiche, religiose, culturali, alienate). C’è un altro fattore, direttamente legato al processo di ghettizzazione economica che masse di nuovi diseredati stanno vivendo sulla propria pelle nell’Europa della crisi. Il Belgio, da questo punto di vista, fornisce l’esempio più eclatante. Il Belgio è lo Stato da cui partono, in proporzione alla sua popolazione, la maggior parte dei Foreign fighters di tutta Europa. Alcuni dei terroristi che hanno colpito Parigi la notte del 13 novembre provenivano da Bruxelles, in particolare da uno dei suoi quartieri periferici, Molenbeek. Perché? Nel quartiere risiedono 95mila persone; di queste, 65mila(!) risultano disoccupate o inattive. Il 70% della popolazione del quartiere della “capitale” dell’Unione europea nel ricco Belgio del ricchissimo nord Europa vive una condizione di povertà e assenza di prospettive senza precedenti. Il Belgio ha però uno strutturatissimo stato sociale, è il paese in cui le politiche a sostegno dei redditi risultano più avanzate, tanto da aver fatto parlare per anni di vero e proprio terreno di sperimentazione del reddito di cittadinanza. Conviene in questo senso riportare un ampio passaggio dall’ultimo numero di Limes, “La strategia della paura”:

Per provare a capire come mai il primo paese dell’Europa continentale a conoscere la rivoluzione industriale sia oggi il primo esportatore pro-capite di jihadisti – tanto da conquistarsi il soprannome di “Belgikistan” – è utile fare un passo indietro. Dopo le guerre mondiali l’industria ha attirato una cospicua immigrazione dall’Europa meridionale e dal Nordafrica, in particolare da Marocco e Algeria (oltre che dalla Turchia e dal Congo, ex colonia). Manodopera a basso costo per le miniere, le industrie e le fonderie del paese, tra cui quella di Molenbeek. A partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, la spinta economica e occupazionale del settore industriale è andata esaurendosi. Mentre Bruxelles si consolidava nel ruolo di capitale d’Europa, chi non fosse almeno bilingue, altamente qualificato o lottizzabile nella pubblica amministrazione è stato progressivamente espulso dal mercato del lavoro. Agli immigrati maghrebini che avevano lavorato alla costruzione di strade e metropolitane fu offerta la nazionalità belga e un posto nelle agenzie di trasporti, mentre i loro figli sono rimasti privi di occupazione e hanno iniziato a dipendere dai sussidi statali. A questi giovani figli di immigrati erano indirizzati i sermoni degli imam salafiti indottrinati dall’Arabia Saudita, inviati dal Belgio degli anni Settanta per ingraziarsi i favori (economici) di Riyad” (pag.284).
 
La conseguenza diretta della de-industrializzazione, l’assenza di politiche occupazionali e del lavoro sostituite da sostegni al reddito, lungi dall’aver generato forme di redistribuzione economica e integrazione sociale, hanno piuttosto creato spazi di marginalità sociale, culturale e politica che hanno prodotto dapprima ghetti del non-lavoro, poi assuefazione ad una vita priva di prospettive di riscatto, e infine la fascinazione al messaggio religioso, che quantomeno forniva a questi reietti dalla metropoli occidentale un’ancora di salvezza collettiva e una causa per cui lottare. Non è un caso che, sul Corriere della Sera di giovedì 24 dicembre, il leader del Movimento 5 Stelle Gianroberto Casaleggio dichiarava: “Il reddito di cittadinanza è il primo punto del nostro programma per le elezioni politiche, sono due anni che cerchiamo di farlo approvare, ma siamo ostacolati in ogni modo. E’ presente in tutti i paesi europei tranne che in Grecia e in Italia, la stessa Ue ne ha chiesto l’introduzione nel nostro paese”. In effetti viene colto nel segno un particolare non da poco: nonostante Casaleggio (e troppi altri epigoni anche di movimento) la presenti come norma rivoluzionaria, il “reddito di cittadinanza” (o come lo si voglia chiamare), non solo è presente in quasi tutti gli altri Stati europei, ma è richiesto dalla stessa Unione europea, perché nella ristrutturazione neoliberista le politiche del reddito sostituiscono le politiche del lavoro. O meglio, lo scambio avvenuto in questi anni è stato sempre dello stesso tenore: da un lato si disarticolavano scientemente le conquiste salariali e occupazionali degli anni Settanta mentre dall’altro si concedevano sostegni al reddito sempre più generalizzati. La somma di questo scambio non è però equivalente. Mentre il lavoro genera indipendenza, autonomia economica e quindi politica, inclusione e integrazione inverando i diritti connessi alla cittadinanza, il reddito garantito produce dipendenza dallo Stato assistenziale, limita le possibilità di politiche attive del lavoro, non intacca le diseguaglianze sociali, finendo per costruire quei ghetti fisici e sociali dall’impossibile emancipazione. Non è un caso allora che il Belgio è in proporzione il primo Stato europeo per combattenti stranieri presenti in Siria. E la risposta va trovata nello smantellamento delle politiche industriali e del lavoro, che insieme al fattore neocoloniale compongono una parte importante del mosaico delle ragioni della pervasività del messaggio religioso radicale tra migliaia di cittadini europei. Anche in questo caso, la risposta è politica, anche se prende la forma alienata del sacrificio religioso.

Questi due esempi, tra i molti che si potrebbero fare ma che forse colpiscono più di altri per la loro manifesta relazione tra l’odio e le sue cause oggettive, chiariscono come di tutto possa parlarsi tranne che di problema psicologico o confinato all’orizzonte religioso, ovviamente presente ma altrettanto evidentemente strumento d’espressione di un odio che ha un origine ben precisa. Sarà impossibile, per la sinistra, avere un ruolo in questa vicenda epocale se non intercetta le ragioni di un odio sacrosanto e che è, in ogni sua forma, genuinamente politico e come tale da trattare, liberandolo dal sostrato religioso che questo assume.

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