Altri due mesi di stato di emergenza: ieri il presidente tunisino
Essebsi ha esteso fino alla fine di febbraio lo stato di emergenza
imposto il 24 novembre. Quel giorno un attacco suicida uccise 12 guardie
presidenziali a Tunisi. L’Isis rivendicò l’attentato come aveva
rivendicato due precedenti massacri: l’uccisione di 38 persone in un
resort sulla spiaggia di Sousse ad ottobre e di 22 al museo del Bardo a
marzo.
Una catena di attacchi che aveva come chiaro obiettivo quello
di affossare l’accidentato percorso verso la democrazia intrapreso
dalla Tunisia post-rivoluzione. Di certo un risultato è stato
archiviato: gettare la Tunisia nel tunnel del terrorismo e quindi
ridurre lo spazio di libertà faticosamente raggiunto dal popolo
e dagli attivisti, pericolosamente richiuso dalle autorità con la
giustificazione della lotta al terrore. Lo stato di emergenza si
accompagna a pacchetti di leggi per garantire la sicurezza che nella
pratica si sono tradotti nella riduzione della libertà di espressione e
manifestazione.
Nei prossimi due mesi, quindi, saranno garantiti a presidente e forze
armate poteri speciali e la sospensione di diritti fondamentali. Ovvero
la situazione che ha caratterizzato l’ultimo anno: dispiegamento
di migliaia di poliziotti e soldati in tutte le città del paese; il via
alla costruzione di un muro al confine con la Libia; arresto di
migliaia di persone, interrogate per sospetti collegamenti con gruppi
terroristici; moschee chiuse e premi in denaro a chi fornisce informazioni in merito; riduzione della libertà di manifestazione.
La Tunisia vuole dare di sé un’immagine nuova, di paese liberato e libero, sulla spinta del Nobel per la Pace
vinto dal “Quartetto per il Dialogo” (il sindacato generale dei
lavoratori Ugtt, il sindacato patronale Utica, l’Ordine degli avvocati e
la Lega Tunisina per i Diritti Umani). Per farlo stringe la morsa sulla
popolazione per stringerla sul pericolo terrorista. Lunedì
un’ampia operazione ha portato all’arresto di una cellula basata a
Bizerte, a nord del paese, che reclutava future moglie per jihadisti
all’estero. L’ennesima dimostrazione del fiorente mercato che i gruppi
jihadisti trovano in Tunisia, il paese che esporta il maggior numero di
adepti a Isis e gruppi satellite.
La decisione di ieri del presidente Essebsi segue ad una crisi
politica che sta dividendo la Tunisia: lunedì il segretario uscente del
partito di maggioranza Nidaa Tunis, Mohsen Marzouj, ha annunciato la
spaccatura della fazione definendolo “clinicamente morto” e ha fondato
la nuova formazione al-Iraq (la volontà). Già a novembre 31 membri del
partito, vicini a Marzouk, si erano dimessi dal gruppo parlamentar di
riferimento.
Una divisione che potrebbe generare ulteriori tensioni nel paese:
Nidaa Tunis è il partito uscito vincitore dalle elezioni presidenziali e
parlamentari dello scorso anno, nonostante le molte divisioni interne.
Considerato l’alternativa agli islamisti di Ennahda, che hanno guidato
la Tunisia dopo la deposizione di Ben Alì, è però visto da molti come la
continuazione sotto altre spoglie del precedente regime: i suoi
principali esponenti sono ex membri della cricca di Ben Alì, come il
presidente Essebsi (ex presidente della Camera sotto il dittatore) e il
premier Essid (all’epoca funzionario del Ministero dell’Interno).
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