Quarto appuntamento con il nostro approfondimento, qui la prima, la seconda e la terza parte.
Peter Harling su “Le Monde Diplomatique” ha definito lo Stato
Islamico come un “mostro provvidenziale”. Un’entità che non vale tanto
per quello che è, ma per come viene percepita e usata dalle potenze
locali, regionali e globali. Una definizione particolarmente calzante in
un contesto mediorientale che registra, sotto il dominio di Obama, il
progressivo “disimpegno” degli Stati Uniti. Lungi dal pensarlo come una
minaccia strategica, la Casa Bianca ritiene infatti lo Stato Islamico un
soggetto utile ad attirare nella contesa le nazioni limitrofe, ed
indurle ad impantanarsi in una riedizione della “strategia del
contenimento” allargata a nuovi attori. Al di la delle dichiarazioni di
circostanza per Washington il califfato va contenuto, non eliminato. E’
innegabile infatti che l’IS sia stato adoperato, e venga ancora oggi
utilizzato, come uno strumento geopolitico: le monarchie arabe sunnite
lo utilizzano per fare una guerra per procura contro Teheran, gli
iraniani per consolidare il controllo di uno spazio geografico
ininterrotto che dal mare Arabico raggiunge il Mediterraneo (la
cosiddetta mezzaluna sciita) e i turchi per la loro “profondità
strategica” contro i curdi e per le loro mire egemoniche.
Un moderno “great game” caratterizzato dall’impossibilità per ogni
singolo contendente (o coalizione di forze) di prevalere in maniera
decisiva sui rivali, ma che sta divorando gli Stati postcoloniali del
Novecento. Nel gioco delle alleanze, fino allo scoppio delle rivolte
arabe in Medio Oriente, si era assistito essenzialmente alla lotta fra
il cosiddetto “asse della resistenza” guidato dall’Iran e un variegato
fronte costituito da Stati Uniti, da Israele e dai cosiddetti regimi
arabi “moderati”. Quest’ultimi rappresentavano essenzialmente uno
schieramento sunnita guidato dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Le
“primavere arabe”, unitamente alla nuova dottrina obamiana e all’accordo
con l’Iran sul nucleare, hanno però notevolmente complicato questo
quadro. L’asse della resistenza ha subito un ridimensionamento con la
spaccatura di Hamas. Il movimento islamico-palestinese si è schierato
dalla parte dei ribelli siriani, a maggioranza sunniti e sostenuti dai
Fratelli Musulmani, organizzazione di cui Hamas stesso è una
ramificazione. A causa di questo la leadership del gruppo ha lasciato
Damasco, dov’era ospitata dal 2001 e si è trasferita in Qatar.
Significativamente nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un
quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è
stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito
governativo del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Sarà forse utile a
questo punto ricapitolare in maniera sintetica le motivazioni delle
principali potenze regionali e internazionali, che, in misura diversa,
sono state risucchiate nel gorgo della crisi siriana.
Turchia
Nel 2011 il governo turco è stato fra i primi esecutivi a reagire alla
rivolta scoppiata in Siria, voltando le spalle a Bashar al-Asad, che fino a
quel punto era considerato un prezioso alleato, anzi un “fratellino”,
come Erdoğan amava definire il presidente siriano. Solo nel 2010 Ankara
aveva infatti presentato un progetto per la costruzione di un’area di
libero scambio che comprendesse, oltre alla Turchia, anche la Siria, la
Giordania, il Libano e l’Iraq. L’idea era quella di garantire, oltre a
quella delle merci, anche la libera circolazione dei rispettivi
cittadini, abolendo il regime dei visti sulla falsa riga del trattato
europeo di Shengen. Il progetto avrebbe dovuto rappresentare la
concretizzazione del concetto di Ottoman Nations Gathering
proposto dall’allora ministro degli esteri e attuale primo ministro
turco Ahmet Davutoğlu, una strategia nota anche come neo-ottomanesimo.
Il Şamgen, questo doveva essere il nome dell’area di libero scambio (da
Şam, toponimo turco di Damasco), venne però spazzato via dalle
“primavere arabe” in coincidenza delle quali Ankara aggiustò la propria
strategia mediorientale sostenendo l’ascesa dei fratelli musulmani. La
posizione assunta dalla Turchia durante la guerra del Golfo del 1991 e
l’invasione statunitense del 2003 avevano alienato al governo di Ankara
la possibilità di influire sull’evoluzione irachena, costringendola a
fare i conti con la nascita di un Kurdistan iracheno semi-indipendente.
Per queste ragioni il governo turco ha deciso fin da subito di adottare
nei confronti della Siria una strategia differente, accogliendo la
leadership dei Fratelli Musulmani, ospitando le conferenze del
“Consiglio nazionale Siriano” (Cns) e della “Coalizione dell’Opposizione
Siriana” (Cos) e permettendo ai vertici militari del “Esercito Siriano
Libero” (Fsa) di operare nel proprio territorio, fornendo loro sostegno
logistico ed economico. La resilienza del presidente al-Asad ed il colpo
di stato egiziano del 3 luglio 2013, hanno però fatto collassare anche
la seconda fase della strategia neo-ottomana della Turchia, volta a
favorire l’installazione di governi amici a Damasco e al Cairo. Secondo
l’ex ambasciatore turco a Baghdad, Murat Özçelik, il sostegno offerto da
Erdoğan allo Stato islamico e agli altri gruppi jihadisti fa parte di
una nuova fase di questa strategia volta a favorire l’implosione delle
entità statali di Siria e Iraq e ad integrare gli stati sunniti, che
dovrebbero sorgere a sud della Turchia, in una struttura federale
governata da un sistema presidenziale. La “politica dell’occhio chiuso”
adottata da Erdoğan nei confronti del Califfato vede dunque al-Baghdādī
soprattutto come un attore sunnita nel contesto del “Siraq” sciita,
piuttosto che un jihadista sanguinario. In questo momento la
Turchia sta quindi combattendo almeno tre battaglie: una del mondo
sunnita contro al-Asad e gli sciiti, un’altra per la leadership tra i
musulmani nel Levante e una, forse in questo momento la più importante,
per evitare la nascita di un proto stato curdo lungo i suoi confini con
la Siria. Per queste ragioni Ankara è stata più che compiacente nei
confronti del Califfato e per gli stessi motivi la Turchia vorrebbe
coinvolgere la Nato in un’operazione di terra nel nord della Siria,
rivolta formalmente contro lo Stato Islamico ma indirizzata
concretamente contro le milizie curdo-siriane dell’YPG e contro i
militanti del PKK.
Nel marzo scorso a Riyāḍ, durante un vertice tra Erdoğan ed il re
saudita Salman, è stato raggiunto un accordo per il sostegno congiunto
ad una coalizione di ribelli formata da al-Nuṣra, Aḥrār al-Shām e gruppi
minori. Stando a quanto riporta un articolo uscito il 13 aprile
sull’Huffington Post, in quell’occasione Turchia e Arabia Saudita
avrebbero raggiunto anche un’intesa per una possibile operazione
militare in Siria volta a rovesciare direttamente il regime di al-Asad.
Questa intesa prevedeva l’invasione di terra da parte dell’esercito
turco e la copertura aerea dell’aviazione saudita. Sempre secondo quanto
riportato dall’articolo l’emiro del Qatar, paese con cui Ankara ha da
poco stipulato un accordo militare che prevede la possibilità di
schierare truppe congiunte in paesi terzi, avrebbe discusso del piano
con Obama ottenendo un tacito assenso. Nei mesi seguenti, per diverse
ragioni, Ankara non diede seguito immediato a questa operazione
militare. In primo luogo perché l’accordo con Riyāḍ sul sostegno
congiunto ai “ribelli”, aveva già permesso di ribaltare, almeno in
parte, gli equilibri del conflitto, come dimostravano la conquista di
Idlib e Jisr ash-Shugur. C’erano poi da superare le resistenze
dell’esercito turco di fronte all’interventismo di Erdoğan. Ed infine
pesava l’approccio diverso di Turchia e Arabia Saudita rispetto
all’Iran. Ankara, infatti, coltiva l’ambizione di trasformare il proprio
paese in hub geoenergetico fondamentale per l’Europa attraverso lo
sviluppo del cosiddetto corridoio meridionale in cui, già dal 2019,
dovrebbe confluire il gas azero diretto nel vecchio continente e in cui,
sempre nei progetti di Ankara, dovrebbero confluire anche il gas
iraniano e turkmeno. Questo permetterebbe al paese, in un futuro non
troppo lontano, di rappresentare agli occhi degli europei un’importante
alternativa all’approvvigionamento russo. L’Iran rappresenta inoltre un
importante mercato di sbocco per le merci turche. Il volume delle
esportazioni ammonta attualmente a 10 miliardi di dollari e sarebbe
destinato a triplicarsi già entro il 2017. Nel medio periodo, secondo
analisti turchi, i volumi dell’interscambio potrebbero salire
addirittura a 90 miliardi di dollari. L’intervento diretto dei russi nel
settembre scorso ha però anticipato e disinnescato, probabilmente in
maniera definitiva, la realizzazione dei progetti di Ankara e Riyāḍ, e
questo spiegherebbe almeno in parte l’azzardo compiuto da Erdoğan con
l’abbattimento del bombardiere russo. Un tentativo (fallito) di
provocare una reazione militare da parte di Mosca, cosi da poter forzare
la mano ai propri alleati invocando l’articolo 5 del Patto Atlantico,
quello che prevede l’obbligo d’intervento al finco di un paese alleato
attaccato.
Recentemente il Sole 24 Ore ha dedicato due pagine ad un’illuminate
inchiesta sul ruolo svolto dalla Turchia e dal Qatar nel traffico di
armi a sostegno dei gruppi jihadisti. Il quotidiano della Confindustria,
a cui certamente non possono essere rimproverate simpatie
antimperialiste, ha reso note alcune delle conclusioni a cui è giunto il
“Gruppo di esperti” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ne viene fuori
un quadro interessante che vede nella Libia, nella Turchia e nel Qatar i
vertici di una triangolazione di armi diretta in Siria. Tra le
spedizioni dettagliatamente descritte nel rapporto Onu è particolarmente
significativa quella di alcuni C-17 partiti dalla Libia ed arrivati in
Turchia dopo aver fatto scalo in Qatar. Gli aerei da trasporto militare,
di proprietà del Qatar, sono infatti volati da Tripoli e Bengasi fino a
Doha usufruendo di uno speciale nullaosta diplomatico-militare che
solitamente viene utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento
bellico. Gli incaricati dell’Onu hanno chiesto chiarimenti e dettagli ai
Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa (Grecia, Egitto,
Arabia Saudita) ottenendo scarsissimi risultati. Ancora più reticente si
è dimostrata, però, la società responsabile dei piani di volo, la
Jeepsen. Un’azienda che, ad un più approfondito controllo, è risultata
essere molto vicina alla Cia, tanto da esserne stata indicata come
“l’agenzia di viaggio”. La Jeepsen infatti non è una società qualsiasi,
ma è un’ azienda controllata dalla Boeing, un colosso che deve il 30%
del suo fatturato al Pentagono, ed è anche l’agenzia che è stata
adoperata dalla Cia per la campagna di extraordinary rendition dopo gli
attentati dell’11 settembre 2001. Ovvero il rapimento al di fuori degli
Stati Uniti di persone sospettate di avere rapporti con al-Qāʿida e il
loro trasferimento in stati terzi, dove i “sospetti” venivano torturati
da agenti locali per conto dell’intelligence statunitense. Un’ulteriore
ragione di interesse è data però dall’aeroporto in cui i C-17 hanno
fatto scalo. Non si tratta di una pista qualsiasi, ma di quella della
base di Al Udeid, dove ha sede il “quartier generale avanzato” del
comando mediorientale delle Forze Armate statunitensi, il Central
Command, e che oltre a ospitare il 379° stormo dell’Usaf è sede anche
dell’83° stormo della Raf, l’aeronautica militare britannica. Insomma a
tutti gli effetti una base anglo-americana. Risulta davvero difficile
credere che i vertici militari occidentali potessero non essere al
corrente della natura del carico e della sua destinazione. Questo a
dimostrazione, ancora una volta, che tra il “bianco” della civiltà
moderna occidentale e il “nero” dell’oscurantismo jihadista esiste tutta
una gradazione di grigi in cui i confini tra il bene e il male
diventano meno netti. Ankara, dal canto suo, ha sempre negato di essere a
conoscenza dei trasferimenti di armi verso i ribelli anti al-Asad,
eppure lo scorso maggio il giornale turco Cumhuriyet ha rivelato, foto
comprese, che tir stipati di armi partivano dalla Turchia per rifornire i
ribelli turkmeni. Le immagini
scattate nel gennaio del 2014 documentavano l’intervento del Mit (i
servizi segreti turchi) per fermare una perquisizione della polizia alla
frontiera. Erdoğan aveva giurato al direttore di “fargliela pagare” e
così è stato. Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di
Cumhuriyet, Can Dündar, e il capo della redazione di Ankara, Erdem Gül,
sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul. A innescare
la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdoğan, il
quale ha prima promesso che i due avrebbero “pagato un duro prezzo” e
poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di
segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero davvero stati beni
umanitari, come ha provato a sostenere la Turchia, quelle accuse però
non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero
l’ergastolo. Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è
certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada del Jihad”, la
rotta che il Califfato di Abū Bakr al-Baghdādī ha usato per anni per
portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non
fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara. Come è difficile
credere che tutte queste iniziative turco-qatariote in Libia e Siria
siano passate inosservate agli statunitensi e agli altri paladini della
“guerra al terrorismo”.
Russia
Per certi versi anche l’intervento russo sembrerebbe confermare la
funzione di “mostro provvidenziale” svolta dello Stato islamico. Un
proto Stato da cui nessuno, tranne al-Asad, si sente realmente
minacciato, e contro il quale si possono dichiarare grandi coalizioni
salvo poi tollerarne e addirittura eccitarne le scorrerie quando
colpiscono interessi rivali. Nel cercare di analizzare il sostegno
diplomatico e militare dei russi nei confronti della Siria occorre però
tenere conto di quello che abbiamo già definito il “precedente libico”.
In quel caso l’astensione russa e cinese in sede Onu aveva permesso di
approvare una risoluzione che autorizzava l’uso della forza per imporre
una no-fly zone a “difesa dei civili”. L’intervento della Nato si era
però subito trasformato in un aperto sostegno ai ribelli libici,
finalizzato ad imporre un “regime change” che, almeno formalmente, non
rientrava negli scopi della missione e che, oltre a violare il diritto internazionale, rappresentò anche uno schiaffo diplomatico
che Mosca e Pechino difficilmente dimenticheranno. Oltre alla possibilità
che si potesse ripetere uno scenario libico ci sono pero almeno altri
due fattori che vanno considerati:
1) Dopo il tracollo delle relazioni con l’Egitto di Sadat e lo
smantellamento delle basi navali di Alessandria e Marsā Maṭrūḥ, la base
navale di Tartus, in Siria, rappresenta l’unico ed irrinunciabile punto
d’appoggio navale russo nel Mediterraneo. Nel gennaio del 2005 Vladimir
Putin ha cancellato il 75% del debito accumulato dalla Siria nei
confronti della Russia per spese militari, un segno più che tangibile
dell’importanza che il trattato di amicizia fra i due paesi, firmato nel
1980, riveste tuttora per Mosca.
2) Un paese come la Russia, che all’inizio del 2015 dipendeva ancora per
il 50% del proprio Pil dal settore idrocarburi, non può non avere un
piede in Medio Oriente, l’area che ospita il 40% delle riserve accertate
di petrolio ed il 41% di quelle di gas naturale. La stessa regione che
attraverso lo stretto di Hormuz e il Canale di Suez controlla la
movimentazione di una parte notevole delle risorse energetiche mondiali e
in cui viene influenzato, in misura decisiva, il mercato mondiale
dell’energia. Basti pensare all’impatto avuto dalla sovrapproduzione
saudita nella guerra del prezzo del petrolio, passato in un anno da 113 a
38 dollari al barile, e alle enormi ricadute che questo ha avuto sulle
economie dei paesi produttori.
Lo scorso settembre Putin ha così compiuto sullo scacchiere
mediorientale quello che qualcuno ha definito acutamente la mossa del
cavallo, cosa che gli ha permesso di uscire dall’arrocco ucraino, dove
l’Occidente sperava di averlo confinato con le sanzioni per l’annessione
della Crimea. Ordinando di schierare un robusto contingente militare
nel Nord-Ovest della Siria e rafforzando la storica presenza russa
imperniata sulla base di Tartus, Mosca ha dimostrato di saper sfruttare i
vuoti prodotti dalla strategia statunitense per segnalare agli stessi
Stati Uniti e al mondo che non è disposta a mollare al-Asad e che non è
possibile escluderla dai giochi in cui si determineranno i destini della
Siria ed i futuri assetti mediorientali. Come dimostra il recente
vertice di Antalya, Putin ha saputo volgere a proprio vantaggio un
problema che resta comunque irrisolto: la divisione dell’Occidente tra
Europa e Stati Uniti e anche dentro l’Unione Europea. Divisioni che non
riguardano solo l’uso della forza militare, ma anche la cosiddetta
soluzione politica. Ovvero l’atteggiamento da tenere nei confronti
dell’Arabia Saudita, della Turchia e dell’Iran per spingerli ad
attenuare il loro scontro per l’egemonia del Levante da cui la guerra
civile siriana è stata alimentata. Se l’occidente vorrà davvero allearsi
con Putin nella guerra contro l’IS il prezzo da pagare sarà salato. Lo
si è capito quando nelle settimane scorse il premier francese Manuel
Valls ha pubblicamene chiesto la revoca delle sanzioni internazionali
che dovrebbero essere rinnovate il prossimo 31 gennaio. E se ne è avuta
un’ulteriore riprova con l’annuncio da parte dell’ambasciatore iraniano a
Mosca dell’avvio delle procedure per la fornitura a Teheran dei sistemi da difesa aerea russi S-300. Il contratto era stato stipulato nel 2007 e
poi annullato nel 2010, a causa delle sanzioni internazionali che
impedivano all’Iran di acquistare questi sistemi militari. Appare
evidente che sul destino di Bashar al-Asad le divergenze delle
cancellerie occidentali con Mosca e Teheran siano difficilmente
aggirabili e vadano ben oltre la sorte del presidente siriano. Come
dimostra l’ambiguità della risoluzione approvata dal Consiglio di
Sicurezza dell’Onu lo scorso 19 dicembre.
La presenza aereonavale di Mosca ha però una pluralità di significati
che in questa sede non è possibile ignorare. Oltre a fornire appoggio
aereo alle operazioni di terra, l’intervento russo ha anticipato e nei
fatti ribaltato la possibilità avanzata dalle potenze regionali sunnite
(e appoggiata dagli Usa) di creare una no-fly zone. I cruise (Kalibr
SS-N-30) sparati a più riprese dalle acque del Mar Caspio, a 1500 km di
distanza, contro obiettivi in mano alle forze ribelli, sono stati
evidentemente un “parlare a nuora perché suocera intendesse”. Questi
missili, con gittata di 2500 km e capacità nucleare, rappresentano
infatti il fiore all’occhiello dell’arsenale russo, al pari delle
corvette Buyan da cui sono partiti. Attraversando i cieli iraniani e
iracheni, prima di giungere in Siria, queste salve di missili hanno
segnalato l’estensione dell’influenza russa anche al teatro iracheno.
Proprio a Baghdad i servizi militari di Mosca hanno costituito un centro
di coordinamento di intelligence con gli omologhi iracheni, iraniani e
siriani, formalmente ai fini della guerra all’IS. Mentre un secondo
comando, in base a fonti del Cremlino, potrebbe essere costituito a breve
in un altro paese della regione. Un riferimento non troppo velato
all’Egitto del generale al-Sisi che in una recente occasione ha espresso
chiaramente il sostegno all’operazione militare di Putin.
L’abbattimento del bombardiere russo da parte della contraerea turca non
ha fatto altro che accelerare il processo già in corso. Per tutta
risposta, secondo quanto riportato dal quotidiano kuwaitiano “Al-Rai”,
Mosca starebbe schierando truppe speciali lungo la frontiera siro-turca
allo scopo di sigillare i corridoi terrestri che attraverso i posti di
controllo di Aazaz e Bab al-Salamah consentono ai camion provenienti
dalla Turchia di portare in Siria armi, munizioni e rifornimenti ai
gruppi ribelli che si battono contro il governo di al-Asad.
L’intelligence russa avrebbe infatti individuato in questo passaggio una
delle più importanti rotte di consegna dei missili anti-tank “Tow”.
Altre truppe speciali russe starebbero invece per essere dislocate nei
pressi della base aerea di Al-Shayrat, segno, secondo il quotidiano
kuwaitiano, della volontà di rafforzare la presenza dell’aviazione russa
che al momento dispone di circa 75 aerei nella base di Hmeimim,
adiacente all’aeroporto di Latakia. La realizzazione di una nuova base
aerea a circa 25 chilometri da Homs sembrerebbe essere la premessa di
un’offensiva di terra verso est dopo l’accordo raggiunto con i ribelli
che abbandoneranno la città sede dell’omonimo governatorato. E tutto
questo mentre dalla fine di novembre gli aerei russi vengono fatti
volare con missili aria-aria di corta e media gittata rafforzando la
“bolla aerea” sopra la Siria.
Si tratta di segnali importanti sull’irreversibile
internazionalizzazione del conflitto che già da tempo avevano provocato
ripercussioni sui progetti energetici condivisi tra Turchia e Russia. A
farne le spese per primo è stato il progetto del Turkish Stream, un
gasdotto che avrebbe dovuto collegare la Russia con la Turchia passando
per il Mar Nero e che era stato annunciato a sorpresa da Putin nel 2014,
durante una visita in Turchia. I lavori avrebbero dovuto iniziare a
partire dal giugno di quest’anno, ma Ankara non ha mai approvato neppure
gli accordi intergovernativi necessari per l’opera e l’italiana Saipem,
che aveva già iniziato la posa dei tubi nella tratta sottomarina del
gasdotto, si è vista rescindere da un giorno all’altro il contratto da
Gazprom. A tale proposito occorre tener presente che la Russia è il
secondo partner commerciale di Ankara, con un interscambio pari a 31
miliardi di dollari nel 2014 e a 18,1 miliardi di dollari per i primi
nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi la cifra
sale a 44 miliardi di dollari. Solo due mesi fa le ambizioni erano ben
altre: in visita a Mosca il 23 settembre scorso, pochi giorni prima
dell’avvio della campagna di bombardamenti russa, il presidente turco
Erdoğan auspicava che entro il 2023 il commercio bilaterale raggiungesse
i 100 miliardi di dollari. Queste ambizioni sono ora vittime della
guerra in Siria, anche se le sanzioni russe, almeno in questa prima
fase, sono meno rigide di quanto ci si aspettasse. Dal 1° gennaio le
aziende russe non potranno più assumere lavoratori turchi e molte
imprese di Ankara subiranno limitazioni. Inoltre, dall’inizio del 2016,
le agenzie di viaggio russe dovranno smettere di vendere viaggi in
Turchia e saranno vietati i voli charter. Anche qui il Cremlino ha
infierito duramente perché il Paese è una delle mete preferite dai russi
e l’anno scorso i turisti sono stati oltre tre milioni. Nell’elenco
delle sanzioni c’è anche la sospensione degli effetti del trattato
bilaterale che aboliva il regime dei visti. Limitazioni sono in arrivo
anche per i servizi, in particolare per i trasporti, che verranno
sottoposti a controlli approfonditi per ragioni di “sicurezza”. Nessuna
sanzione invece sul fronte energetico dove Ankara e Mosca sono legate a
doppio filo. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia che
importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la
Germania, è il secondo cliente di Mosca. Senza contare il passaggio al
nucleare che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la
Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale (ad
Akkuyu), quattro reattori e un progetto da 20 miliardi di dollari.
Arabia Saudita e Qatar
Il 2 ottobre del 2014, intervenendo al John F. Kennedy Jr Forum presso
la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Harvard, il
vicepresidente americano Joe Biden espose con inusuale franchezza
l’opinione del governo americano sugli alleati nella regione e in Siria,
sostenendo che l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Emirati Arabi: erano
decisi a liberarsi di al-Asad e a far esplodere una guerra per procura
tra sunniti e sciiti. Cos’hanno fatto allora? Hanno elargito centinaia
di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi a
chiunque sostenesse di voler combattere contro al-Asad. Peccato però che
tra questi ci fossero anche al-Nuṣra, al-Qāʿida e gli estremisti
jihadisti giunti da altri paesi. Considerazioni condivise anche dal
ministro tedesco per la Cooperazione e lo Sviluppo, Gerd Müller, che
nell’agosto dello stesso anno aveva dichiarato: dovete domandarvi chi sta armando e finanziando le truppe dell’Isis. La parola chiave è Qatar. Del resto era stato lo stesso principe Saud Feisal a chiarire il concetto al segretario di Stato Usa John Kerry: Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio agli sciiti dopo la caduta di Saddam.
Qatar
Questo piccolo ma ricchissimo emirato del Golfo si è contraddistinto per
un crescente attivismo politico-regionale a partire dal 1995, quando
salì al potere l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani. Schiacciato tra due
vicini ingombranti (l’Iran e l’Arabia Saudita) nei primi anni Duemila il
Qatar aveva mostrato una notevole scaltrezza politica associata alla
capacità di bilanciare le proprie alleanze, grazie anche alla liquidità
derivatagli dallo sfruttamento del giacimento di gas condensato chiamato
South Pars/North Dome. Uno dei più grandi nodi energetici ed economici
del pianeta con riserve stimate di 51 trilioni di metri cubi di gas. Il
patrimonio colossale degli al-Thani è segnato però da un vulnus preciso
che si chiama Iran. Questo perché più di un terzo del giacimento
sottomarino si trova in acque territoriali iraniane. La South Pars (così
si chiama il lato persiano del giacimento) a differenza della
controparte qatariota non è ancora del tutto sviluppato. L’ambizione del
Qatar è quella di realizzare una serie di gasdotti verso l’Europa con
sbocco in Turchia alternativi a quello che dovrebbe attraversare Iran,
Iraq e Siria. In questa veste il Qatar appare in concorrenza diretta sia
con l’Iran (in quanto produttore), che con la Siria (in quanto
destinazione), e a un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di
transito). Dopo lo scoppio delle primavere araba Doha ha tuttavia
puntato sempre più apertamente sull’ascesa dei movimenti islamici, e
soprattutto sui Fratelli Musulmani, rompendo il proprio rapporto con
Damasco e incrinando quello con le alte petromonarchie del Golfo che
tradizionalmente nutrono una profonda diffidenza nei confronti di questo
movimento. Dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto e del
partito al-Nahda in Tunisia, il Qatar ha visto nell’alleanza con la
Fratellanza e più in generale coi movimenti islamici la possibilità di
accrescere la propria influenza politica ed economica in Medio Oriente.
Doha ha dunque deciso di appoggiare economicamente l’Egitto di Morsi,
attraverso una vigorosa politica di prestiti, e militarmente la
ribellione libica contro Gheddafi prima, e quella siriana contro al-Asad
dopo. Così come per la Turchia, la deposizione di Morsi in Egitto e le
disfatte subite dai “ribelli siriani” hanno ridimensionato la proiezione
regionale dell’Emirato che però non ha rinunciato ad avere un peso nei
futuri assetti dell’area. Nel 2009, in un messaggio classificato
“segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato
statunitense definiva il grado di collaborazione del Qatar
nell’anti-terrorismo “il più basso della regione”. Nell’ottobre
dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen
indicò il Qatar come uno stato “permissivo” in materia di finanziamento
al terrorismo. Nell’elenco degli “agevolatori finanziari del terrorismo”
redatto da Washington si trovano ben 16 qatarioti, e cinque cittadini di
altri Paesi arabi che operano in Qatar. Tra questi ultimi spicca il
tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce “un
funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento
di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del
2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di
dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di
usare quella somma in operazioni militari”.
Arabia Saudita
La politica adottata dall’Arabia Saudita nei confronti della guerra
civile siriana merita anch’essa un’attenzione particolare. Per Riyāḍ,
tradizionalmente ostile al cambiamento e favorevole al mantenimento
dello status quo, le “primavere arabe” hanno rappresentato un trauma.
Soprattutto quando l’instabilità cominciò a lambire i propri confini con
le rivolte in Bahrein e nello Yemen. Inoltre la monarchia saudita è
sempre stata legata a doppio filo con gli Stati Uniti ed ha sempre
guardato con timore all’emergere di qualsiasi alternativa regionale
che potesse mettere in secondo piano l’alleanza di Washington con Riyāḍ. La
prospettiva di un nuovo fronte “moderato” guidato dalla Turchia e
l’accordo sul nucleare con l’Iran ha sempre spaventato la casa saudita.
Lo scoppio della rivolta siriana ha dunque permesso alla famiglia
saudita di passare al contrattacco. Dopo aver assistito nel 2005 alla
nascita in Iraq del primo governo sciita in un paese arabo dal XII
secolo, e dopo aver dovuto subire l’ascesa di Hezbollah in Libano,
l’Arabia Saudita ha visto nella ribellione siriana l’opportunità di
rovesciare il regime alauita di al-Asad infliggendo un duro colpo
all’Iran e guadagnando influenza in Libano. A partire dall’estate del
2013 i sauditi hanno sostituito il Qatar in cima all’elenco dei
finanziatori dei ribelli siriani grazie anche all’intermediazione di
istituti finanziari come l’Al Rajhi Bank. Tuttavia il sostegno è andato
ben oltre al semplice incremento degli stanziamenti: il numero di
combattenti provenienti dall’Arabia Saudita ha infatti superato quello
di ogni altro paese. Un fenomeno, questo, che alla lunga potrebbe
rivelarsi un boomerang per la stabilità del regno, ma che si lega a uno
degli sviluppi più pericolosi della nostra epoca, ovvero la
“wahabbizzazione” dell’islam sunnita tradizionale. Come ha denunciato
Ali Allawi, storico ed esperto del settarismo, in un paese dopo l’altro
le comunità sunnite “hanno adottato elementi del wahhabismo che in origine non facevano parte del loro canone”.
Il prevalere del wahhabismo dipende ovviamente dal peso politico ed
economico dell’Arabia Saudita. Riyāḍ sfrutta l’intenso proselitismo
delle sue opere di carità wahhabite che negli ultimi trent’anni hanno
costruito ai quattro angoli del pianeta più di 1500 moschee, 210 centri
musulmani, 202 collegi islamici e 2 mila madrase, spedendovi oltre 4
mila missionari. Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere con un
pizzico di ingenuità perché questa complicità diretta con il “terrorismo
islamico” da parte delle petromonarchie viene accettata dagli
occidentali.
Nel 2009, a otto anni dall’attentato del 11 settembre, l’allora
Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, in un cablogramma rivelato da
Wikileaks, lamentava il fatto che la fonte di finanziamento principale
dei gruppo terroristi sunniti fosse costituita da donatori sauditi. La
risposta al quesito sta nei miliardi di petrodollari che le monarchie
del Golfo hanno dirottato fin dalla crisi petrolifera dei primi anni
Settanta verso i mercati finanziari statunitensi e nella centralità che
in questo modo è stata conferita al dollaro del sistema monetario
internazionale dopo la rottura unilaterale degli accordi di Bretton
Woods e il tramonto del “gold dollar standard”. Alla luce di queste
cifre si spiega l’atteggiamento americano nei confronti del Califfato e
dei jihadisti siriani sponsorizzati dalle monarchie del Golfo. La Saudi
Connection, come la definisce Alberto Negri: è soprattutto il
rapporto ombelicale che da 70 anni lega Washington a Riad. L’Arabia Saudita, il più oscurantista degli stati islamici è la roccaforte del
sunnismo, ma anche la nazione musulmana con il più antico patto con gli
Stati Uniti firmato tra Ibn Saud e Roosevelt nel 1945 pochi giorni dopo
Yalta. Mentre Obama e re Salman si stringevano la mano al G-20 di
Antalya veniva firmato l’ennesimo contratto militare: 1,2 miliardi di
dollari per 10mila sofisticate bombe made in Usa da scaricare in Yemen
sulla testa dei ribelli sciiti Houti. Negli ultimi 5 anni i sauditi
hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di
dollari. Mentre il Qatar il 14 luglio dell’anno scorso ha acquistato
elicotteri Apache per 11 miliardi di dollari con un’intesa siglata a
Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione
Hagel definì “di importanza critica” la relazione tra Usa e Qatar e
dichiarò di essere “felice che continui a diventare sempre più stretta”.
In verità Riyad, dietro pressioni statunitensi, ha ufficialmente
inserito l’IS nella lista delle organizzazioni terroristiche e ha
recentemente annunciato la costituzione di un’alleanza di 34 stati
musulmani per la lotta al Califfato. Ma sia la Russia che le cancellerie
occidentali hanno dimostrato di nutrire più di qualche perplessità
sulle reali intenzioni di questo “fronte” e sulle sue modalità d’azione.
Prossimo capitolo. La cooperazione internazionale e le Ong, il braccio “non armato” del capitale in Siria.
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