di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu ha trovato l’accordo sulla Siria: nella serata di ieri
è arrivato l’ok dei membri permanenti alla bozza di risoluzione sulla
road map di Mosca e Washington, discussa dai 17 Paesi riuniti al Palace
Hotel di New York. Mentre scriviamo, i 15 membri erano chiamati a votare
la risoluzione. Un’intesa raggiunta all’ultimo momento: a prevalere nel
pomeriggio erano state le differenze di vedute sul destino di Assad
e sulle opposizioni che dovrebbero sedere al tavolo del dialogo previsto
a Vienna nel 2016.
Secondo l’agenzia russa Rt, la risoluzione contiene la
richiesta alle parti di fine immediata degli attacchi contro i civili
e quella all’Onu perché organizzi a gennaio il negoziato tra governo
e opposizioni, sulla base dell’intesa di massima siglata a Vienna (nuovo
governo che in sei mesi rediga la nuova costituzione e prepari le
elezioni). Vago restava il destino del presidente Assad, seppure in
privato Casa Bianca e Cremlino abbiano immaginato la sua dignitosa exit
strategy. Kerry dice di non volersi focalizzare su «un cambio di
regime», mentre fonti Usa riportavano dell’arrendevolezza russa: Assad
potrebbe farsi da parte durante la transizione, quindi prima delle
elezioni. Ma le opposizioni, che scettiche ieri parlavano di «piano
troppo ambizioso», insistono sull’immediata cacciata di Assad.
Fumosa resta anche la lista (presentata dalla Giordania) dei gruppi
di opposizione che parteciperanno al dialogo. A frenare ieri era l’Iran
che chiede l’estromissione di Ahrar al-Sham, gruppo islamista alleato di
al-Nusra che ha preso però parte al meeting organizzato dall’Arabia Saudita.
In tutto ciò al palo resta la Turchia, alle prese ieri con l’apertura
da parte russa della scatola nera del Su-24 abbattuto il 24 novembre da
Ankara. Secondo il colonnello Semonov, la scatola nera è stata
danneggiata dal missile turco, ma si proverà comunque ad analizzarne il
contenuto, per renderlo noto lunedì. Al pericoloso isolamento in cui
è costretta, la Turchia cerca di uscire passando per Israele. Ieri, a 5
anni dall’uccisione di 10 cittadini turchi sulla nave Mavi Marmara
diretta a Gaza e presa d’assalto dalle unità speciali israeliane, Tel
Aviv e Ankara hanno riallacciato i rapporti. L’accordo definitivo sarà
siglato a gennaio: aprirà al ritorno degli ambasciatori e alla ripresa
del business energetico.
Non è un caso che un simile accordo arrivi ora con la Turchia
sofferente per la guerra diplomatica di Mosca, che gli vende il 65% del
suo fabbisogno interno di gas; e Israele che ha visto sgonfiare le
ambizioni energetiche stuzzicate dal bacino del Leviatano, a causa del
nuovo protagonismo egiziano. Dopo la scoperta dell’Eni di un enorme
bacino nei mari egiziani e la firma (una settimana fa) di contratti da
14 miliardi di dollari con compagnie nazionali e straniere per 268
pozzi, Tel Aviv ha capito di aver perso un acquirente e di non poter
dettare prezzi in Medio Oriente.
La via d’uscita è un accordo che riapre al progetto congiunto di un
gasdotto che da Israele porti gas naturale in Europa via Turchia, piano
da 2,5 miliardi di dollari in standby a causa dei rapporti freddi tra
i due paesi. Erdogan accantona senza rimpianti le precondizioni poste
per il riavvicinamento: scuse ufficiali per la Marmara, inchiesta sugli
ufficiali responsabili e fine dell’assedio di Gaza. Le basi dell’intesa
calpestano le aspirazioni palestinesi, di cui Ankara si finge paladina,
e l’alleato Hamas, punito per ragioni di Stato: 20 milioni di dollari
come compensazione alle famiglie delle vittime della Marmara; rinuncia
turca ad azioni legali contro ufficiali israeliani; espulsione dalla
Turchia del comandante di Hamas Saleh al-Aruri e limitazione delle
attività del movimento palestinese.
AGGIORNAMENTO ore 13:45
“Questo consiglio sta mandando un chiaro messaggio a tutte le parti
coinvolte: è giunta l’ora di fermare le uccisioni in Siria e gettare le
basi per un governo sostenuto dal popolo sofferente di questa terra
sotto attaccato” ha detto il Segretario di Stato Usa John Kerry
commentando l’approvazione della risoluzione Onu sulla Siria. Kerry,
però, ha provato a smorzare gli entusiasmi: “restano profonde differenze
all’interno della comunità nazionale soprattutto sul futuro del
presidente al-Asad”.
E’ stato proprio al-Asad il principale tema di attrito tra i vari
paesi. Il ministro degli esteri russo, Sergei Lavarov, ha detto che la
risoluzione è “una chiara risposta ai tentativi [che mirano a] imporre
ai siriani una risoluzione dall’esterno anche per ciò che riguarda il
presidente”. Ma Fabius, titolare del dicastero degli Esteri francesi, ha
attaccato: “i colloqui tra il governo siriano e l’opposizione avranno
successo solo se si garantirà la partenza di Assad”. Soddisfazione è
stata espressa anche dal pari inglese Philip Hammond che ha definito la
proposta votata ieri un “passo in avanti”. Sulla falsariga di Parigi,
Hammond ha poi aggiunto che l’allontanamento di al-Asad è necessario
“non solo per ragioni morali, ma anche per ragioni pratiche perché sarà
impossibile portare la pace e l’unità in Siria fintanto che resterà lui
al potere”.
Secondo la risoluzione, le trattative tra Damasco e l’opposizione dovrebbero iniziare agli inizi di gennaio.
Mentre la diplomazia si accorda, in Siria si continua a morire.
L’Osservatorio Siriano per i diritti umani (Osdu), vicino all'opposizione, sostiene che i raid
aerei russi hanno ucciso 46 civili nella sola giornata di ieri. Il
direttore dell’Osservatorio, Rami Abdel Rahman, ha dichiarato che i jet
di Mosca hanno colpito Raqqa e le cittadine di ‘Azaz e al-Bab nella
provincia di Aleppo. Secondo l’Osdu, sono circa 1.900 le vittime
provocate dalle bombe russe dallo scorso 30 settembre.
Nel vicino Iraq, intanto, nove soldati iracheni sarebbero stati
uccisi dai raid della coalizione internazionale a guida Usa. A
sostenerlo è il Ministro della Difesa Khaled al-‘Obeidi.
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