La Campania – notoriamente – è una zona del paese dove, in varie fasi politiche, è stato testato ed ampiamente utilizzato l’istituto giuridico del Commissariamento Straordinario.
In vari campi – da quelli afferenti alle variegate modalità di governance istituzionale fino alla gestione di imperi affaristici, come le Azienda Sanitarie Locali – l’uso dello strumento del Commissario è stata una costante di questo ciclo politico che, nei nostri territori, parte all’indomani del sisma del 23 novembre ’80 e si rafforza con la fine della cosiddetta Prima Repubblica.
Mai però si era giunti alla situazione attuale che registra il dato paradossale che anche le segreterie delle tre maggiori organizzazioni sindacali regionali sono state commissariante determinando – per molti aspetti – uno scenario anomalo e, pesino, inedito.
Prima la segretaria della UIL, Anna Rea, che era alla guida di questa organizzazione da oltre 14 anni, poi i segretari regionali e provinciali della CGIL, Franco Tavella e Federico Libertino ed ora anche Lina Lucci, da 7 anni alla guida della CISL sono stati rimossi dai loro incarichi.
Apparentemente, sembra, che ci sia un filo unico conduttore alla base dei procedimenti che hanno comportato queste dimissioni/defenestrazioni. In tutti e tre i casi citati si parla di ammanchi economici e di irregolarità amministrative. E’ utile ricordare, anche solo per avere una unità di misura interpretativa di questa vicenda, che la sola CGIL campana detiene il record di oltre 5 milioni di Euro di disavanzo con una, contemporanea, perdita secca di ben 8000 iscritti negli ultimi anni.
Non spetta a noi indagare su queste questioni ma il (quasi) simultaneo commissariamento delle tre maggiori centrali sindacali segnala – inequivocabilmente – al di là di degli esiti particolari di ognuno di questi pasticciacci, una vera e propria crisi di un modello culturale e politico su cui è utile soffermarsi.
Una crisi, oramai palese, che risente sia della situazione specifica dell’area metropolitana partenopea e dell’intera regione della Campania ma, nel contempo, è fortemente indicativa delle trasformazioni avvenute nell’ambito della struttura produttiva ed economica ma, anche, nell’orientamento e nell’azione politica e programmatica di queste organizzazioni le quali sono sempre più inadeguate/impossibilitate alla loro funzione.
Infatti non è un caso che i commentatori più avveduti – quelli meno affabulati e sottomessi al quotidiano esercizio del politicismo e della stanca rappresentazione di ciò che residua della riperpetuazione di un agire politico astratto – si stanno interrogando sul possibile futuro prossimo di una moderna forma sindacale specie in città complesse e complicate come Napoli.
In tal senso l’intervento di Isaia Sales (L’agonia del sindacato senza più iscritti ed identità) pubblicato sull’edizione de “il Mattino” dell’11/10/2016 offre interessanti spunti per questa discussione, ma delinea esiti sui quali dissentiamo profondamente.
Se la ricostruzione cronologica del percorso vissuto dal sindacalismo napoletano (almeno quello degli ultimi 40 anni e quello ascrivibile a Cgil, Cisl e UIl) è sostanzialmente corretta le “ricette” a cui approda Sales sono, a nostro parere inadeguate.
Per Sales, a fronte di questo disastro, l’unica strada da seguire è quella di una non meglio precisato ruolo da assumere che si distacchi – genericamente – dai gruppi dirigenti delle istituzioni locali.
Nessuna parola, però, su prospettive politiche e programmi di ricostruzione di una adeguata difesa degli interessi sociali dei lavoratori e dei ceti popolari.
La nostra prospettiva – con buona pace di Cgil, Cisl, Uil ed anche di Isaia Sales che per lunghissimi anni è stato un interlocutore ed un soggetto interno sia al potere locale ed anche alle burocrazie della Cgil – è radicalmente antitetica ed antagonistica a questa soluzione prospettata.
Il lento ma costante passaggio di funzione in una regione che era tra le più industrializzate d’Italia ad una condizione dove, a seguito della crisi e della distruzione del welfare e dei servizi pubblici a rete, il sindacato, praticamente, è ridotto al mero ruolo di formalizzatore di accordi calati dall’alto o di gestione di quote di micro potere clientelare ed affaristico è sicuramente una fotografia realistica dello stato dell’arte dell’azione dei sindacati nei nostri territori.
Del resto – e su questo esiste anche una corposa documentazione giudiziaria – specie in Campania il sindacato che un tempo definivamo confederale e che oggi – con molta più precisione – bolliamo come complice ed orfano di una stagione della concertazione oramai tramontata, è sempre stato intrecciato sia con i disegni di selvaggia ristrutturazione economica e produttiva ma anche interno e partecipe a tutte le logiche spartitorie che hanno mortificato i diritti generali e la dignità dei lavoratori.
Per decenni Cgil, Cisl e Uil – ma anche l’Ugl in virtù di una sciagurata logica lottizzatrice che doveva comprarsi il silenzio complice di tutti – sono cresciute, a Napoli ed in Campania, accompagnando il corso della crisi economica e le sue conseguenze.
Un “accompagnamento” – come la situazione sotto i nostri occhi ci squaderna – che è stato tutt’altro rispetto alla ricerca di soluzioni e sbocchi positivi per il mondo del lavoro ed i settori popolari della società. In realtà queste organizzazioni hanno speso il loro interessato impegno verso l’obiettivo del mantenimento della pace sociale in un contesto dove il sapiente mix tra ammortizzatori sociali, gestione clientelare dei piani di ristrutturazione e tutela di alcune fasce di “aristocrazia operaia” ha garantito la gestione della governance capitalistica.
Un'altra azione sindacale è possibile.
Fortunatamente il mondo del conflitto e la lotta sociale non si esauriscono nelle stanze e nei corridoi (per la verità sempre meno affollati) di Cgil, Cisl e Uil e nei consessi sempre più angusti e privi di vita di queste sigle.
La crisi napoletana di queste organizzazioni non è nient’altro che un tassello – per alcuni tratti più aberrante – di un quadro generale che registra il fallimento politico di una strategia sindacale che, nel migliore dei casi, si è limitata ad essere un correttivo edulcorante delle forme più spietate del liberismo in questo tornante della contemporaneità capitalistica. In Italia e non solo!
Nel contempo però di azione sindacale, di lotta organizzata e di organizzazione sociale c’è sempre più bisogno proprio mentre da parte del ceto politico di comando avanza l’azione di delegittimazione e di distruzione dei cosiddetti corpi intermedi sociali e del sindacato stesso.
La velocizzazione dei processi politici non solo ha ridisegnato le forme concrete e materiali con cui si configura l’attuale gamma dello sfruttamento capitalistico lungo tutto l’arco delle contraddizioni e della giornata lavorativa sociale ma anche evidenziato una, potenziale, crescita di un'aspettativa di mobilitazione e di necessario riscatto da una condizione di vita e di lavoro sempre più subalterna e priva di diritti.
Una moderna e riqualificata azione sindacale non solo è possibile ma anche necessaria. A Napoli, nel Sud crescono la polarizzazione e le diseguaglianze sociali man mano che i fattori di crisi economica diventano sempre più pervasivi erodendo tutti i vecchi residui del welfare e dei tradizionali comparti (alcuni anche legati al circuito extralegale) che garantivano quote di reddito diretto e, spesso, indiretto.
Un sindacato che partendo dalla pratica del conflitto e da un necessario insediamento nei comparti decisivi della produzione e del circuito de servizi sia attraversato e permeato creativamente dai temi della confederalità sociale e del sindacalismo metropolitano per essere in grado di interagire con le multiforme espressioni del malessere sociale e con una situazione di oggettiva frantumazione/dispersione della classe.
Un sindacato che fonda la propria identità non sul collateralismo politicante e politicista ma sull’autonomia e l’indipendenza e che abbia – non ideologicamente ma come stringente necessità in una fase di integrazione multinazionale del modo di produzione capitalistico – un orizzonte internazionale ed internazionalista. Un antidoto indispensabile, specie nelle grandi aree metropolitane, per inibire e sconfiggere ogni pulsione razzista e differenzialista che può incunearsi, anche come prodotto degli effetti della crisi, nelle fila dei lavoratori e dei settori popolari.
Il Commissariamento di Cgil, Cisl e Uil a Napoli ed in Campania è, probabilmente, il segno che una politica collaborazionista è arrivata al capolinea almeno nelle forme con cui questa si è manifestata per lunghi decenni.
Questa situazione non deve – in alcun modo – generare sentimenti e comportamenti, anche inconsapevoli, di autosufficienza e di indifferenza verso questi processi ma deve essere da stimolo, da elemento di bilancio, critico ed autocritico, per ricostruire, per davvero, la strumentazione adatta ed utile alla nostra lotta ed alle ragioni sociali che vogliamo interpretare e rappresentare.
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