Renzi, lo sappiamo, è un combattente
(gli va dato atto) e combatterà sino all’ultimo, come si diceva una
volta, “Casa per casa, strada per strada”. Sino all’ultimo proverà a
vincere il referendum per sciogliere immediatamente le Camere e (Corte
Costituzionale permettendo) andare alle elezioni a febbraio e tentare il
“colpaccio” del 40% al primo turno e vincere. E questo è, ancora oggi,
il piano A.
Però l’uomo ha senso pratico ed ha capito che il vento che tira non gli è favorevole:
lui era sicuro di vincere a mani basse, ma le elezioni amministrative
hanno cambiato il vento e da allora non ha fatto che perdere terreno.
La vittoria del No, prima eventualità
remota, è oggi costantemente indicata dai sondaggi, anche se di misura e
con molti indecisi ma, questo è il sintomo peggiore, gli indecisi che
sciolgono la riserva sembrano dirigersi più verso il no che verso il si
ed il distacco a favore del No, anche se lentamente, cresce. Dunque va presa seriamente in considerazione l’ipotesi che il No vinca. Che fare? E qui inizia a profilarsi il piano B.
In primo luogo, è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre
e prima che glielo chieda chiunque. Facendo così una gran bella figura:
in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno
tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva
promesso ci fa un figurone.
Questa scelta, beninteso, non sarebbe
dovuta ad una qualche senso della correttezza del fiorentino
(figuriamoci!) ma as un calcolo molto preciso: mantenere la poltrona di
segretario del partito e guadagnare tempo.
Infatti, difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito:
dopo la botta del referendum il Pd probabilmente perderebbe, peraltro
bisogna pure vedere che deciderà la Consulta e molto fa pensare che
l’Italicum non passerà indenne. Ma anche nel caso improbabile che la
Corte lo lasci immutato, la bocciatura del referendum imporrebbe di
ripensare la legge elettorale, non fosse altro, per farne una per il
Senato, a meno di non voler votare con sistemi differenti fra le due
camere (a un turno al Senato ed a due alla Camera). Quindi, ci vorrà
qualche mese per attrezzare la nuova legge anche sulla base delle
indicazioni della Corte. Anche per questo Renzi, saggiamente, dice che
non si può modificare la legge prima del referendum e della sentenza
della Corte.
A credere che la definizione della legge
elettorale sia una questione interna di partito, fra lui e i bersaniani
può essere solo la “sinistra Pd” che non considera che di mezzo ci sono
la Corte, gli altri partiti, l’esito del referendum, il Presidente
della Repubblica e qualche altra bagatella del genere. Ma sulla
sinistra Pd diremo in altra sede.
Quindi nell’immediato, Renzi avrà due problemi in caso di vittoria del No:
evitare lo scioglimento immediato delle Camere (e qui la questione
elettorale lo soccorre) e domare la rivolta nel partito. Infatti, è più
che plausibile che Franceschini, De Luca, Emiliano, e forse i piemontesi
(Fassino e Chiamparino) gli si getteranno addosso reclamandone la testa
e, insieme a quei morti di sonno della minoranza di sinistra,
potrebbero rovesciare il segretario. Qui il fiorentino è assistito dallo
statuto, per il quale la deposizione di un segretario scelto a
congresso, passa per un nuovo congresso. Dunque, lui deve resistere su
quella sedia per preparare la riscossa.
In primo luogo, sinché è il segretario, a meno di scissioni, è lui a dirigere i giochi della crisi di governo,
perché segretario del partito forte di oltre 300 deputati. Ed il
disegno di Renzi è facilmente indovinabile: fare un governo di scopo, di
larghe intese, proprio perché bisogna rifare la legge elettorale e, di
conseguenza un governo presieduto da un tecnico non iscritto a nessun
partito (insomma un altro Monti). Questo sia per guadagnare tempo, sia
per evitare che su quella poltrona possa andarci Franceschini o altro Pd
che poi, magari, diventerebbe il candidato del Pd alla Presidenza del
Consiglio. In questo modo, invece, la poltrona di Palazzo Chigi sarebbe
“sterilizzata” ai fini delle prossime elezioni.
Una volta sistemato il governo in questo modo, Renzi potrebbe dedicarsi al congresso del partito.
In primo luogo l’obiettivo sarebbe quello di far dimagrire
l’opposizione con due manovre. Con la prima far fuori la minoranza
bersaniana. No, non credo che pensi di espellere i dissidenti, quanto,
più mitemente accompagnarli alla porta: “Cosa restate a fare nel
partito? Tanto non vi ricandidiamo alle politiche”. Qui l’azione di D’Alema sarebbe perfettamente convergente,
perché il Conte Max ragionevolmente userebbe la rete dei comitati dei
democratici per il No come base di un nuovo partito. Svuotato quel po’
che rimane della minoranza di sinistra, Renzi si dedicherebbe a
strappare qualche esitante del fronte avverso, magari lusingando i
torinesi o lavorando ai fianchi qualche altro avversario locale ed ha
già cominciato in Puglia, dove ha tirato dalla sua il sindaco di Bari De
Caro (cui ha concesso la poltrona di Presidente dell’Anci) in funzione anti-Emiliano.
Vinto il congresso, sarebbe
automaticamente e per statuto il candidato del Pd a Palazzo Chigi e
magari, con una legge elettorale favorevole ed un po’ di fortuna,
potrebbe pensare di tornare.
Certo un piano complesso, con diversi
passaggi di cui alcuni tutt’altro che facili, ma l’uomo, abbiamo detto, è
un combattente e non molla facilmente la presa. Oggi il ridotto in cui resistere è a Palazzo del Nazareno, non a Palazzo Chigi.
Se dovesse perdere nel Referendum, Renzi
sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato. Per liberarcene
occorrerà ancora altro.
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