La Brexit reale – dopo il referendum di giugno – ha ora una data d'inizio: marzo 2017. L'ha fissata il nuovo premier britannico, Theresa May, conservatrice come il predecessore David Cameron, ma che aveva fiutato in anticipo l'animo popolare favorevole al leave, ossia all'uscita dall'Unione Europea.
Si tratta solo dell'inizio di un percorso negoziale molto complicato. Innanzitutto perché è la prima volta che un paese se ne va. E anche se non si tratta di un paese dell'eurozona (la sterlina è rimasta la moneta nazionale), stiamo parlando comunque della seconda economia e della prima piazza finanziaria europea.
Il punto centrale del negoziato è già sommariamente definito: mantenere alla Gran Bretagna tutti i benefici economici derivanti dal mercato unico (libertà di movimento per capitali, beni e servizi) riacquistando però piena “sovranità” sulla libertà di movimento delle persone e sui flussi migratori verso Londra. Botte piena e marito ubriaco, insomma, come al solito quando una trattativa sta per iniziare.
Theresa May ha provato a sgomberare il campo dalle ipotesi più laceranti, assicurando che i lavoratori comunitari (cittadini dei paesi Ue) già inseriti nella vita produttiva britannica manterranno lo status che hanno avuto finora (la loro esclusione dai sistemi di welfare era del resto già stata decisa da Cameron).
Ma è chiaro che la “libertà delle persone” è solo una carta di scambio sul tavolo della trattativa.
L'altro pilastro della ritrovata “sovranità” è il disconoscimento dell'autorità della Corte di giustizia europea, passaggio del resto indispensabile per recuperare il massimo di autonomia legislativa. Il compromesso di partenza, su questo terreno, è già fissato: «L'acquis comunitario (l'insieme delle norme varate con l'Ue e adottate da Londra, ndr) sarà legge anche per la Gran Bretagna. In altre parole nulla cambierà […] fino a quando io sarò premier».
Poi si vedrà, anche in base ai risultati della trattativa. Già questo è un notevole elemento di incertezza, ma senz'altro minore rispetto a quel che agita la “controparte” europea. Parigi, Berlino e Amsterdam vanno ad elezioni politiche (e non è detto, referendum permettendo, che non succeda anche in Italia), dunque Londra si troverà davanti negoziatori poco inclini a fare concessioni e con l'incubo di vederli sostituiti da altri ancor meno concilianti. Il che significa “bruciare” tutto il 2017 in balletti diplomatici privi di costrutto, mentre il tempo residuo – per norma di trattato, il percorso di uscita deve avvenire entro due anni – porta invece la stessa May pericolosamente vicina alla scadenza di legislatura.
Ma i problemi arrivano anche dall'Unione Europea (che è una ferrea struttura politico-economica sovranazionale, non uno “spazio abitabile” dalle regole vaghe). Il belga Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga e leader del gruppo liberale al Parlamento Ue, ha rilasciato un'intervista al Financial Times in cui dice chiaramente che a Londra non verranno fatti sconti, visto anche se sarà lo stesso parlamento di Starsburgo – istituzione complessivamente inutile, visto che non detiene il potere legislativo (detto altrimenti: si chiama così, ma non è un Parlamento) – a dover decidere sul merito degli accordi che verranno elaborati dalla Commissione (il “governo” europeo), dalla Gran Bretagna e da singoli stati membri. Anche ponendo il veto.
Ovvio che all'establishment e al mondo degli affari britannico sarebbe gradita una “Brexit soft” (del resto erano terroristicamente contrari...), mentre nel Vecchio Continente non mancano davvero i fautori di una uscita “hard”.
Non si tratta di ideologia, ma di business. Londra è la principale piazza finanziaria per gli scambi in euro. Difficile che possa restare tale una volta che la Gran Bretagna avrà abolito una serie – per quanto piccola – delle regole comuni con la Ue. Si chiama concorrenza, o “competizione”.
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