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03/10/2016

Colombia: il referendum affonda la pace con le Farc

"Sostieni l'accordo finale per terminare il conflitto e per la costruzione di una pace stabile e permanente?": una domanda alla quale sembrava scontato che si dovesse rispondere ‘si’ in maniera massiccia ed entusiasta.

Eppure gli analisti sono stati smentiti, i sondaggi sconfessati, e ieri è finita 50.3 contro 49.7%. Con un tasso di astensione altissimo – il 63% – ed un vantaggio di soli 57 mila voti, la maggioranza degli elettori colombiani che si sono recati alle urne hanno votato contro gli accordi di pace negoziati all’Avana dal governo di Bogotà e dalle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, la più consistente e longeva guerriglia marxista del continente americano.

Si tratta di un vero e proprio schiaffo non solo nei confronti della guerriglia, ma anche del governo del liberale Juan Manuel Santos, esponente di un’ala dell’oligarchia intenzionata a normalizzare il conflitto con le Farc (e in prospettiva con l’altro gruppo guerrigliero minore, l’Eln) per aumentare il grado d’integrazione del paese nelle varie alleanze economiche e politiche continentali, riducendo – non annullando – al tempo stesso la tradizionale subalternità di Bogotà ai diktat della Casa Bianca.

Una strategia che è stata però violentemente boicottata da un suo ex compagno di partito ed ex presidente negli anni più duri del conflitto con la guerriglia, Alvaro Uribe, che ha lanciato una capillare campagna di boicottaggio prima nei confronti dei colloqui che si tenevano nella capitale cubana e poi mirando a far fallire il referendum. Gli ‘uribisti’, rappresentanti dell’ala più feroce dell’oligarchia colombiana e a capo di una vasta rete di influenze all’interno delle forze armate, dei servizi segreti, della polizia, della magistratura, della stampa e dell’imprenditoria – quella che non vuole rinunciare ai privilegi costruiti anche attraverso la feroce repressione non solo dell’insorgenza armata ma anche dei movimenti popolari, sindacali e di sinistra – alla fine l’hanno spuntata.

Anche a causa della scarsa cautela di Santos e dei suoi, che davano per scontato un ampio sostegno popolare alla scelta di disinnescare un conflitto armato con le guerriglie che ha causato negli ultimi cinquanta anni più di duecentecinquantamila morti, decine di migliaia di desaparecidos, milioni di sfollati. Ma non è stato così. Il fronte del ‘no’ ha giocato la carta della paura, prospettando, in caso di vittoria del ‘si’, la consegna del paese al ‘castro-chavismo’, una sorta di invasione guerrigliera dei posti chiave della società, “l’impunità totale per i responsabili di efferati crimini”, la consegna ai capi guerriglieri di centinaia di migliaia di ettari di terreni da tempo nelle mani dei latifondisti e delle autorità.

La verità è che alla fine dei tre anni di colloqui tra i rappresentanti del governo Santos e delle Farc la road map concordata non aveva alcunché di rivoluzionario e lasciava con l'amaro in bocca anche alcuni settori della sinistra. Il testo dell’accordo firmato lunedì scorso a Cartagena dal presidente e del leader guerrigliero Timoleón Jiménez “Timochenko”, alla presenza del Segretario Generale dell’Onu Ban-ki-Moon, comprendeva per lo più misure tendenti a garantire nel paese quei diritti civili ed economici minimi da sempre conculcati dall’oligarchia grazie all’impunità concessa agli apparati repressivi e agli squadroni della morte. Una serie di dispositivi e di principi, tutti da realizzare, che avrebbero avvicinato il paese alla democrazia liberale e non certo al socialismo: una timida riforma agraria, la distribuzione ai contadini e alle comunità delle terre sequestrate con la violenza dai possidenti, la reintegrazione nella vita civile dei circa 7 mila combattenti, la liberazione di una parte consistente dei quasi 10 mila prigionieri politici, la possibilità per i guerriglieri di dar vita ad un partito politico legale e di partecipare alle prossime elezioni legislative, la formazione di speciali Tribunali ai quali demandare la punizione di chi ha commesso crimini di sangue e di guerra supervisionati da esperti e garanti internazionali. Nessuna "impunità", anzi...

Ora però la vittoria del ‘no’ al referendum di ieri mette tutto in discussione, a partire dalla smobilitazione di migliaia di guerriglieri (una delle parti più delicate dell’accordo), sui quali incombe lo spettro dello sterminio, come avvenne con i militanti dell’Unione Patriottica, partito politico della sinistra radicale formato negli anni ’80 da alcune organizzazioni guerrigliere in seguito alla smobilitazione e che venne letteralmente decimato: circa 4000 suoi dirigenti e membri vennero assassinati dagli apparati dello stato, dalle formazioni paramilitari di estrema destra e dai pistoleros al soldo degli oligarchi.

Una volta reso noto l’inatteso risultato del referendum, ieri il comandante Timochenko ha riaffermato che la guerriglia non tornerà indietro rispetto alle sue scelte.

"Malgrado questa sconfitta, proseguiremo nel dialogo, useremo le parole abbandonando le armi, per continuare a costruire il futuro del paese in pace" ha detto da Cuba il comandante guerrigliero esprimendo il "profondo dispiacere delle Farc sul fatto che il potere distruttivo di chi semina odio e rancore abbia influito sull'opinione pubblica colombiana". A seguito del risultato del voto, le Farc affrontano ora "come movimento politico una sfida" ancora più grande per poter "costruire una pace stabile e durevole", ha aggiunto Timochenko, il quale, rivolgendosi al popolo colombiano, si è detto sicuro che "la pace trionferà".

Ma è chiaro che lo stop impresso dal voto al processo negoziale imprime una svolta quanto mai negativa alla questione, legittimando quelle correnti dell’elite che hanno remato contro la pace. Alcuni analisti prevedono ora un sostanziale rallentamento della restituzione delle terre ai legittimi proprietari ai quali erano state sottratte dai latifondisti o dalle autorità e un ulteriore aumento degli omicidi politici ai danni degli attivisti sindacali e sociali, che a dir la verità non si sono mai arrestati in questi ultimi anni (quasi 55 solo dall’inizio del 2016).

Analizzando il risultato del referendum su base territoriale, si nota chiaramente come le regioni in cui il conflitto armato ha prodotto le maggiori conseguenze – come Cauca, Nariño e Putumayo – la popolazione abbia partecipato con più entusiasmo all’appuntamento votando in massa per il ‘si’. Sono state invece le grandi città ad affondare il processo di pace, decidendo quindi anche per gli abitanti delle regioni rurali e della selva.

Dal punto di vista legale gli accordi di pace entrano in una sorta di limbo indefinito che saranno i rapporti di forza politici interni ed internazionali a orientare ora in un senso o nell’altro. Secondo la legge che regola il referendum, gli accordi firmati a Cartagena il 26 settembre non possono essere immediatamente implementati perché non hanno di per sé validità giuridica fin quando non saranno tramutati in legge. Ora Uribe e i suoi pretendono una rinegoziazione dei vari capitoli chiusi all’Avana poche settimane fa, con la cancellazione delle parti più invise all’oligarchia e all’estrema destra. Ad esempio la contestatissima Magistratura Speciale di Pace, che prevede tra le altre cose che gli imprenditori che hanno finanziato il paramilitarismo e gli squadroni della morte, e che i dirigenti e funzionari degli apparati statali responsabili di crimini di guerra, confessino le proprie responsabilità davanti alla Corte e "facciano ammenda".

Difficile dire cosa accadrà ora. Una provocazione contro i guerriglieri o magari un ‘attentato’ contro l’esercito, la polizia o qualche autorità da attribuire alle Farc potrebbe precipitare di nuovo il paese nello scontro armato frontale, spazzando via in pochi minuti tre anni di negoziati. Comunque vada il referendum, nonostante non fosse previsto alcun quorum, ha valore vincolante e il governo dello screditato presidente Juan Manuel Santos dovrà tenere conto del risultato, anche se frutto della volontà di una piccola minoranza degli elettori (appena il 37% di partecipazione…). Il che vuol dire che il governo dovrà sospendere, in vista di nuovi passi, tutte le procedure istituzionali e legislative connesse all’implementazione degli accordi, e lo stesso avverrà anche sul fronte internazionale.

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