La Germania, nelle attuali intenzioni di Trump, deve essere infatti messa in difficoltà come la Cina, creditori degli Usa, in modo da spostare i rapporti di forza a favore di Washington nei confronti di entrambi i paesi
Il mandato presidenziale di Donald Trump non è ancora cominciato e già si vedono all’orizzonte alcune questioni controverse.
Certo, si tratterà di capire quanto, in Trump, alle intenzioni
corrisponderanno i fatti, cosa sempre più difficile nella complessità
della politica internazionale attuale. E questo specie quando un
presidente, seppur eletto nella pienezza dei poteri, deve fare i conti
con la stessa spaccatura presente nel partito dal quale è emerso come
candidato. Mettendo tutto tra parentesi, al momento, rispetto all’Europa, le intenzioni di Trump appaiono piuttosto chiare: favorire
la Brexit, spaccare l’Europa, mettere in difficoltà uno dei principali
detentori di debito pubblico americano, la Germania.
Berlino, nelle attuali
intenzioni della nuova amministrazione, deve essere infatti messa in
difficoltà come Pechino, creditore ancora più grande degli Usa, in modo
da spostare i rapporti di forza a favore di Washington nei confronti di
entrambi i paesi. Ma anche, almeno nelle intenzioni fin qui
manifestate, in modo da far trarre profitto alla propria base produttiva
in questi spostamenti di rapporti di forza. Nello scenario europeo, la
possibilità di indebolire la Germania passa attraverso un processo di
Brexit che sia svantaggioso per Berlino.
Si tratta di intenzioni
realistiche? In ogni caso Trump ha detto alla stampa britannica che, una
volta entrato pienamente in carica, proporrà alla Gran Bretagna un
patto bilaterale. Patto le cui clausole sono, al momento, tutte
da capire mentre è chiara la direzione che il nuovo presidente Usa vuol
favorire: una hard Brexit che metta in discussione le basi materiali
dell’Unione Europea.
Cosa significa hard Brexit?
Se realizzabile davvero, le incognite in questo processo ci sono anche
per i più accaniti addetti ai lavori, questa è possibile in due
direzioni: la prima è quella di trasformare la Gran Bretagna
nello stato più libero dalle tasse in Europa. Una sorta di Irlanda più
grande, persino più aggressiva nei livelli bassi di tassazione offerta
alle imprese, con l’aggiunta di servizi finanziari complessi e parchi
tecnologici ben superiori a quelli di Dublino. Un paese dove le
tasse sono minime, la sponda per l’evasione fiscale massima (facendo
concorrenza al Lussemburgo che, guarda caso, esprime il commissario
Ue) e il lavoro ha diritti che stanno sotto ai già aleatori standard
precedenti. Con una immigrazione “selettiva” s’intende. E una sterlina
che va verso il basso, in grado di lavorare sulla competizione
internazionale delle merci inglesi.
L’altra direzione, quella di una
hard Brexit, è quella di mantenere il primato della borsa di Londra,
motore di metà del Pil britannico, egemone in Europa. Ci sono
diversi analisti che sostengono come la borsa di Londra sia ancora
all’avanguardia nella capacità di attirare e regolare i capitali che
affluiscono sulla propria piazza. Capacità non raggiungibile, nel medio
periodo, né da Parigi né da Francoforte.
Insomma, la nuova
amministrazione americana proverà, poi vedremo i risultati, a forzare,
insistendo nell’alleanza con la Gran Bretagna, la base
materiale dell’unione europea. Del resto il consenso alle frasi di
Trump, quelle sull’Europa come strumento utile soprattutto alla
Germania, va oltre la composita area populista.
Le conseguenze per l’Italia? Si
consideri, come è naturale, che oltre il 56% delle esportazioni
italiane, statistiche Mise, è in Europa (tra paesi Ue e non Ue) e che
circa il 10%, sempre per le stesse statistiche, è in America
settentrionale. Si tratterebbe quindi di un eventuale, potenziale
mutazione in grado di influire sulla struttura delle esportazioni, e
quindi sulla spina dorsale dell’economia italiana.
Senza entrare nel dettaglio si intuisce quindi che le frizioni tra Usa, Uk e Ue ci riguardano da vicino. Come il progetto di riforma della tassazione delle imprese presentato per la camera di Washington dai repubblicani.
Se approvato, come giustamente rileva Seminerio sul Fatto Quotidiano,
si tratterebbe di una scossa tellurica non indifferente per gli Usa e, a
cascata, sull’economia globale. Si tratta di una riforma della
tassazione, quando si dice mai sottovalutare le politiche fiscali, che
nelle intenzioni favorirebbe l’esportazione delle imprese americane
colpendo le importazioni. L’intenzione, esplicita, è quella di creare
valore negli Usa rimettendo in discussione la catena internazionale dei
fornitori delle aziende americane. Favorendo la creazione interna di
fornitori. Le conseguenze, per fermarsi a settori più noti, sul mercato
dell’auto, sul prezzo del petrolio e sulla catena della grande
distribuzione possono essere notevoli. Ma non solo in patria, visto che
gli altri paesi sarebbero giocoforza costretti ad adeguarsi alla nuova
situazione.
La Brexit, nelle intenzioni di
Trump, dovrebbe stare dal lato vincente di questi processi e la Germania
trovare un processo di ridimensionamento. Questo nelle
intenzioni dei promotori di queste politiche che, tra l’altro, sono in
concorrenza tra loro. Tra Paul Ryan, promotore di questa legge alla
Camera, e Trump la rappresentanza sociale è differente, ci sono giochi
politici (il progetto di riforma della tassazione potrebbe entrare in
conflitto con l’idea di dazi di Trump). Il punto è che Trump e Brexit, i
grandi eventi del 2016, cominciano adesso a far capire se sono fenomeni
pieni di intenzioni, abbozzi di politiche ma inefficaci in pratica.
Oppure se rappresentano, magari confusamente, qualcosa in grado di
incidere sulla base materiale dell’economia globale. Inutile
dire che, in ogni caso, in Italia, a differenza di altri paesi, siamo
fuori centro rispetto alla discussione su queste dinamiche. Cosa accadrà semplicemente lo vedremo arrivare sui nostri territori.
Redazione, 17 gennaio 2017
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