Il 2016 sarà ricordato come l’anno in cui Israele ha ucciso più
minorenni nell’ultimo decennio in Cisgiordania e Gerusalemme est. A
sostenerlo è uno studio dell’organizzazione non governativa “Defence for Children International-Palestine” (DCIP) pubblicato la scorsa settimana. Secondo la ricerca, sono 31 i giovani palestinesi che sono stati uccisi dall’esercito israeliano quest’anno.
L’ultimo è stato il 15enne Farid Ziyad Atta al-Bayed morto il 23
dicembre dopo 69 giorni di coma. Faris era rimasto ferito negli scontri
con i militari di Tel Aviv divampati lo scorso 15 ottobre nel campo
profughi di Jalazoun (vicino a Ramallah).
Nel suo rapporto l’ong denuncia come per queste morti le autorità israeliane non hanno mai accusato nessun soldato.
Non è una novità: secondo lo studio, infatti, negli ultimi 3 anni solo
una volta un militare è stato iscritto nel registro degli indagati. “Dal
2014 le forze israeliane fanno maggior utilizzo di una forza eccessiva
per reprimere le manifestazioni” accusa Ayed Abu Eqtaish, direttore del
programma “Responsabilità” presso il DCIP. “La forza letale
sembra essere usata regolarmente dall’esercito perfino in situazioni
dove non è giustificata e nessuno ne paga il prezzo. In questo modo,
però, sempre più bambini sono a rischio”.
La politica del grilletto facile dei soldati israeliani contro i
minori palestinesi è apparsa con tutta evidenza questo mese. Il 18
dicembre Israele ha ucciso Ahmad Hazem Atta Zeidani (17 anni) nel
villaggio cisgiordano di Beit Rima (nord ovest di Ramallah) nel corso
degli scontri notturni con le truppe israeliane. Sorte “migliore”,
invece, è toccata il 14 dicembre a Fahmi Juweilis (13 anni) che è
riuscito a sopravvivere nonostante sia stato colpito alla testa da un
frammento di proiettile mentre ritornava a casa dopo essere uscito da
scuola. I militari, si difende però l’esercito, avevano aperto il fuoco
per uccidere un palestinese che a Gerusalemme li voleva accoltellare.
Tra il 29 novembre e il 12 dicembre, l’Ocha (l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli Affari umanitari) riferisce
che l’esercito ha ferito 11 bambini durante gli scontri con i
palestinesi tra Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza (81 nel corso
dell’interno 2016 secondo i dati raccolti dal DCIP). La stampa
palestinese sostiene, inoltre, che in molti casi in cui sono rimasti
feriti o uccisi i minorenni le operazioni di soccorso sarebbero state
rallentate dalle forze armate israeliane.
Non meglio se la passano però i più anziani. Ieri
una donna palestinese, la 35enne Jihan Mohmmaed Hashimeh, è rimasta
ferita dopo essere stata raggiunta dai proiettili sparati dai soldati
presso il checkpoint di Qalandiya (fra Ramallah e Gerusalemme). Secondo
la portavoce militare Luba al-Samri, la “sospetta avente carta
d’identità araba” si sarebbe avvicinata ai militari nella corsia
destinata ai veicoli. Avendo notato un coltello in mano della donna,
scrive l’esercito in una nota, i soldati avrebbero chiesto alla donna di
fermarsi. Hashimeh avrebbe però ignorato il loro stop e avrebbe
proseguito verso di loro. A quel punto, sentendosi “minacciati”, i
soldati le avrebbero sparata. Secondo fonti palestinesi, invece, la donna
con problemi di salute si sarebbe dovuta recare a Gerusalemme per una
visita e sarebbe entrata nella corsia destinata ai veicoli per errore.
L’inflessibilità mostrata dalle autorità israeliane contro i palestinesi diminuisce quando a sparare sono gli israeliani. Emblematico il caso di Elor Azarya,
il soldato accusato di aver ucciso a Hebron lo scorso marzo un presunto
aggressore palestinese gravemente ferito e inerte a terra. Ieri ad
Azarya è stato concesso di fare ritorno a casa per “una breve pausa”
(fino a domenica) in vista della ormai prossima sentenza. Il 19enne –
“eroe” per gran parte degli israeliani – da aprile è in “detenzione
aperta” in una base militare israeliana dove è libero di muoversi e
ricevere visite dei familiari. Un trattamento di tutto rispetto che
contrasta nettamente con quello che spetta ai detenuti palestinesi, come
i report dell’organizzazione ad-Dameer da anni mostrano.
Il 2016 sarà ricordato anche come l’anno in cui il complesso
di al-Aqsa ha registrato il più alto numero di incursioni da parte degli
estremisti di destra israeliani. A sostenerlo è una
dichiarazione rilasciata oggi dal Waqf che gestisce il luogo sacro. Il
direttore del dipartimento delle relazioni pubbliche del fondo
fiduciario islamico, Firas ad-Dibs, ha detto che solo quest’anno ci sono
state 14.806 incursioni dei coloni nel compund santo. Quelle che
Israele definisce “visite di turisti” (quasi come fossero innocue gite
di ingenui visitatori) hanno un chiaro intento politico: mirano ad
alterare lo status quo nel luogo sacro (il terzo per l’Islam)
rivendicando il pieno possesso ebraico del sito. Da tempo i “turisti”
(con l’appoggio di parte del governo israeliano) parlano esplicitamente
di distruzione dei luoghi santi islamici presenti sulla Spianata e della
ricostruzione del Tempio ebraico di cui oggi resta solo il Muro del
Pianto.
Nei Territori Occupati palestinesi non se la passa bene neanche il mondo dell’informazione.
Martedì il Centro palestinese per lo sviluppo delle libertà dei media
(Mada) ha rivelato come il mese di novembre abbia registrato un
significativo aumento nelle violazioni contro la stampa. La maggior
parte delle infrazioni, ha denunciato Mada, sono state commesse dalle
forze armate israeliane. Secondo lo studio della ong che ha base a
Ramallah, solo lo scorso mese sono state registrate nei Territori
Occupati 31 “violazioni contro la libertà dei media”: 27 compiute dai
militari di Tel Aviv (erano state 11 ad ottobre) e 4 da parte
dell’Autorità palestinese. Tra i reati commessi dai soldati israeliani,
Mada ha denunciato le restrizioni di movimento per molti giornalisti, i
raid presso le redazioni, la distruzione di proprietà e la detenzione
degli operatori dell’informazione palestinesi.
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