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17/04/2017

Erdogan vince ma non convince, la Turchia entra nell’orbita mediorientale

Erdogan e l’Akp non avevano mai perso, in 15 anni di vittorie elettorali, nelle grandi città come Istanbul e Ankara: la Turchia dopo il voto appare divisa in due. «Il popolo turco non è tanto barbaro da meritare una costituzione del genere»: con questa frase il giornalista e scrittore Ahmet Altan commentava qualche anno fa la carta fatta approvare dai militari dopo il colpo di stato del 1980. Oggi Altan è in carcere e al processo contro di lui e altri 15 giornalisti il procuratore ha chiesto una condanna all’ergastolo. I tempi cambiano – i militari sono stati messi all’angolo dopo il colpo di Stato fallito – ma forse non così tanto: Erdogan si aggiudica in un testa a testa il referendum che assegna pieni poteri al presidente e trascina la Turchia verso un modello più vicino alle autocrazie orientali che all’Europa o all’Alleanza Atlantica.

Erdogan vince ma non convince: il Paese, già tormentato dal terrorismo dei jihadista e da quello curdo del Pkk, è spaccato e lui ha perso circa il 10% dei voti. Anche le contestazioni sono feroci: il partito repubblicano Chp afferma che sono state conteggiate milioni di schede che non avevano neppure e il timbro elettorale dello Stato.

Ma non c'è da farsi soverchie illusioni. Finora il Reis non ha mostrato inclinazioni verso il compromesso e quando nel 2015 ha concluso l’accordo con i curdi di Ocalan e del Pkk lo ha buttato all’aria quando non gli serviva più. A meno di qualche clamorosa sorpresa non rinuncerà a esercitare tutto il potere possibile, come del resto ha fatto all’indomani del fallito golpe del 15 luglio scorso quando in questo Paese è stata fatta tabula rasa della libertà di stampa, dell'opposizione e del dissenso.

Porta a casa un magro risultato in termini percentuali se si pensa che lui e il suo partito islamico Akp hanno occupato il 90% degli spazi tv e usato lo stato d’emergenza per ridurre al minimo i comizi e i raduni dei partiti schierati per il “no” alla riforma presidenziale.

Secondo le proiezioni perde le grandi città come Istanbul, Ankara e nell'analisi del voto si fa notare che la base del partito Mhp, la destra iper-nazionalista dei Lupi Grigi alleata dell’Akp, ha voltato le spalle alle direttive del capo del Devet Bahceli votando contro la riforma presidenziale. Il mix tra islamismo conservatore e nazionalismo, con il richiamo alle glorie ottomane, non ha funzionato come sperava il capo.

Quasi il 50% della Turchia dice “no”, Hayir, ma questo non basta a frenare la corsa del Reis che adesso può aspirare a rimanere in sella fino al 2034.

La Turchia con questo voto entra decisamente nell’orbita di quel Medio Oriente dove Erdogan, con le primavere arabe iniziate nel 2011, l’ha proiettata raccogliendo peraltro sonore sconfitte. Dal fallimento della guerra in Siria per abbattere Bashar Assad, all’appoggio ai Fratelli Musulmani in Egitto, sbalzati dal colpo di stato del generale al Sisi. Non solo: nell’Anatolia del Sud Est la maggioranza di curdi è contro di lui e guarda con interesse ai confratelli del Rojava, il Kurdistan siriano, che si stanno guadagnando la loro autonomia ai confini turchi. Per limitarne l’influenza Erdogan ha dovuto chinare la testa davanti a Mosca e Teheran, un vero ribaltone per un Paese membro della Nato da 70 anni.

Con questo referendum Erdogan concentra nelle mani del presidente pieni poteri. È abolita la figura del primo ministro e l’esecutivo viene affidato nelle mani del capo dello stato, il quale ha il potere di nominare e dimettere i ministri e di sciogliere il Parlamento. Al presidente viene anche trasferita buona parte del potere legislativo con la possibilità di emanare quando vuole i decreti legge senza mai passare dal Parlamento.

Vacilla anche l’autonomia del potere giudiziario perché al presidente o al suo partito è assegnata la nomina dei membri del Consiglio superiore della magistratura. Il presidente in pratica fa ciò che vuole: ogni azione giuridica nei confronti del capo dello stato deve avere l’approvazione di due terzi dei parlamentari.

In pratica il presidente viene blindato e la Turchia consegnata a una sorta di autocrazia. L’ispirazione viene dalla storia ottomana più che da Ataturk, il padre della patria. In uno dei kit dell’Akp è riabilitata la figura del sultano Abdulhamid II: dipinto nella tradizione islamica come un’incarnazione del dispotismo, viene celebrato da Erdogan come esempio di modernizzatore e difensore dell’identità islamica.

Eppure era stato proprio l’Akp, il partito islamico che dal 2002 vince in questo Paese tutte le elezioni, a mettersi alla testa di uno slancio riformatore con l’appoggio e la spinta dell’Europa sull’onda dell’apertura dei negoziati di adesione. Sull’ingresso in Europa allora i sondaggi davano un consenso generale: i turchi erano a larga maggioranza filo-europei. Erdogan in campagna elettorale ha evocato adesso la possibilità di convocare altri due referendum: uno per dire no all’Unione, l’altro per ristabilire la pena di morte.

Fu negli anni del boom economico che si cominciò a parlare di modello turco: un grande Paese musulmano che sembrava avere imboccato la strada della democrazia e dello sviluppo con un mix tra conservatorismo religioso, liberalismo e tradizione.

Quel modello è finito e ora si valutano le conseguenze. Erdogan non può mollare la presa interna e tenterà di cogliere qualche successo esterno per far capire che il capo non ha perso smalto nonostante questo successo risicato. L’Europa è diventata il suo bersaglio preferito e quasi certamente reclamerà i vantaggi promessi dall’accordo sui migranti, in primo luogo i visti per la libera circolazione dei turchi nell’Unione. Ma non basterà: il presidente con i superpoteri dovrà ancora dimostrare di essere un vero Reis e per la Turchia questa non è una buona notizia.

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