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31/12/2017

1922-2017: dall’URSS alle privatizzazioni capitaliste in Russia

Nel giorno in cui, 95 anni fa, il 30 dicembre 1922, si tenne il primo Congresso dei soviet dell’URSS, nel corso del quale i rappresentanti di RSFSR, USSR, BSSR e Federazione Socialista Sovietica Transcaucasica sottoscrissero la dichiarazione sulla formazione dell’URSS, non è fuori luogo ricordare come tutt’oggi, a 26 anni dalla fine dell’Unione Sovietica, alcuni dei suoi affossatori si vantino pubblicamente, anche in trasmissioni televisive, di non aver rimpianti per quanto accaduto, grazie anche al loro personale e diretto contributo.

E’ il caso di colui che, sin dai primi anni ’90, veniva definito il “primo privatizzatore” di Russia, quel Anatolij Čubajs, tra i delfini di Boris Eltsin ed esponente dell’ala più sfrenata del passaggio al capitalismo. In un confronto televisivo con l’ex membro del PCUS, Sergej Kurghinjan (fisico-matematico, nonché regista e leader del movimento “L’essenza del tempo”, la cui sezione regionale ha ottenuto di recente l’annullamento della decisione di inaugurare a Rostov sul Don un monumento a Solženitsin) andato in onda pochi mesi fa e ora riproposto da vari canali, Čubajs afferma che “Non ho mai rinnegato e non ho intenzione di rinnegare una mia sola parola. In cosa consistono le pretese accampate dal popolo nei confronti della privatizzazione? La risposta è semplice: che essa non fu onesta. E la mia posizione in proposito è che tali pretese siano legittime: la privatizzazione fu in effetti ingiusta... Naturalmente, avremmo voluto che fosse fatta in maniera onesta, con una grande massa di denaro, dando a tutti la possibilità di comprare, seguendo le norme adottate dai migliori paesi occidentali, secondo i canoni classici, ecc, ecc. Ma c’era un piccolo dettaglio: non esisteva più uno Stato. Esso era stato per metà distrutto prima dell’agosto 1991 e si era ridotto in macerie dopo l’agosto ’91 e il GKČP...”. Certo, i vari Čubajs non sono stati casuali, afferma Kurghinjan; e non sono stati nemmeno messi al loro posto dagli americani, anche se sono stati ben addestrati dagli USA. No, essi sono stati messi al loro posto dalla nostra burocrazia di partito. Di fronte alla “raffica di miti e fandonie” sparati dall’occidente contro l’URSS, dice Kurghinjan, il cittadino sovietico avrebbe dovuto esser difeso dalla sezione ideologica del PCUS: ma tale sezione era diretta da Aleksandr Jakovlev, il quale, invece di ergere una barriera contro tali miti, o respingerli, era fermamente convinto di doverli importare”.

E, oggi, di cosa si vanta ancora Čubajs? In frammenti di diverse interviste racconta: “cedemmo le proprietà a coloro che vi erano più prossimi: banditi, segretari dei Comitati regionali di partito, direttori di fabbriche. Proprio questo evitò il bagno di sangue. Perché, se avessimo cercato di non dar loro le proprietà, essi se le sarebbero comunque prese; le avrebbero prese e basta, senza alcuna procedura legittima. Invece, così, essi le presero seguendo una procedura legittima. E ciò, per quanto appaia risibile, diede una certa stabilità politica alla costruzione”. Così che, a ragione, Kurghinjan nota “lo abbiamo creato noi questo tipo di capitalismo”. Con una “procedura legittima”!

Ancora Čubajs: “I dirigenti comunisti detenevano un potere immenso: politico, amministrativo, finanziario. Ce ne dovevamo sbarazzare, ma non avevamo abbastanza tempo... Non potevamo scegliere tra una privatizzazione “onesta” e una “disonesta”, perché una privatizzazione onesta presuppone delle regole precise, stabilite da uno Stato forte, in grado di assicurare l’osservanza delle leggi. All’inizio degli anni ’90 non avevamo né uno stato, né un’ordine legale; dovevamo scegliere tra un comunismo banditesco e un capitalismo banditesco”.

In un’intervista del marzo 2010 a Forbes, Čubajs sostiene che “Principale base di sostegno del movimento democratico era in primo luogo l’intellighentsja , scientifica, tecnica, creativa. A quel tempo, eravamo perfettamente consapevoli che la maggior parte di essa lavorava nel complesso militare-industriale e che il paese non aveva risorse sufficienti a mantenere quel complesso al precedente livello. Ciò significava che la stabilizzazione finanziaria avrebbe colpito inevitabilmente e con particolare durezza proprio quella categoria sociale”.

I fili che tengono insieme tutte queste perle, li aveva tessuti già a suo tempo, negli anni ’90, il Ministro degli esteri yankee di Boris Eltsin, Andrej Kozyrev, a uso e consumo del settimanale all’epoca circondato dell’aureola di “rivista della perestrojka”, Moskovskie Novosti: “Credo che non ci sia altro interesse per la società se non quello di viver bene, bene come vivono in Occidente... Tutta l’aristocrazia russa, i commercianti, gli scrittori, l’intellighentsja, tutti loro vivevano nell’Europa occidentale. E non a caso. Tutto il resto è demagogia a uso dei disgraziati. Se non avete soldi per comprare una villa sulla Costa azzurra, allora cominciano a raccontarvi la favola che non ne avete bisogno, che vivete bene in questa “Asiropa””.

Evidentemente, come ci vivono bene oggi i Mikhelson, i Mordašov, i Lisin, i Timčenko, per citare solo i primi quattro russi della classifica 2017 di Forbes, sebbene occupino posti dal 41° al 58° nel rating mondiale, con “appena” 16 o 18 miliardi di dollari. Non certo quei 20 milioni di russi – cifra confermata anche dalla Corte dei conti – che, secondo Moskovskij Komsomolets, sarà difficile sollevare dalla povertà senza un qualche “regalo” pre elettorale. Venti milioni di persone che, secondo le stime governative, dispongono di meno di 10.000 rubli al mese, quando il minimo ufficiale di sopravvivenza è considerato 10.328 rubli.

Ora, il Ministro del lavoro, Maksim Topilin ha promesso di dimezzare, nel giro di 6-7 anni, l’attuale 13-14% di popolazione considerata al di sotto della soglia di povertà. In che modo? Innalzando il minimo salariale al livello del minimo di sopravvivenza, ha detto; aumentando in generale i salari; aggiungendo bonus demografici. Per il primo obiettivo, si cita la data del 1 gennaio 2019. L’aumento dei salari, invece, in teoria è già iniziato: ad esempio, per i dipendenti pubblici, già nel 2017 è stato del 7% (3% reale, considerata l’inflazione), ma i redditi reali generali sarebbero diminuiti del 1,3%. Obiettivi non del tutto reali, commenta Moskovskij Komsomolets, dato un aumento del PIL del 1,8%, a fronte, ad esempio, di India e Cina, con crescite del 6-7%.

Oggi, stando ai sondaggi del VTsIOM, per condurre un livello decente di vita a Mosca o a Piter, una famiglia dovrebbe poter disporre di almeno 56.600 rubli a persona, mentre la cifra media per tutta la Russia è invece di 39.404 rubli. E va peggio per i pensionati.

Secondo il Fondo pensioni russo, nel 2017 la media annuale della pensione di vecchiaia per i pensionati non occupati è stata di 13.800 rubli; quella della pensione sociale, di 8.800 rubli. Lo stesso Fondo assicura che in Russia “non ci sono pensionati sotto la soglia di povertà: nessun pensionato dispone di un reddito mensile inferiore al livello considerato quale minimo di sopravvivenza nella regione in cui vive. Il direttore del Fondo, Anton Drozdov ha dichiarato che nel 2018 l’assegno medio dei pensionati non occupati sarà portato a 14.300 rubli e, per il 2020, a 15.500 rubli. Nella conferenza stampa di fine anno, Vladimir Putin ha accennato al fatto che l’attuale età pensionistica (55 anni per le donne e 60 per gli uomini) sia stata fissata negli anni ’30, quando la durata della vita era diversa, e ha parlato del possibile innalzamento dell’attuale minimo lavorativo di 15 anni per accedere alla pensione; nulla di nuovo, dunque: da tempo i Ministeri finanziari parlano dell’innalzamento dell’età pensionabile.

Se questa è la situazione dei pensionati, a livello generale Russkaja Vesna si dice “sorpresa” di scoprire che il divario tra ricchi e poveri sia identico in Russia e in America, quantomeno nel senso che in ambedue i paesi l’élite benestante detiene la stessa quota di ricchezza nazionale. Rusvesna riporta i dati pubblicati in questi giorni da World Inequality Report, secondo cui la quota di redditi del 10% di popolazione USA più ricca sia passata, tra il 1980 e il 2014, dal 22 al 39%, grazie soprattutto alla deregulation reaganiana. In Russia, dal 1995 al 2015, è balzata dal 22 al 43%, grazie anche alla “privatizzazione ingiusta” degli anni ’90, quando i “direttori rossi” facevano man bassa dei čubajsiani “voucher di privatizzazione” distribuiti a tutta la popolazione, accaparrandosi colossi industriali da svendere poi sui mercati esteri.

E’ forse anche con gli oboli attinti da tali ricchezze (sin dagli anni ’90, i ricchi russi amano mostrarsi generosi nelle elargizioni alla chiesa, forse a espiazione delle “ingiustizie della privatizzazione”) che, nella sola diocesi di Mosca, nel 2017, il numero di templi e cappelle si è ulteriormente arricchito di 24 unità, attestandosi a quota 1.154. Che dio renda merito a Čubajs & Co.

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